Il Re del Mare/Parte prima/IX
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - VIII | Parte prima - X | ► |
IX.
Le orde dei dayachi sbucavano in quel momento dalle foreste a gruppi, a drappelli, senza ordine alcuno, lanciati tutti a corsa sfrenata.
Ululavano come belve feroci, agitando forsennatamente i loro pesanti kampilang d’acciaio lucentissimo e sparando in aria qualche colpo di fucile.
Parevano furibondi e probabilmente lo erano per non aver potuto raggiungere e decapitare gli ultimi difensori della Marianna, che, più riposati e fors’anche più lesti, erano riusciti a rifugiarsi nella fattoria prima di lasciarsi prendere.
— Per Giove! — esclamò Yanez che li osservava attentamente dall’alto della cinta. — Sono in buon numero quei bricconi, e quantunque la loro istruzione militare lasci molto a desiderare, ci daranno dei gravi grattacapi.
— Non sono meno di quattrocento — disse Tremal-Naik.
— Là! Hanno anche un parco d’assedio — aggiunse il portoghese, vedendo uscire dalla boscaglia un grosso drappello che trascinava una dozzina di lila ed un mirim. — Canaglia d’un «pellegrino»! Pare che se ne intenda di cose di guerra e che abbia dedicato ogni cura alla sua artiglieria. Non marciano mica male, gli artiglieri! Manovrano come coscritti di tre mesi!
— E non tirano male, ve lo assicuro, capitano — disse Sambigliong. — Battevano la Marianna per bene, prendendola d’infilata da prua a poppa.
— Che quel dannato «pellegrino» sia stato prima soldato? — si chiese Yanez. — Chi diavolo può essere quell’uomo misterioso?
— Yanez — disse Tremal-Naik, guardandolo con una certa espressione, — credi tu che noi potremo resistere a lungo?
— Come artiglieria siamo debolucci in confronto a loro — rispose il portoghese, — ora che non abbiamo più i nostri due pezzi da caccia; ma prima che gli assedianti montino all’assalto, ci vorrà del tempo e decimeremo per bene le loro colonne, se vorranno tentare di espugnare a viva forza la nostra fortezza. Basta che i viveri e le munizioni non ci vengano a mancare.
— Ti ho già detto che siamo ben forniti, specialmente dei primi. Tutte le tettoie ne sono piene.
— Allora terremo duro fino a che tornerà Kammamuri. Sapendoci in pericolo, Sandokan non indugerà a mandarci altri soccorsi. Quanto avrà impiegato Kammamuri a raggiungere la costa?
— Una settimana.
— Sicchè a quest’ora dovrebbe essere a Mompracem.
— Lo spero, se i dayachi non lo hanno ucciso — rispose Tremal-Naik.
— Uhm! Assalire un uomo che è scortato da una tigre! Nessuno avrebbe osato attaccarlo. Quindi, a conti fatti, fra una quindicina di giorni potrebbe essere qui. Terremo duro fino allora ed intanto cercheremo di divertire i dayachi facendoli ballare a colpi di mitraglia.
— E se Sandokan non ci mandasse soccorsi?
— In tal caso, mio caro amico, ce ne andremo — rispose Yanez, con la sua calma abituale.
— Con tutti questi assedianti?
— Vedremo se fra quindici giorni saranno così numerosi. Non caricheremo già le spingarde con patate e le carabine con uova di passeri. Terminiamo la nostra ispezione, mio caro Tremal-Naik, e vediamo di fortificare i punti più deboli. Dobbiamo resistere e resisteremo.
Mentre riprendevano il loro giro, i dayachi si erano accampati intorno alla fattoria, tenendosi fuori di portata dai tiri delle spingarde, costruendo rapidamente, con rami e con foglie di banano, delle capannucce per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, mentre i loro artiglieri innalzavano senza indugio delle piccole trincee formate di terra e sassi e piazzavano i loro pezzi in modo da poter battere la fattoria tutto all’intorno. Quei cannoni non potevano recare quindi danno alle massicce tavole che formavano la cinta, essendo il teck un legno durissimo che offre una grande resistenza; tuttavia quando Yanez, terminata l’ispezione, salì sulla torricella con Tremal-Naik e Sambigliong, per dominare tutta la pianura, non potè frenare un gesto di stizza.
