Il bel paese (1876)/Serata XXVII. - Il Vesuvio nella fase pozzuoliana
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SERATA XXVII
Il Vesuvio nella fase pozzuoliana.
La fase pozzuoliana, 1. — Quattro anni dopo, 2. — Il cono del Vesuvio mutato in colle fiorito, 3. — Emanazioni vulcaniche, 4. — Cristalli per sublimazione, 5. — Il nuovo Vesuvio, 6. — Il cratere invisibile, 7. — Quanto è cambiato! 8. — La terza volta al cratere, 9. — L’apparato del 15 novembre 1868, 10.
1. «Sulla fine della precedente conversazione io vi annunciava che il Vesuvio, quando lo visitai la seconda volta, era entrato nella sua fase pozzuoliana».
«Ed io», disse il Battista, «aveva domandato....»
«Avevi domandato che cos’è questo nome di fase pozzuoliana. Metti che sia un nome di mia invenzione, creato li per lì sul modello di quell’altro di: fase stromboliana, per indicare quel periodo di tranquillità più o meno lungo, in cui entra d’ordinario un vulcano in seguito a una grande eruzione, o negli intervalli delle eruzioni stromboliane. Andando a Napoli, visiterete anche la Solfatara di Pozzuoli. Questa così detta Solfatara è un cratere, anzi un vulcano come il Vesuvio, tanto che ebbe una formidabile eruzione nel 1193. Dopo quel passaggero risveglio, la Solfatara si è addormentata, o piuttosto finge di dormire. Le pareti e il fondo del cratere sono in gran parte ricoperti di robusta vegetazione. Scavate appena due metri sotto le zolle fiorite, e il suolo che scotta vi avviserà ben tosto che voi vi trovate entro la gola di un vulcano. Poi là in un canto vedrete ciò che propriamente i Napoletani chiamano Solfatara, cioè una colonna di vapore che fischia attraverso una spaccatura e ribolle dal seno di un laghetto d’acqua termale. Il solfo, il realgar, i solfati di magnesia e di ammoniaca ed altri minerali prodotti dai vapori per sublimazione, o nati dalla reazione dei vapori medesimi contro le lave stesse della Solfatara, vi dicono che l’attività di quel vulcano è tutt’altro che spenta.
» Esso si trova in quella fase di semplice emanazione, in cui si tien pronto a ripigliare da un istante all’altro tutto il suo vigore. Non c’è vulcano che, dopo un’eruzione, si addormenti o temporaneamente o per sempre, senza passare per poco o per molto attraverso questa fase. Quando le dejezioni sono cessate, quando le lave più non ribollono nell’interno del cratere, quando le scorie e le lave conglutinate hanno edificato una robusta vôlta sull’interna fornace; i gas e i vapori trovano ancora facilmente degli spiragli per mostrarsi all’esterno. Una nube leggera oscilla sull’estinto cratere; quà o là sbuffano le fumajole, sgorgano sorgenti calde, si svolgono la micidiale moffetta, o il gas infiammabile, o vapori solforosi, che tappezzano di cristalli di solfo le spaccature e le cavità della roccia. La Solfatara di Pozzuoli è ben lontana dal presentare tutti quei fenomeni che caratterizzano questa nuova fase vulcanica: è tuttavia un vulcano che vi ci si trova e ci persiste da lunghi secoli e, non foss’altro, la sua celebrità è ragione sufficiente perchè deriviamo da essa il nome della fase che essa presenta, cioè il nome di fase pozzuoliana, come dallo Stromboli quello derivammo di fase stromboliana.
