Il Re prega/XIV
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XIV.
E come si diviene galeotto.
Ed anzi tutto Gabriele era un bel giovanotto.
Egli aveva nei suoi occhi corvini un non so che di malinconico che correggeva la regolarità severa dei suoi tratti, il fosco del suo colorito, il portamento della testa fieramente accampata sur un collo svelto. I suoi capelli neri irrompevano a ricci da un berrettino color bruno a lembi rossi, che gli accerchiava la fronte in modo grazioso. Portava il petto nudo, il collo nudo, le braccia ed i piedi nudi. Perocchè tutte le sue vesti si riassumevano in una camicia ed in un paio di brache di cotone giallognolo strette alla taglia da una fascia bruna.
Egli amava una povera figliuolina chiamata Concettella, il cui padre era pescatore.
Concettella non era ciò che si dice una bella ragazza. Ma il suo sembiante esprimeva la grazia che cerca sedurre ed una vivacità che si comunicava e rimbalzava immediatamente nel cuore di chiunque l’avvicinava. Poi, ella era civetta.
Gabriele faceva delle canzoni per lei, perchè Gabriele era poeta ed aveva l’istinto dell’armonia.
Chi ode per le vie di Napoli, la notte, le cantilene selvagge, bestiali, disarmoniche, intollerabili del popolo napolitano non sospetterebbe mai che i lazzaroni avessero la loro accademia e le loro corti d’amore, precisamente come Clemenza Isaura. Quei Pelli-Rosse dai guaiti sì discordanti ed offensivi avevano le loro sfide di poesia e di musica, che terminavano non raramente in una sfida al coltello. Si dava un tema. Il primo cominciava e cantava la sua strofa; un altro rispondeva, ed alternando così le strofe come i pastori di Virgilio, si continuava per lungo tempo. Il primo che si arrestava, senza dare la replica, metteva fine alla lizza. Però costui era schernito talvolta battuto, e costretto a spulezzarsela. Non si crederebbe giammai che ricchezza di poesia e di viste ingegnose quei bardi dai piedi nudi prodigassero in quella ginnastica di scienza gaia.
Ogni anno si cantava a Napoli una nuova canzone popolare. Chi ne aveva trovata la melodia? chi ne aveva indicato il concetto e composte le parole? Tutti se l’attribuivano — tutti coloro che sapevano infilare crome e semi-crome, tutti coloro che sapevano far rimare amore e core, bene e pene. Ma l’autore vero, lui, non dubitava neppure d’aver dato vita ad un vero capolavoro che correva le cinque parti del mondo come, per esempio, l’
Io te voglio bene assai
E tu nnu pienzi a me.
Ora ecco come avveniva l’istoria di quella canzone.
La notte che precedeva la famosa festa di Piedigrotta, cioè la notte dal 7 all’8 settembre, il popolo poteva entrare e trattenersi nel giardino pubblico, — la Villa Reale. Gli altri giorni, la plebe, in giubba o senza, non vi aveva accesso. In quei viali, a riva del mare di Mergellina, si riunivano i giovanotti, lazzaroni, operai, artigiani, contadini dei dintorni di Napoli, con le ragazze degli stessi ceti. Quindi, tutta quella gioventù se ne andava in gazzarra, cantando e danzando la tarantella, dal lato della grotta di Posilipo.
La grotta è un lungo tunnel del tempo dei Romani che fora la collina di Posilipo. Vi si giungeva tra mezzanotte ed un’ora del mattino, con delle torce accese, avendo ciascuno al suo braccio la sua giovine sposa o l’innamorata, cui non bisogna confondere con la ganza. Lì, si faceva circolo. I trovatori che si portavano candidati alla nuova canzone dell’anno si presentavano. Quelle dugento o trecento persone rinsaccate in quell’intestino si arringavano del loro meglio ed a suffragio universale si nominavano i giudici del concorso. E bisogna soggiungere, che raramente si prendeva sbaglio nella scelta. Nel 1846, Gabriele, cui addimandavano Gabriele Uu pienseruso, era uno dei candidati. Filippo Rotunno, suo rivale, ne era un altro. In tutto erano sei. In un batter di occhio il silenzio si fece. Quattro parrucchieri musici si collocarono nel centro, innanzi ai giudici. Essi suonavano il flauto, il violino, la chitarra ed il mandolino. Il cantante dava il tuono. Tre concorrenti, che non avevano buona voce, si fecero surrogare dai loro allievi.
