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freccia, ruminando nel suo spirito le ultime parole del monaco che contenevano la sua fortuna. Imperocchè l’era così che quei negromanti davano i loro numeri. Gabriele corse dunque da un postiere per consultare la Smorfia, — quel libro di lotteria che marca di un numero ogni parola. Dal piccolo fervorino del frate, ei trasse i numeri dalle parole da noi segnate in corsivo. Giuocò il biglietto a credito. Occorreva adesso adesso dare almeno due piastre — 10 lire — perchè il viglietto fosse valido e giuocato — e ciò prima della mezzanotte di quello stesso giorno, venerdì, 23 agosto 1846. Noi rinunciamo a descrivere ciò che fece Gabriele per raccogliere quella somma sì minima in apparenza, e la disperazione d’onde fu dominato non essendo riescito. Quella piccola somma era tutto per lui. E’ vi scorgeva la ricchezza, l’amore, l’avvenire, il trionfo sul suo rivale, la felicità: quella somma conteneva il Perù, era un paradiso, la realità ed il vaneggiamento... venti quattro mila ducati di guadagno e Concettella!

E quella somma gli mancava... l’abisso!

Il sangue affluì al suo cervello e lo rese ebbro di desiderii e di progetti, mentre la disperazione traboccava dal suo cuore. La sua immaginazione stravagava: era quasi folle. Le sue tempia battevano con un crepitamento sensibile all’udito. Malgrado ciò era pallidissimo.

E l’ora avanzava.

Gabriele picchiò a tutte le porte. Nessuna si aprì; nessuno venne in suo soccorso. Non sapeva più dove dare del capo. Non gli restava più che la violenza.