2. » Prima di dirvi come il Vesuvio si trovasse in questa fase ai tanti di luglio nel 1869, bisogna premettere che nel 1865, quando lo visitai per la prima volta, io n’ero appena partito che lui si era messo di malumore, brontolando, sbuffando, minacciando ad ogni tratto, di farne una delle sue. Questo stato d’inquietudine gli durava ancora nel 1868. La sera dell’8 ottobre, dell’anno stesso uscirono lave dalla cima del cono e la mattina del 15 novembre, una linea di fumajole, che discendeva dalla sommità della montagna fin verso la metà dalla parte dell’atrio del Cavallo, mostrò d’un tratto che il cono si era squarciato lateralmente. Alla base visibile della fenditura, quasi si trattasse di un tino ripieno di denso liquido, le lave sgorgarono a torrenti. I vapori, soffiando forte entro quella pegola spessa, e buttandone in alto a migliaja pilacchere e brandelli, che ricadendo venivano a conglutinarsi insieme come grumi di cera, improvvisarono dodici coni disposti sopra tre linee convergenti, indicanti che la spaccatura si era diramata in tre in quel punto. Anche la lava in fatti si era divisa in tre fiumi, che formarono quasi un lago sul fondo dell’Atrio, dilatandosi sulle lave più antiche, e di là buttandosi giù per la china, travolgendo boschi, vigneti, case, e tutto quanto le si abbatteva per via. L’emissione della lava cessò verso il 24 novembre, quando cioè il Vesuvio si senti alleggerito da quel soverchio di sei o sette milioni di metri cubici di roba, che gli bolliva nel ventricolo. Tuttavia esso era ben lontano dal mostrarsi disposto a firmare la pace. Anzi la tregua fu turbolenta; fu di chi, spossato ma non vinto, piglia tempo a radunare armi ed armati. È in questa fase di quiete menzognera che io lo colsi nel giugno del 1869, quando vi andai cogli studenti dell’Istituto tecnico superiore di Milano. Stavolta, come vedete, io non era più l’oscuro visitatore del 1865. Anzi ebbi l’alto onore di essere accompagnato dal professor Palmieri, direttore dell’Osservatorio e noto al mondo intero per le sue osservazioni sul Vesuvio, e pel suo sismometro».
«Che cos’è il sismometro?» interruppe tosto la Giannina.
«Uno strumento che indica e misura le scosse dei terremoti. Non chiedete di più per non interrompermi, se no andiam troppo per le lunghe.
3. » Salendo di buon mattino, rividi le lave del 1858, rividi l’Osservatorio, poi l’Atrio, che mi parve tutto trasformato, poi si pigliò un sentieruzzo tutto nuovo, perchè i vecchî sentieri erano stati distrutti dalle precedenti eruzioni, e su! guadagnando l’erta a fatica come la prima volta. Ma quanto era più animata la scena! A vedere quello stuolo numeroso di giovani studenti tutti brio, tutti vita, tutti entusiasmo, accompagnati dai loro professori, sparsi come macchiette semoventi, lesti come caprioli, aggrapparsi ai fianchi di quel cono nero, sormontato da un pennacchio di fumo parimente nero e scomposto come una chioma scarmigliata.... Il vento di sud — est piegava quel fumo verso il golfo, e talora quasi pigiandolo contro terra lo pianava a guisa di mantello di bambagia sul fianco del cono. Il mio occhio intanto, spingendosi ansioso, andava spiando ogni tratto dell’amica montagna, come si fa con una cara persona, non vista dopo molto tempo e molte peripezie, che si va scrutando quanto le resta, e quanto dell’antica fisonomia fu guasto o dal tempo o dal dolore. E di peripezie il Vesuvio ne avea passate dopo che io l’aveva conosciuto per la prima volta! Mano mano che mi appressava alla sommità, mi appariva infatti qualche cosa d’insolito. Sembrava che la vetta fosse coperta di brina, o piuttosto d’una neve sudicia. Che sarà mai questo?... Si sale, si sale, e quella brina, quella neve vanno perdendo a poco a poco il colore della brina e della neve, per prendere quelli variegati di una fiorita verzura. Possibile?... La cima del Vesuvio trasformata in colle erboso e fiorito?... Vi assicuro, o miei cari, che quello spettacolo era eccitante. Anche