Noi passiamo oltre quattro di quelle canzoni, quantunque con rincrescimento; perchè ve ne fu una sopratutto, di un gobbo merlettaio, che fu molto bella e che, ritoccata poi, fu ricevuta due anni più tardi, — la canzone del Mastrillo. Ma noi non possiamo omettere quella di Gabriele nè quella di Filippo, che furono il punto di origine di tante sciagure. Entrambi avevano cantato la stessa donna, quella stessa Concettella che era con Gabriele ed aspirava a Filippo. Gabriele era bello; Filippo, ricco. Ora, la donna è inesorabilmente logica. La natura dà la bellezza; l’uomo deve dare gli ornamenti.
Filippo aveva inoltre una tale rimarchevole voce di tenore, che avrebbe valso dei milioni, se Filippo fosse stato cantante in luogo di essere marinaio e padrone di due barche. Gabriele aveva una voce di baritono, armonica ma molto meno bella. Egli era il quinto e cantò:
«Quando eri ammalata, io mi teneva vicino al tuo letto, Concettella. Io udiva il tuo cuore battere con violenza: io ti compresi, mi tacqui, ma ti amai.
«Adesso tu sei guarita, e sono io che da tre giorni sono infermo. Ma quando si è innamorati bisogna passare per questi guai.
«Rinfresca col tuo fiato odoroso, rinfresca la mia febbre; ma non dire, Concettella, oh! non dire che io sono piagnoloso e ti attedio.
«Imperciocchè se vedessi la Vergine che mi ammiccasse per invitarmi a salire al Cielo, io volgerei lo sguardo, per contemplare unicamente il sorriso della tua bocca. Sorridimi, Concettella!
«Ma se nel tuo sorriso si dovesse trovare un lampo di scherno o di compassione, torci il capo, Concettella, torci il capo, come io l’avrei fatto con la Madonna.
«E quando tuo padre sarà di ritorno dalla pesca, dimandagli se il mare è ben profondo dal lato di Miseno e mandavelo a pescare.
«Io sarò quivi, in mezzo ai fiotti schiumanti, come fra le lenzuola del nostro letto nuziale; io sarò quivi, disteso sur uno scoglio, come avrei dovuto esserlo fra le tue braccia.
«Perchè il mare, che ha più cuore di te, fanciulla senza pietà, se tu gli getti un innamorato, esso ti rigetta per lo meno un cadavere».
Quando Gabriele ebbe finita la sua canzone, da me pessimamente proseggiata dal dialetto napoletano, i suoi tratti, sotto l’imperio della commozione, erano splendidamente animati. Ma l’uditorio era anche più commosso di lui. Perocchè la sua melodia, sì tenera e sì triste, aveva un accento che andava all’anima come un dolore.
Il suo avversario Filippo Rotunno divenne estremamente pallido. Egli aveva letto nello sguardo di Concettella che la parola di Gabriele l’agitava ed il suo cuore era lacerato dalla gelosia. Egli aveva impallidito altresì perchè aveva sentito il fremito che la cantilena di Gabriele aveva fatto correre fra gli spettatori. Ed egli apprezzava tutte le bellezze di quella poesia e di quella melodia di una soavità ineffabile. Erasi fatto pallido infine, perchè egli aveva paura e dubitava di sè. Egli sapeva che ciò che avveniva colà avrebbe deciso dell’amore di Concettella. Fece uno sforzo sopra sè stesso e si avanzò. Volgendo lo sguardo agli assistenti, per leggere sul loro sembiante come fossero disposti a suo riguardo, si accorse che essi erano ancora sotto la malìa della canzone di Gabriele. Allora volendo aprire un’altra corrente alla loro emozione, fece suonare la tarantella. Quindi, quando gli sembrò che l’uditorio fosse sotto un’altra impressione, diede il suo tuono alla musica e principiò:
«Vè una piccola giardiniera chiamata Concettella, la quale discende ogni giorno dallo Scutillo per venirmi a stuzzicare.
«Ella possiede un piccolo giardinetto ove fiorisce la rosamarina.... Concettella, ascoltami, non venire a svegliarmi di così buon mattino!
«A vederti con le tue guancie di foglie di rosa, con i tuoi occhi che hai rubati alla notte, io potrei credere che il mio sogno non è bene ancor terminato. Io ti ho visto femmina, e tu sei per me regina... Concettella, ascoltami, non venire a risvegliarmi di così buon mattino!
«Perchè vedendoti entrare nella mia povera cameretta, io credo che vi entri l’aurora; e come apro le pupille alla luce potrei aprire a te le mie braccia... Ed allora ti darei più baci che il cielo non ha stelle... Ascoltami, Concettella, non venire a risvegliarmi di così buon mattino!»
