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Gabriele faceva delle canzoni per lei, perchè Gabriele era poeta ed aveva l’istinto dell’armonia.

Chi ode per le vie di Napoli, la notte, le cantilene selvagge, bestiali, disarmoniche, intollerabili del popolo napolitano non sospetterebbe mai che i lazzaroni avessero la loro accademia e le loro corti d’amore, precisamente come Clemenza Isaura. Quei Pelli-Rosse dai guaiti sì discordanti ed offensivi avevano le loro sfide di poesia e di musica, che terminavano non raramente in una sfida al coltello. Si dava un tema. Il primo cominciava e cantava la sua strofa; un altro rispondeva, ed alternando così le strofe come i pastori di Virgilio, si continuava per lungo tempo. Il primo che si arrestava, senza dare la replica, metteva fine alla lizza. Però costui era schernito talvolta battuto, e costretto a spulezzarsela. Non si crederebbe giammai che ricchezza di poesia e di viste ingegnose quei bardi dai piedi nudi prodigassero in quella ginnastica di scienza gaia.

Ogni anno si cantava a Napoli una nuova canzone popolare. Chi ne aveva trovata la melodia? chi ne aveva indicato il concetto e composte le parole? Tutti se l’attribuivano — tutti coloro che sapevano infilare crome e semi-crome, tutti coloro che sapevano far rimare amore e core, bene e pene. Ma l’autore vero, lui, non dubitava neppure d’aver dato vita ad un vero capolavoro che correva le cinque parti del mondo come, per esempio, l’

                              Io te voglio bene assai
                              E tu nnu pienzi a me.