i più freddi ne furono commossi. Quanto a me non ne aveva mai veduto nè letto nulla di somigliante, e forse nessuno di quelli che scrissero sui vulcani ebbero mai la bella sorte di assistere a uno spettacolo così bello, di sorprendere un vulcano in questo momento, direi, di pompa primaverile, tutta plutonica, di osservare insomma, in una occasione così opportuna, un vulcano nella sua fase pozzuoliana. Il cono era veramente divenuto un colle erboso e fiorito. I muschi più soffici che vestono l’umida valle, o tappezzano i tronchi dell’annosa foresta; i licheni più dilicati che prestano agli abeti le barbe paglierine, o picchiettano le rupi di chiazze variopinte; le conferve più dilicate, che rendono simile al prato il fondo del limpido stagno; le spume più leggere che ribollono sul turbinìo di una cascata; le piume degli uccelli palustri, che imitane coll’intreccio di appena visibili filamenti le soffici spugne; tutto si vedeva lassù, tinto dei colori più vivaci e dilicati. Ma, badate bene, i muschi, i licheni, le conferve, le spume, le piume degli uccelli palustri, tutto è di cristallo. Ogni foglia, ogni filo d’erba, ogni fiore, tutto insomma quanto entra nel miracoloso ordito di quel tappeto di verdura e di fiori, è intessuto di migliaja di gemme, dove brillano i più vaghi colori. Il verde più carico passa al paglierino più delicato, quindi all’oro più splendido, e questo all’aranciato più vivo, e quindi alla porpora più sfarzosa, al cinabro più ridente, al rosso più infocato, con tutte le tinte più graduate, in tutti i toni possibili. Il sole nascente desta l’iride tremolante in mezzo ai vapori, il suo sorriso scintillante si ripete brillando su mille faccette diamantine, che imitano il collo della colomba, la fantastica coda del pavone, il divino mantello del colibrì. Tutto chino per meglio osservare, tu sollevi una di quelle zolle ove cresce una vegetazione si nuova. Invano! gli è come voler staccare, per farne un mazzolino, i fantastici fiori di cui la brina adorna i rami denudati e stecchiti dall’inverno. Quelle zolle sono coperte, non già di verzura, ma di barbe e di chiome finissime, quasi finissime piume: e i peli, i capelli altro non sono che fili di cristalli, che si rompono, si sciolgono quasi al solo guardarli. Bisogna vedere, osservare, ammirare, ma non toccare.
4. » Ma che è tutto codesto?... Voi non intendete.... Capisco. Non vi ho detto nemmeno abbastanza perchè mi possiate intendere. Vi ho detto semplicemente che il Vesuvio si trovava nella sua fase pozzuoliana, e in uno dei momenti più brillanti di essa. Ma che cosa la caratterizzi specialmente, non vi ho ancora spiegato quanto basta. Nella fase pozzuoliana si può dire che un vulcano riposi: non più tuoni, non più movimenti di lave nè dentro nè fuori. Se non che esso fuma ancora, e il Vesuvio in quel giorno fumava veramente come una gran carboniera a cui sia acceso il fuoco nell’interno. Ma il fumo, che a continue colonne levavasi dalle fauci spalancate del cratere, filtrava anche attraverso alle pareti di esso. La vetta del cono era perciò tutta seminata di fumajole, ossia di getti di vapori e di gas. Alcune di quelle fumajole si sarebbero credute valvole di una gran caldaja a vapore, mentre esso appunto ne usciva soffiando con sordo romore. Spingendo de’ bastoni entro que’ fori, immediatamente rimanevano incendiati. Quel fumo aveva in sè stesso una tremenda virtù: i massi di dura lava da esso investiti, si scoloravano, si decomponevano, si stempravano a modo di farina. Ma c’era qualcosa di più. Avete osservato che cosa fa il fumo che sale attraverso la canna del camino? Vi depone la fuliggine. Anche questo vapore del Vesuvio copriva, riempiva colla sua fuliggine le cento canne di camino per cui saliva, e tutti i meati, tutti i pori da cui si svolgeva, e tutta anche la superficie del cono, ove ondeggiava trastullo del vento. Ma la sua era una fuliggine varia, splendida, gemmata; era una fuliggine di cristalli.