A questa strofa, l’entusiasmo degli spettatori fece esplosione. Due o trecento bocche accompagnarono in coro il bizzarro ritornello della scherzosa canzone. La melodia era adorabile: essa zampillava, scintillava, spingeva le gambe alla danza, a bocca al canto. Non si potè più restar quieti. Giammai hustings inglesi ebbero più acclamazioni tumultuose per un candidato favorito, che quel pubblico di teste calde napolitane e di cuori entusiastici non ne prodigò alla canzone di Filippo.
Essa fu proclamata la canzone dell’anno.
Gabriele era scomparso.
Egli aveva visto Concettella staccarsi poco a poco da lui, inclinare verso il suo rivale, infiammarsi, esaltarsi, cader mortalmente bella e sbocciata nelle braccia di colui. Era fuggito.
Il dì seguente, Gabriele assiso a terra, le gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia, il mento fra le mani, stava ascoltando il vecchio che sul Molo declamava l’Ariosto.
Dopo che aveva preso in uggia il mestiere di facchino delle carrozze, Gabriele aveva principiato il commercio delle frutta. Un mercante gli confidava un cesto pieno di fichi, di pesche o di uva, egli percorreva la città, li vendeva al minuto, guadagnava dieci soldi in qualche ora, e passava una parte del giorno alla riva del mare, a vaneggiare a baloccare. La sera andava ad udire la musica sulla Piazza Reale; nel dopopranzo alternava le ore tra il Filosofo e Rinaldo.
Il Filosofo era un vecchio antidiluviano che insegnava la morale. E’ smaltiva le massime e gli apotegmi dei filosofici stoici, li commentava con storielle adatte al soggetto e ne tirava la moralità.
Il governo non aprendo alcuna scuola pel popolo, un mendicante fondava una cattedra di etica. I corsi del Filosofo erano frequentatissimi.
Noi abbiamo visto spessissimo, sullo stesso Molo, da un canto il Filosofo insegnare, dall’altro Rinaldo raccontare le imprese dei Cavalieri, in un angolo Pulcinella e Colombina sbizzarrirsi alle farse le più spiritose, e lì lì da presso un gesuita o un liquorista, salito sur un banco, predicare l’inferno od il giudizio finale. E dobbiamo confessarlo, il circolo meno affollato era proprio quello del predicatore.
Gabriele ascoltava dunque il racconto della lotta di Argante e Tancredi. Il vecchio cantava un poco, ma in generale declamava i versi del Tasso in maniera vivissima e pittoresca, animandosi col gesto, modulando le inflessioni della voce onde far delibare la melodia di quella seducente poesia. Gli spettatori seguivano le peripezie del poema con passione intensa.
Quando la lettura fu terminata, Gabriele mise nella mano del vecchio tutto il suo guadagno della giornata. Egli non aveva sentito il bisogno di mangiare; era stato assorbito in un’idea tutto il dì. Di là, se ne andò a cercare uno dei suoi amici e gli disse:
— Filippo ed io, non possiamo più vivere nella stessa città. Bisogna ch’egli mi uccida o ch’io l’uccida. Va da lui. Egli si batterà meco, o lo assassino. Io non vorrei pertanto assassinarlo! Gli dò la scelta: le pietre, ovvero il coltello.
— Io accetto le une e l’altro, rispose Filippo all’amico di Gabriele. Quando? dove ci batteremo noi?
— Domani, alle otto, dal lato di Porta Nolana.
— Sta bene. Quante pietre?
— Dodici, se tu vuoi. E poi il mollettone (coltello a molle ferma).
— Accetto. Io porterò i coltelli, voi le pietre. A domani.
— Grazie.
Vi era a quell’epoca un prete famoso chiamato don Placido Baker. Costui trafficava in grande l’articolo miracolo. Egli passava le sue notti a tu per tu con la Vergine o con qualche altro santo del Paradiso in viaggio pel nostro pianeta. Quei celesti touristes s’intrattenevano col prete di ogni sorta di bisogna, delle molestie di casa del detto D. Placido o delle virtù domestiche della regina Teresa. Poscia, accomiatandosi, gli davano il permesso di rivelare i secreti della conversazione, — di dir perfino che quel giorno il signor S. Pietro aveva la barba mal pettinata, e messer S. Luigi, il gesuita che non aveva mai guardato in viso sua madre, la marchesa di S. Gonzaga, aveva fatto l’occhiolino a Santa Filomena.
D. Placido rappresentava la sua messa e raccontava queste cianche intime al popolo nella sua chiesa del Gesù Vecchio, due ore prima dell’alba. La chiesa, rischiarata solamente da sei piccole candele sull’altare era suffusa nelle tenebre, e si commettevano lì più turpitudini che i primi cristiani non ne attribuirono mai ai pagani. Il popolino frequentava moltissimo il Gesù Vecchio e si divertiva a scialo di quelle storie pittoresche e straordinarie.
Gabriele, come gli altri napoletani, aveva più superstizione che religione. Tutta la sua pietà si limitava all’impressione delle anime del purgatorio sul braccio, a portare al collo lo scapolare della Madonna, a far magro tre giorni la settimana. Ed ecco tutto. Fanciullo, era ito alla chiesa per rubare le pezzuole: più tardi, per incontrarvi una innamorata ed udirvi della bella musica. Vi andava adesso, per veder Concettella in veste da domenica. Ma sul punto d’intraprendere una lotta mortale, e’ volle pregar Dio, onde invocarlo a giudice della buona causa, che ei credeva esser la sua. Entrò dunque nella chiesa del Gesù Vecchio all’alba, e pregò. Pregò senza sapere nè come nè perchè. Dopo, raggiunse l’amico e partirono insieme pel luogo del duello.
Si era conservato su questo affare il più grande secreto. Prima dunque di giungere a Porta Nolana si separarono per non farsi osservare insieme. Si prendevano queste precauzioni onde mettersi al coperto dalle conseguenze del combattimento, nel quale uno per lo meno doveva soccombere. L’amico di Gabriele aveva scelto nel letto del Sebeto ventiquattro pietre della grossezza di un uovo, ben levigate e ben rotonde. Ei ne fece due parti, e lasciò la scelta al padrino di Filippo. Questi aveva portato due coltelli a molla, cui i lazzaroni chiamano crocifissi, a lama fina, lunga, scanalata, acuminata come un ago, tagliente come un rasoio, della lunghezza di circa dieci pollici. Il testimone di Gabriele scelse.
— Comincieremo dalle pietre, disse costui.
— Come vorrete, disse Filippo.
— A cinquanta passi?
— Sia pure.
— Senza fionda?
— Senza fionda.
— È permesso schivarsi?
— Poichè a questa sfida deve succedere quella del coltello, io credo che si possa accordare il diritto di non restare immobile sotto i colpi dell’avversario.
— Sta bene. Giuochiamo a chi tirerà il primo. Si giuoco al tuocco. Gabriele guadagnò.
Il combattimento alle pietre era il combattimento favorito del lazzarone. Aveva luogo d’ordinario per bande di quindici o venti giostratori, ed anche di più. Era una zuffa sovente pericolosa. Del resto, basta rammentare i lazzaroni del 1799, i quali fecero indietreggiare la cavalleria di Campionnet e sostennero a Ponte-Rosso tre ore di lotta, quasi unicamente alle pietre.
Filippo, che aveva un pastranello, lo cavò. I due duellanti si posero alla distanza convenuta in una cotale attitudine ch’ei non presentavano al nemico che il profilo sinistro, avvegnachè avessero la faccia volta l’uno all’altro, onde seguire con fissità ed attentamente i movimenti dell’avversario.
Noi non specificheremo le peripezie di questo combattimento, il quale esigeva l’agilità della scimmia, dei muscoli di acciaio, un colpo d’occhio rapido come il baleno, un’elasticità incredibile delle membra onde saltar d’ogni banda, piegarsi in tutti i sensi, appiattarsi, alzarsi, girellare su di sè stesso, slanciarsi, spiegare in una parola tutte le risorse della ginnastica, usare di tutti i mezzi di cui la natura ha dotati gli animali delle foreste per attaccare e difendersi.
Il lazzarone, non era esso il selvaggio delle latitudini incivilite?
In questo attacco, Gabriele fu colpito tre volte, senza molto male: Filippo due, anche senza pericolo, benchè ricevesse una ferita alla testa. Ma ei si limitò a stagnare il sangue con un pugno di terra, e continuò. Questi preliminari non dovevano servire che ad eccitare la collera dei combattenti. Il duello a morte cominciava.
Il duello al coltello è un’importazione siciliana a Napoli, spagnuola in Sicilia, — il combattimento alla navaja. Ma è altrettanto micidiale a Napoli che a Palermo ed in Ispagna.
I due avversarli si avvicinarono. Dai loro occhi schizzavano scintille feroci. Non vi si vedeva più il bianco: erano due punte di diamante a fiamma fosca e penetrante circondata da un’aureola rossa.
I due testimoni li collocarono di maniera che la luce del sole fosse egualmente divisa.