5. » Non spenderò troppe parole per spiegarvi come ciò avvenga. Bisognerebbe che conosceste almeno i principî elementari della chimica. Vi dirò soltanto che tra i processi coi quali e la natura e l’arte ottengono dei minerali cristallizzati, c’è anche il processo della sublimazione. Fate bollire, per esempio, dell’acqua, o un liquido qualunque dove siano disciolte delle sostanze capaci di cristallizzarsi. Il vapore che si leva da quel bollore conterrà facilmente qualche piccola porzione di quelle sostanze disciolte. È anzi dimostrato dall’esperienza che il vapore, portato a una temperatura molto alta, è capace esso medesimo di sciogliere diverse sostanze, e di portarle seco. Se quel vapore trova un punto dove si raffreddi fino a tal grado che non possa più mantenere disciolte certe sostanze, le sostanze stesse dovranno deporsi, prendendo in condizioni opportune la forma cristallina. In ciò consiste il processo della sublimazione. L’ebollizione, per esempio, se ha luogo sul fondo di una bottiglia, il collo della bottiglia stessa potrà già prestarsi per la sublimazione. In questo caso esso si coprirà di cristalli e dentro e fuori. Quella fioritura sul vertice vesuviano non era altro che una stupenda sublimazione. Infatti i vapori che si svolgono dal fondo di un cratere e dal ventre di una montagna vulcanica, come sono caldissimi, così son anche straccarichi di sostanze minerali in diverse combinazioni, capaci, secondo le circostanze, di isolarsi o di dar luogo a cento nuove combinazioni. Ma quei vapori, strizzati attraverso le crepature e i pori stessi della montagna, arrivando alla superficie, si raffreddano e i diversi minerali si sublimano, cioè si depongono cristallizzati, rivestendo di cristallina efflorescenza l’interno delle crepature e tutta la superficie all’ingiro dove il vapore si espande. Ecco perchè trovai così adorno il cucuzzolo della fumante montagna, tutto rivestito, come dissi, di una efflorescenza più densa, più varia nelle crepature del monte, le quali brillavano come ajole di fiori nella uniformità del prato.
6. »Rinvenuto da quella specie di sbalordimento che m’aveva prodotto lo spettacolo impensato di quella miracolosa vegetazione, mi feci a cercare le forme del cono, per vedere s’io ci ravvisassi ancora il vecchio amico. Il cono fumante sorgeva più regolare, più affilato, e partendo dal vertice, invece di continuare tutto d’un pezzo fino all’Atrio, sembrava arrestarsi a poche decine di metri al di sotto della sommità, formar quindi un gradino, poi seguitare la sua mossa regolarmente fino all’Atrio e fino al mare. Insomma sembrava che nella troncatura del gran cono vesuviano fosse innestato un cono minore, un vero bottone d’innesto, a cui la pianta nutrice fa all’ingiro un anello in rilievo. Guardandomi ben bene d’attorno e richiamando le reminiscenze della prima visita, mi accorsi di trovarmi già (benchè ancor lontano dalla cima) sul labbro del vecchio cratere, precisamente là dove aveva pigliate le mosse per girarlo e discendere nella voragine. Quella voragine più non esisteva: una montagna, cresciuta nelle sue viscere, l’aveva riempita, e questo non le bastando, era cresciuta a tal punto da superare di forse cento metri il ciglio della voragine stessa. Il cono terminale che io vedeva sovrastare, mentre il mio piede già calcava il vertice del vecchio Vesuvio, era una nuova creazione. Mi ricordai allora.... ve ne ricordate ancor voi?... di quel conetto, visto la prima volta, che si levava sul fondo di quel gran tino, e soffiava e tuonava, buttando fuori scorie e lapilli. Quel cono non aveva allora che circa 30 metri di altezza, e si trovava entro quel tino quasi in un bagno. Ma a furia di soffiare, a furia di sgorghi e di vomiti aveva continuato ad alzarsi, e ad allargarsi, riempiendo l’antico cratere. Più volte la lava, sollevandosi, nè potendo più essere dal cratere contenuta, erasi rovesciata fuori del cratere, giù sui fianchi del cono: ciò era avvenuto almeno due volte, l’una nell’ottobre, e l’altra nel novembre del 1868. Il cono di piccino fattosi grande e grosso, levava già la sua fronte superba sul genitore, e il vecchio cratere non era più accusato da altro che da un rilievo anulare, come v’ho detto. Presto anche il rilievo sarebbe scomparso, nè sarebbe rimasta del mio vecchio cratere altro che la memoria in chi l’aveva veduto.