Filippo e Gabriele si approssimarono ancora, ciascuno d’essi guardando fissamente il nemico per trovargli negli occhi un segno di paura. Non ve n’era. Essi accostarono i loro piedi sinistri di modo che le dita dell’uno toccavano il tallone dell’altro. I loro corpi non offrivano che un sottilissimo profilo, converto dal braccio piegato e ravvicinato al petto, pronto a parare il colpo. La lama del coltello era appoggiata al braccio ed il manico chiuso nella destra come in una morsa. A vederli così, si sarebbe giurato che al primo colpo quelle due lame andrebbero a conficcarsi nei due petti e che si raccoglierebbero quivi due cadaveri.
I due combattenti fecero qualche finta per provare le loro forze. Gabriele si accorse che Filippo era agilissimo, e che se egli avesse voluto limitarsi alla difesa per profittare del di lui primo sbaglio, questi avrebbe potuto prevenirlo ed ucciderlo. Risolse dunque di sconcertare quell’attività inquieta con un attacco che obbligava Filippo a difendersi, e di fargli esaurire così, nella difesa, tutte le sue forze d’iniziativa. Gli era uno stornarlo e perderlo. Passarono pochi minuti in questi finti assalti, senza fiatare, gli occhi dell’uno ribaditi alla lama del coltello dell’altro.
Fu un terribile momento.
Gabriele mirava alla gola, Filippo al ventre. Si vide infine Gabriele proiettare in avanti il suo braccio sinistro, levandolo alto onde allontanare il coltello di Filippo od esserne ferito solo al braccio che gli serviva di scudo. Ma nel medesimo tempo avanzò il suo coltello dritto al cuore del suo rivale. Questi comprese questo colpo terribile, ed anzi che cedere alla tentazione di ferir Gabriele, fece un rapido movimento in avanti, di guisa che il colpo che andava a ferirlo giusto nel mezzo del fianco sinistro non gli traversò che la carne del dorso, scivolando sulle costole.
— Ci sei? disse Gabriele, senza pertanto uscire di guardia.
— Una scalfittura di spilla! rispose l’altro, senza parimenti turbarsi, sapendo che la minima agitazione poteva cagionargli la morte.
Si dice nondimanco, e lo si ripete ad oltranza, che i lazzaroni sono codardi. Giorgio Sand lo ripeteva ancora non è lungo tempo.
Si rimisero in guardia come avanti. A questo secondo assalto Gabriele ebbe il braccio sinistro forato da parte a parte; Filippo, l’alto della spalla sinistra traversato ed il deltoide quasi portato via.
I testimoni volevano far cessare il duello; i combattenti si opposero.
— Non prima della morte! gridò Gabriele.
— Prendi dunque! rispose Filippo.
E ciò dicendo, si precipitò su di lui a corpo perduto, offrendogli il petto, ma mirando nel tempo stesso a conficcargli il coltello nel vacuo delle clavicole.
Gabriele scivolò quasi sotto il braccio levato di Filippo, poi si raddrizzò alle di lui spalle, basso il coltello e gli fendè il braccio dritto dalla spalla alla mano, sì che il coltello cadde dal pugno di Filippo.
Alla mercè di Gabriele, disarmato, pallido come la morte, egli si volse e disse:
— Uccidi!
Gabriele alzò il coltello sulla testa dell’avversario, due volte l’abbassò, due volte lo rilevò con esitazione convulsiva. Alla fine, lo gettò lontano da lui e gridò:
— Quando sarai guarito.
E fuggì a tutte gambe.
Si condusse Filippo allo spedale dei Pellegrini, dicendo che era stato ferito in una rissa, da un incognito con cui si era ubbriacato.
Perchè questi due popolani che avevano guardato la morte in faccia con tanto sangue freddo, e non l’avevano temuta; perchè se un signore avesse dato loro uno schiaffo, — e ciò arrivava ad ogni istante, — questi due uomini avrebbero abbassata la testa senza dir verbo o sarebbero partiti borbottando una bestemmia orrenda?
Gli è che il lazzarone tirava la sua sussistenza dal borghese. Se il borghese diffidava di lui, se non lo trovava assai umile, e’ cessava dal fargli fare le sue commissioni, come nel 1848, ed il lazzarone moriva di fame. Ecco perchè quei plebei, che avevano resistito all’esercito francese della Repubblica, si lasciavano battere dal popolo grasso, dominare dalla polizia, mettere a partito da tutti. Un signorino napolitano si sarebbe creduto disonorato se egli avesse trattato un lazzarone come un uomo, se gli avesse dato del voi, se gli avesse parlato altrimenti che con disprezzo, se lo avesse comandato con dolcezza, se fosse stato giusto, se avesse per lo meno sospettato che il lazzarone era suo eguale innanzi a Dio, al mondo ed alla legge, se avesse tollerato un’osservazione, se avesse risposto altrimenti ad un lamento di lui che con un calcio od una ceffata, se lo avesse toccato altrimenti che col bastone, se ne avesse avuto pietà, se lo avesse compreso in fine e l’avesse rispettato nei suoi sentimenti, nel suo onore e nella sua dignità. Il lazzarone era pel borghese un ignobile bruto, impastato di vizi e di laidezze, — res nullius! — e lo è ancora.
Il governo trafficava del borghese, questi del lazzarone. Homo homini lupus! Il borghese però lo respingeva: il re se ne impadronì.
Ma ritorniamo a Gabriele.
Egli fece medicare il suo braccio ed andò a visitare Concettella. Non le disse sillaba di ciò che aveva allora fatto per lei. Ma nella sera, ella ne fu istruita.
Io delineo la situazione di questa giovinetta con una parola: ella sarebbe divenuta con gioia la ganza di Gabriele, se Gabriele glielo avesse domandato: ma ella voleva essere la moglie di Filippo.
Ella amava Gabriele, valutava Filippo.
Ella sentiva troppo per non indovinare qual godimento doveva esservi nell’amore di quel bel giovanotto. Ma ella calcolava altresì che varietà, che durata di piacere doveva esservi nel divenire la moglie di un giovane ricco, cui si accordava dello ingegno, cui si stimava, ed in cui vi era la stoffa di un capo-popolo. Ella non sarebbe stata più chiamata la sì Concettella, ma la majesta, proprio come re Nasone chiamava la formidabile regina Carolina.
Laonde ella non esitò, il dì seguente, a recarsi a visitare Filippo all’Ospedale. Questa visita per l’uno, questo silenzio per l’altro dei due innamorati diceva tutto. Gabriele lo comprese, come egli aveva compreso l’estensione delle inclinazioni di Concettella per lui. Una rivoluzione si produsse nel suo spirito.
— Se io fossi ricco, si disse, Concettella sarebbe a me. I miei cenci sono il mio delitto. Più di cenci dunque. Abbiamo una giacca di velluto, delle scarpe, dell’oro!
L’oro a Napoli è alla portata di chiunque ne vuole. Non si tratta che di aver fortuna: aver qualche ducato ed indovinare tre numeri. L’era semplice. L’era più che semplice, era tentante. La lotteria è il frutto proibito del popolo.
Si era al giovedì. I numeri del lotto si tiravano il sabato.
Vi erano a quell’epoca, e vi sono forse ancora, dei monaci famosi appo il popolo a causa della scienza della divinazione dei numeri del lotto. La polizia accreditava la loro reputazione, perchè questa credenza sviluppava il gusto pel giuoco e quindi i profitti dell’erario. Il più rinomato allora era un fra Giuseppe del convento di San Pascale a Chiaja.
Fra Giuseppe era un diavolaccio tagliato sul tipo di un tamburo maggiore. Uomo di quaranta anni, rosso, forte, gli occhi a fior di fronte, un collo di toro raso, abbastanza sporco, mediocremente astuto, superlativamente ignorante, e dottore nei sette peccati capitali. E’ godeva, malgrado ciò, di una moltitudine di dimestichezze assai bizzarre e che riesciranno affatto incredibili ne’ paesi protestanti e volteriani. Indico i meno impudichi e ne chieggo scusa ai lettori, cui son costretto guidare per questi cunicoli da cloaca. Egli imponeva le mani nude sul ventre delle donne incinte per facilitare loro il parto. Egli componeva dei filtri abbominevoli per le fanciulle che volevano farsi amare dai giovani farfallini, — filtri di cui lasciamo parlare, con beato dilettamento, i moralisti cattolici, sopratutto i gesuiti Sanchez, Escobar, Benedetti, e cui non citeremo neppure in latino, come Burchard e Martene. Egli cacciava le mani, con un pezzo della tunica di S. Pasquale, nel seno delle donne, di cui il latte non fecondava le glandole deliziose. Egli abbracciava, per mandato del suo patrono, le ragazze che volevano maritarsi nell’anno. Egli benediceva non importa che, dal crocifisso alla pentola della minestra per farla bollire più speditamente. E’ dava dei numeri alla lotteria. Ne dava uno, raramente tre. Ora, come e’ dava questi numeri in numero progressivo, arrivava sempre che cinque fra i novanta numeri dati, uscissero dall’urna e che cinque persone guadagnassero un numero. Questi magnificavano la scienza cabalistica del frate.