7. » La salita alla vetta si era dunque accresciuta così di forse un centinajo di metri, e bisognava superarli se io voleva pigliarmi un’altra volta lo spasso di ficcare il viso nelle fauci del vulcano. Ma come si fa? Il fumo è già incomodo al livello dove siamo, e più che il fumo, i vapori acri e solfurei che affogavano il respiro. Si girò verso est, per trovarsi sulla direzione del vento che soffiava i vapori verso ovest; e con questa manovra potemmo riuscire, quelli che avevano migliori polmoni, a raggiungere il ciglio del nuovo cratere. Vi fu anzi un istante che il vento soffio si forte, che spazzando via i vapori, mi lasciò agio di spingermi fino a una intaccatura del circo, e di cacciare il viso nel cratere. Ma, sì!... Fu come guardare in fondo a una oscura caverna.... fu come guardare in fondo a una pignatta quando leva più forte il bollore. Non ci restava dunque che discendere».
«Sarà stato bello», fu pronto a dire Giovannino, memore di quanto avevo descritto precedentemente. «Sarà stato bello il vedervi tutti discendere giù per quella china a balzelloni, a voli, come ci hai narrato».
8. «Quanto t’inganni! Da quella parte precisamente erano avvenute le ultime eruzioni. La lava aveva tutto mascherato. In luogo di lapilli bianchicci, formanti un piano inclinato, uniforme, facile, in certa guisa scorrevole; non ci si presentava che una specie di secca, una serie, un aggruppamento di muraglie, di gioghi, di spigoli, di creste, di lava nera.
» Vedevasi poi su per giù sostituita alla linea dell’antico sentiero una linea di fumajole, ed esse nascevano da una crepatura, talora larga poche linee, talora qualche metro. Era la crepatura come di una grossa muraglia che abbia ceduto, una crepatura irregolare, a zig-zag, che partendo dal labbro del vecchio cono scendeva fino all’Atrio. Quella crepatura non era chiara dappertutto, giacchè le sabbie, i lapilli, l’avevano in più luoghi mascherata. Ma quella serie non interrotta di fumajole, di praticelli fioriti, ossia di campi di sublimazioni, ne accusavano l’ sistenza da cima a fondo. Dunque il cono si era letteralmente spaccato, e ciò era avvenuto difatti, come vi dissi, la mattina del 15 novembre, e il punto più basso di quella spaccatura, quasi la spina di una gran botte, aveva servito a scaricare il cono, versando tre fiumi di lava, e improvvisando quei dodici coni, che si vedevano infatti ancora laggiù sparsi a guisa di onde maggiori sulla superficie ondeggiante di un lago di solida lava. Giù dunque tutti a furia, con una gran smania indosso di mirare da vicino quei coni, ossia quei vulcanelli improvvisati, e di trovarci sul teatro dell’ultima eruzione. Ma si; non era più quel sentiero! Altro che lasciarsi sdrucciolare.... Io non credo che Dante siasi trovato in peggiore imbarazzo quando era alle prese con quella rovina di Malebolge. Anche questa v’assicuro, era tal via, che, se Gerione ci avesse offerto le sue spallacce, non ci saremmo rimasti dall’accettarle per paura della coda1.