Gabriele andò a trovare fra Giuseppe.
— Padre mio, diss’egli, io sono al colmo della disperazione. Se voi non mi venite in aiuto, io commetterò un malanno.
— Da bravo! susurrò fra Giuseppe, essi sono tutti in quello stato lì quando vengono qui. Vediamo; cosa hai?
— Ebbene, padre mio, ho bisogno di dodici mila ducati, al manco; e voi me li farete trovare.
— Saresti tu matto senz’altro, figliuolo? Come vuoi tu che io ti dia questa piccola bagatella, eh?
— E S. Pasquale? ma io non sono degno di un miracolo. Datemi tre buoni numeri al lotto e i denari per giuocarli.
— Peste santa! come ci va!
— Mi bisognano ad ogni costo.
— Vediamo, figliuolo, ragioniamo. I tre numeri... ciò si puote ancora. Pregherò S. Pasquale d’ispirarmi, e forse, se tu sei bene in istato di grazia, il buon santo non ci rifiuterà questo piccolo servigio. Ma il denaro? Hai tu obbliato che noi siamo mendicanti? Si trattasse, magari! di un pezzo di pane....
— Ma a chi volete voi che m’indirizzi allora per aver dieci piastre e giuocare i vostri numeri? Io non ho un tornese. Non si vorrebbe prestarmi questa somma sulla mia parola, nè sulle mie promesse. Vendendo quanto posseggo, non metto insieme dieci grana. I miei amici sono più miserabili di me... Bisogna dunque ch’io rubi? bisogna dunque ch’io uccida? Vi domando quella piccola somma a mutuo...
— Ascoltami, figliuolo: io non ho tempo da perdere. È mestieri che io vada in chiesa a cantar vespero. Ma uscendo tu incontrerai una donna che ride e forse un asino che raglia. Va dritto loro e ripeti tre volte: Guai a chi non crede!
E ciò dicendo, fra Giuseppe gli volse le spalle. Ma Gabriele correva già più celeremente di una freccia, ruminando nel suo spirito le ultime parole del monaco che contenevano la sua fortuna. Imperocchè l’era così che quei negromanti davano i loro numeri. Gabriele corse dunque da un postiere per consultare la Smorfia, — quel libro di lotteria che marca di un numero ogni parola. Dal piccolo fervorino del frate, ei trasse i numeri dalle parole da noi segnate in corsivo. Giuocò il biglietto a credito. Occorreva adesso adesso dare almeno due piastre — 10 lire — perchè il viglietto fosse valido e giuocato — e ciò prima della mezzanotte di quello stesso giorno, venerdì, 23 agosto 1846. Noi rinunciamo a descrivere ciò che fece Gabriele per raccogliere quella somma sì minima in apparenza, e la disperazione d’onde fu dominato non essendo riescito. Quella piccola somma era tutto per lui. E’ vi scorgeva la ricchezza, l’amore, l’avvenire, il trionfo sul suo rivale, la felicità: quella somma conteneva il Perù, era un paradiso, la realità ed il vaneggiamento... venti quattro mila ducati di guadagno e Concettella!
E quella somma gli mancava... l’abisso!
Il sangue affluì al suo cervello e lo rese ebbro di desiderii e di progetti, mentre la disperazione traboccava dal suo cuore. La sua immaginazione stravagava: era quasi folle. Le sue tempia battevano con un crepitamento sensibile all’udito. Malgrado ciò era pallidissimo.
E l’ora avanzava.
Gabriele picchiò a tutte le porte. Nessuna si aprì; nessuno venne in suo soccorso. Non sapeva più dove dare del capo. Non gli restava più che la violenza.
Sotto il dominio di questa idea fissa ed unica, l’universo era scomparso dai suoi occhi: anzi, l’universo si rizzava incontro a lui come un ostacolo cui bisognava rovesciare o spezzare. Egli errò simile ad un forsennato, tutta la sera. L’orologio della chiesa di S. Maria a Costantinopoli suonò le dieci. Quei dieci colpi di orologio gli diedero la vertigine.
E’ saliva allora quel vicolo che dalla porta di Costantinopoli, conduceva alla piazzetta deserta, ove era il collegio di medicina. In un chiassuolo adiacente vi era un orribile affresco che figurava la Passione. Innanzi a quelle tre figure sconcissime del Cristo e delle tre Marie bruciava una lampada che dava più fumo che luce.
Gabriele s’inginocchiò, senza vedere le immagini senza pregare. Era là, ed attendeva un’idea, l’imprevisto, l’incognito! Non un soffio di aria nel cielo del resto, non un’anima per quei dintorni. Dovunque il silenzio, la solitudine e quel chiaroscuro scialbo delle notti italiane che non è nè le tenebre, nè la luce, — il tiepido del chiarore!
Era assorto e non pensava.
Infine, udì uno strepito dietro a lui. Si volse ratto, si levò. Era un prete di provincia che passava e gli gettava un soldo, rimettendo in tasca qualche pezzo di moneta bianca. La vista di quel danaro dette i brividi a Gabriele. Tutti i suoi istinti si risvegliarono, tutti i suoi desideri lo azzeccarono alla gola e lo strangolarono. Un mondo di luce, un mondo di tenebre, passarono in un attimo innanzi agli occhi suoi. E’ corse dietro il prete, si prostrò alle ginocchia di lui e gli disse:
— Datemi quel denaro, padre mio; per pietà! datemi quel denaro.
Il prete, che aveva ceduto al primo impulso di compassione dandogli un grano, non comprese ciò che vi era di disperazione nella voce di quell’uomo, ciò che vi era di misterioso e di terribile in quelle parole sì semplici in apparenza. Credette che il mendicante fosse ubbriaco e lo respinse duramente. Gabriele lo trattenne e reiterò imperiosamente la dimanda. Il prete cominciò a sospettare allora avere a competere con un ladro e gridò. Gabriele si credè perduto.
— Tu mi darai quel danaro, prete maledetto, disse egli. Mi occorre, lo voglio.
Il prete che lottava per tirarsi da quegli artigli, gridò più forte.
Allora, lo spirito di Gabriele si turbò interamente. Con una mano prese il prete alla gola, per sopprimere i suoi guaìti, coll’altra frugò nella tasca per pigliarvi i danari. Il prete cavò il coltello e lo ferì alla coscia. Il dolore della ferita mise il colmo alla follia di Gabriele. E’ tolse al prete il coltello e lo colpì al petto. Quindi, coverto com’era di sangue, s’impossessò di un pugno di moneta e fuggì.
L’orologio suonava le undici.
Il possesso della somma che gli bisognava, gli fece obliare per un istante tutto ciò che era avvenuto. Non aveva più nè coscienza nè memoria del suo delitto; non si accorgeva neppure che era inseguito. L’impiegato del posto della lotteria, che vide venire quell’uomo orribilmente pallido ed insanguinato, restò sbalordito. E Gabriele presentava già le sue due piastre maculate di sangue, quando sentì due mani posarsi sulle sue braccia ed abbrancarlo. Allora, in un lampo e’ si risovvenne di tutto ciò che aveva fatto, gettò un grido stridente e cadde spossato nelle braccia dei birri.
Qualche ora dopo, si trovò innanzi ad un commissario di polizia.
Gabriele confessò tutto. Non si ebbe mestieri di maltrattarlo per farlo parlare. Egli aveva impietosito il commissario, tanto vi era di onta e di rimorsi nel suo racconto, tanto la sua stessa coscienza aveva avuto poca parte nella perpetrazione del delitto. Era maniaco.
Ma, cosa bizzarra, i cinque numeri giocati da lui, uscirono all’indomani!
Il prete era morto!
Sei mesi dopo, Gabriele era condannato a ventiquattro anni di lavori forzati.
L’indomani dell’arresto, il carceriere in capo delle prigioni della Vicaria venne a cercarlo per condurlo nella sua camera.
Ecco ciò che era avvenuto.
Concettella aveva studiata la condotta di Gabriele dal dì del duello, con una indifferenza apparente. Gabriele non le aveva mai parlato di sè; ma ella aveva compreso tutta la potenza e la delicatezza della passione di lui; aveva saputo tutto ciò che Gabriele aveva fatto per lei. Ella si era persuasa che oggimai il cómpito della vita di quel giovane era di poterle dire un giorno:
— Tieni, tu sei ricca!
Dalla vendita di tutto ciò che la possedeva, ed anche dei doni di Filippo, ella aveva messo insieme un gruzzoletto e si era presentata all’aguzzino in capo della prigione per comperargli la visita che veniva a fare a Gabriele. Il carceriere consentì e le fece attendere Gabriele nella sua camera.
Gabriele entrò.
Concettela, pallidissima, tremava come un giovane pioppo sotto i buffi del vento. Restò un istante indecisa innanzi a Gabriele che sembrava di ghiaccio. Poi d’un tratto, ella si gettò nelle braccia di lui e vi cadde svenuta, gridando in mezzo ai singhiozzi:
— A te, per tutta la vita.
— Per tutta la vita! ripetè Gabriele: sovvientene!