» Imaginatevi il ripido fianco di una montagna, irto di rupi d’acciajo tagliente, tutto sparso di rottami di bottiglie. Quelle scorie, che mandavano un suono metallico rotolando o scricchiolando sotto i piedi, non presentavano che un gigantesco eculeo, quasi un ammasso di vetri rotti. Guai a chi fosse caduto sull’erta! Poteva rovinarsi seriamente. Non mi ricordo d’aver provato mai nè fatica, nè pena maggiore. Quei cocci di lava godevano d’una mobilità strepitosa, e le cadute sembravano a ogni istante inevitabili. Vi erano poi tante cose da osservare, e le fumajole e le cristallizzazioni.... insomma mi trovai ben presto di retroguardia, e quando fui giunto alla base del cono, sul teatro dell’ultima eruzione, il tempo incalzava. Eravamo là in mezzo ad un mare di lave, e bisognava attraversarlo per guadagnare un sentiero.... e quella traversata ci avrebbe domandato un bel lasso di tempo, se non ci volevamo ammazzare. Ma i coni?... Ma tutto quell’apparato di una eruzione laterale di cui non poteva quasi nemmeno formarmi un’idea?... Pensai che fra due mesi circa sa rei ritornato a Napoli, per recarmi al Congresso dei naturalisti a Catania.
» Ebbene, dissi fra me, tanto e tanto fra la stanchezza e la furia non si riuscirebbe in oggi a niente di bene. Osserverò allora. Attraversai colla maggior possibile rapidità il mare delle lave, guadagnai il noto sentiero che riconduceva all’Osservatorio, discesi fino al mare, e fui in breve di ritorno a Napoli. Di ciò che vidi, tornandovi nell’agosto vi intratterrò la volta ventura».
9. «Ma è ancor presto assai», disse la Marietta. «Potresti bene ultimare la narrazione, descriverci questo apparato di una eruzione laterale».
È vero; è ancor presto. La descrizione non è poi cosa che debba riuscire così lunga. — Verso la metà d’agosto di quello stesso anno (1869) io ripartiva da Milano per Napoli, lieto di poter soddisfare a due curiosità, che invece di diminuire erano cresciute coll’aspettazione. La prima curiosità era quella di cacciare gli occhi nel nuovo cratere, cresciuto nel mistero e da nessuno ancor visto. La seconda era di esaminar l’apparato dell’ultima eruzione.
» Eccomi in via per la terza volta con sette od otto amici, tutti naturalisti, chi botanico, chi raccoglitore d’insetti o di minerali. Parecchi non avevano ancor visto il Vesuvio. Vi porterò tosto alla cima, cioè sul ciglio del vecchio cratere, e al piede del nuovo cono. Dal giorno in cui l’avevo visto l’ultima volta, la montagna aveva sempre continuato la sua fumata, e fumava ancora. Le sublimazioni cristalline erano scemate assai, guaste inoltre dalla pioggia. Il vento soffiava approssimativamente da nord-ovest, e pigliandolo pel suo verso si poteva avvicinarsi più facilmente alla vetta, cioè al ciglio del nuovo cratere. I vapori solfurei, però, mi sembrarono più intensi e più acri. È una cosa notata questa, che i vapori, durante la fase pozzuoliana, diminuendo di quantità crescono di forza, cioè si fanno più ricchi di gas e di altre sostanze minerali. La salita del cono terminale si rendeva per questo ardua assai. Impegnata la zuffa tra i polmoni e quei vapori soffocanti, era di tutti un tossire, un ridere, un gridare, e tutto come d’uomo che si sente soffocato il respiro. I più si tengono basso, per avere un’aria un po’ respirabile: alcuni quasi raggiunto il ciglio del cratere, scendono con fuga precipitosa e si portano fuori del tiro. Per buona sorte avevamo una guida coraggiosa e anche un pochino entusiasta, ed io d’altronde, forse in grazia de’ miei buoni polmoni, mi sentiva in grado di affrontare quei micidiali vapori. Fatto sta che un po’ sforzandomi da me, un po’ tirato dalla guida, cogli occhi lagrimosi, col respiro soffocato, mi trovai sull’orlo del cratere, dove la guida, al colmo dell’entusiasmo tenendomi anzi tirandomi, per l’abito, sembrava volesse precipitarmi nell’abisso: ma che pro? Fumo, null’altro che fumo.... Oh ventura! D’un tratto una folata di vento sembra frugare nel cratere fino al fondo; quella nube fitta, come se fosse inseguita, si scompone, si rompe, si dirada, si scioglie. Quale incanto! Sotto i miei occhi io veggo d’un tratto spalancarsi una voragine senza fondo. Fantastiche pareti la cingono, coperte di maravigliosi dipinti. Plutoniche rovine, paesaggi infernali, riflessi di incendi, sale della regina Diamantina, tesori di Creso, gemme dell’India.... Tutto io vidi entro quella voragine. Tutto io vidi, ma nulla distinsi; chè fu un istante, fu un lampo; vidi e non vidi; e quando volevo rendermi conto di quanto vedevo tutto era sparito, tutto era ravvolto in quel denso fumo che rinasceva perenne dal fondo della voragine. Vidi però abbastanza per formarmi un’idea grandiosa della potenza e della varietà di questa fase vulcanica, la quale sembra così da meno nell’estimazione di tutti, in confronto delle altre fasi, e specialmente di quelle grandi eruzioni le quali colpiscono più vivamente i sensi, e trovano il loro posto nella storia.
» Qui la natura lavora nel silenzio e nelle tenebre; ma quale immenso lavoro! I mineralogisti hanno già classificato a centinaja i minerali che il Vesuvio e gli altri vulcani producono per sublimazione durante la fase pozzuoliana. Ma il geologo spinge l’occhio più innanzi. Egli vede nel silenzio e nelle tenebre, anzi nella profondità delle viscere terrestri, deporsi negli antri, nelle crepature, il ferro, l’argento, l’oro; vede insomma fin dal principio del globo generarsi i filoni metalliferi. Sono i tesori vulcanici a cui da migliaja d’anni servono di scrigno le spaccature del globo.
10. » Non mi rimaneva che di visitare l’apparato vulcanico dell’ultima eruzione, da me visto da lungi soltanto. Si rifece ancora con improba fatica quella discesa di cui ho parlato, finchè ci trovammo sul luogo, donde era sgorgata la lava del 15 novembre 1868. Lo spettacolo era veramente interessante. Ho detto, appoggiandomi alle osservazioni del Palmieri, che la lava era uscita divisa in tre fiumi. Io però non vidi che quasi un intreccio di correnti che si sarebbero dette torrenti di pece indurita. Esaminai quella che mi pareva la principale. Diversi coni irregolarissimi si rizzavano sulla superficie delle lave, che si sarebbero dette ancora fluenti. Quei coni non apparivano essere altro che grumi di lava appiccicati l’uno all’altro, nell’atto che ricadevano sul perimetro dell’orifizio, da cui sgorgavano le lave e i vapori. Naturalmente i vapori, uscendo continuamente con getto vibrato, non permettevano che i grumi di lava si arrestassero altrove che all’ingiro. L’orifizio risultante deve dunque essere vuoto nel mezzo. Mano mano che il getto scemava d’intensità spingendosi in alto, i grumi di lava potevano ricadere e arrestarsi più presso al centro. Il vuoto interno doveva quindi risultare largo al basso, e stretto in alto, prendere cioè la forma di un fiasco. I coni nati in questa guisa si indicano infatti dai geologi come aventi la forma di un fiasco o di una bottiglia, e si formano precisamente nel punto ove un getto di lava esce all’esterno con un getto di vapore. Quello dei coni del 1868 che io esaminai più attentamente, e che appariva, se ben mi ricordo, come il più prossimo al centro del Vesuvio, presentava meravigliosamente questa forma di cono a bottiglia, e si sarebbe creduto veramente un gran fiasco vuoto a cui avessero troncato il collo. Dalla parte dell’Atrio, rimontando la corrente solidificata, si riusciva a una porticina d’ingresso nel cono, tenuta aperta dalla lava che di là era sgorgata a mo’ di fiumicello. Entrando per quella porticina mi trovai nel mezzo del fiasco, ossia sotto una specie di campana di vetro opaco, composta di scorie e di grumi appiccicati l’uno all’altro. Si sarebbe detto che alcuno si fosse divertito a fabbricare quella campana, lasciando cadere l’una sull’altra un gran numero di gocce di vetro nero. In alto, nel mezzo, in corrispondenza colla troncatura del fiasco, ossia del cono, esisteva un ’ apertura circolare, come una piccola lanterna, la quale rischiarava quell’antro misterioso. Grazie alla luce che pioveva abbondante, vidi quel chiostro essere come una caverna coperta di vaghe stallattiti di lava nera. Evidentemente i grumi più pastosi, male appiccicati alla volta, scendevano giù stirandosi, e prendendo esattamente la forma delle stallattiti calcaree. Quelle stallattiti e poi tutto l’interno del cono erano ingemmati da un numero infinito di particelle finissime di ferro oligisto. Quel ferro era stato prodotto da una sublimazione, che aveva avuto luogo sulla fine dell’eruzione, e aveva quindi coperto di cristalli di ferro le parti interne più superficiali di quell’antro, e anche le scorie superficiali a fianco della corrente. Quando il vento all’esterno soffiava nelle trite scorie, sollevavasi una polvere d’argento maravigliosa a vedersi. Essa era tutta composta di particelle di splendido ferro oligisto. Pigliando un pezzetto qualunque di quelle lave così incrostate e movendolo al sole, brillava tanto che si sarebbe detto coperto di una moltitudine infinita di piccoli diamanti. Più superficialmente ancora le interne stallattiti sembravano tappezzate di bianchi muschî. Non erano che efflorescenze di sal marino, frutto di una sublimazione che aveva tenuto dietro a quella del ferro. Ho detto che da quella porticina era uscita una corrente di lava, e la si vedeva infatti rappresentata da un doppio canale ossia da un doppio tunnel, l’uno sovrapposto all’altro. Per intendere questo badate che la lava, che scorre a modo di fiume, si solidifica ben presto alla sua superficie. Avviene talvolta che le solide scorie le quali ricoprono la corrente si solidifichino in modo da edificare un tunnel, ossia una immobile vôlta sulla corrente stessa. Supponete che la corrente cessi o diminuisca. Mentre si abbassa o si dilegua, la vôlta rimane al suo posto, e la corrente lascia un vuoto simile a quello di un tunnel. Se la corrente diminuisce a intervalli, potrà edificare sempre più basso una seconda, una terza volta, rimanendo un tunnel doppio, triplo, ecc., ecc. Ma le son cose che voi non intenderete così facilmente, e che esigerebbero almeno più minuta spiegazione di quella che m’è consentita dalle angustie del tempo. Io spero però di avervi invogliato a studiare voi stessi da vicino, quando verrà il vostro tempo, quei maravigliosi fenomeni, ancora per così gran parte oscuri alla scienza. Quel giorno in cui io li osservava per la prima volta, non poteva occuparmene ad agio come avrei voluto. Noi dovevamo discender dal Vesuvio, ritornare a Napoli, e la sera stessa imbarcarci per Catania. La stessa idea, di trovarci fra ventiquattro ore o poco più al piede dell’Etna, scemava forse in noi la smania di far l’inventario al Vesuvio».
«Hai visitato dunque anche l’Etna?»; interruppe Giovannino. «Quello sì che dev’essere un gran vulcano: quello sì che mi piacerebbe vederlo».
«Grande o piccolo che sia, l’Etna è un vulcano come il Vesuvio, e i fenomeni vulcanici sono gli stessi. Tuttavia chi ha visitato il Vesuvio, non perde il suo tempo se visita anche l’Etna. Non fosse altro che la grandiosità di quel vulcano. L’Etna è, per dir così, l’apoteosi di un vulcano. Se volete che io ve ne parli, aspetterò giovedì venturo, per farlo a maggior agio».
Note
- ↑ Gerione, simbolo della frode, con faccia d’uomo, fusto di serpente e coda da scorpione che nuotando per l’aria portò giù Dante e Virgilio al piede della rupe che cinge il luogo detto Malebolge. Dante, Inf., XVII.