— Quel «pellegrino» deve essere stato un soldato — ripetè. — I dayachi non avrebbero mai pensato ad innalzare delle trincee, nè a scavare dei fossati per ripararsi dai tiri degli avversari.
— Lo vedi? — chiese in quel momento Tremal-Naik.
— Chi?
— Il «pellegrino».
— Come! Osa mostrarsi?
— Guardalo là, in piedi su quel tronco d’albero che gli artiglieri hanno fatto rotolare dinanzi al mirim per rinforzare la trincea.
Yanez guardò attentamente nella direzione indicata, poi, tratto di tasca un binocolo di marina, lo puntò.
Sul tronco stava un uomo molto alto e molto secco, vestito tutto di bianco, con alamari d’oro, con scarpe rosse a punta rialzata come usano i ricchi Bornesi di Bruni, ed il capo difeso da un ampio turbante di seta verde che gli calava fino sugli occhi.
Pareva che avesse cinquanta o sessanta anni. La sua pelle era assai abbronzata, ma non così scura nè opaca come quella dei Malesi e dei Dayachi; e anche i suoi lineamenti, che Yanez distingueva benissimo, erano molto più fini e perfetti di quelli delle due razze dominanti le grandi isole malesi.
— Parrebbe un arabo od un birmano — disse Yanez, dopo di averlo osservato a lungo. — Un dayaco no di certo e nemmeno un malese. Da dove sarà piombato costui?
— Non l’hai mai veduto? — chiese Tremal-Naik.
— Frugo e rifrugo nella mia memoria e mi convinco sempre più di non aver mai avuto a che fare con quell’uomo — rispose il portoghese.
— Eppure in qualche luogo dobbiamo averlo veduto. Il suo odio contro di me e anche contro di voi, avendo udito narrare che dopo di me si sarebbe anche occupato delle Tigri di Mompracem, deve essere stato motivato da qualche cosa.
— Ah, vorrebbe prendersela anche con Mompracem? — disse Yanez, sorridendo. — Si capisce che non conosce ancora quanto valgono i nostri Tigrotti. Si provi a rovesciare le sue orde sulle coste della nostra isola! Vedrà quanti dayachi torneranno alle loro natìe foreste. Ah, la danza di guerra! Brutto indizio!
— Che cosa vuol dire, Yanez?
— Che i dayachi si preparano alla pugna. Si esaltano prima con la danza quando mettono mano ai kampilang. Sambigliong, va’ ad avvertire i nostri uomini di tenersi pronti e fa’ portare le spingarde ai quattro angoli della fattoria, onde possano battere tutti i punti dell’orizzonte. Quando i dayachi si muoveranno, verremo noi a dirigere la difesa.
Un centinaio e mezzo di guerrieri, che tenevano in ambe le mani una sciabola, si erano staccati dal grosso su quattro colonne avanzandosi verso il kampong, per eseguire la danza di guerra.
Giunti a cinquecento passi dalla cinta, mandarono un urlo altissimo, un urlo di sfida, poi formarono quattro circoli, mettendosi a ballare disordinatamente.
Nel centro avevano deposto i loro kampilang, incrociando l’uno con l’altro in modo da occupare un vasto spazio: poi, alcuni avevano tratto dai panieri che portavano appesi al fianco, alcune teste umane che parevano recise di recente, collocandole fra i gruppi formati dalle sciabole.
Vedendo quelle teste, Yanez aveva fatto un gesto d’ira, a malapena represso.
— Miserabili! — aveva esclamato.
— Appartenevano ai tuoi uomini, è vero, mio povero amico? — disse Tremal-Naik.
— Sì — rispose il portoghese. — Devono aver pescato i cadaveri lanciati nel fiume dall’esplosione, per impadronirsi delle loro teste. Noi non faremo altrettanto ma, vivaddio, contraccambieremo con piombo senza risparmio.
— Vuoi che li mitragliamo giacchè sono a buona portata?
— Non ancora. Dobbiamo lasciare a loro di sparare il primo colpo.
I dayachi intanto continuavano a sgambettare come scimmie o come ubbriachi in delirio, ululando spaventosamente, dimenando le braccia e contorcendosi, mentre alcuni suonatori percuotevano con delle mazze dei tamburoni di legno coperti con una pelle di tapiro.
Ora i danzatori procedevano a passo cadenzato, poi spiccavano salti come se calpestassero dei carboni accesi, finalmente si davano ad una corsa pazza, impugnando certe specie di kriss, come se inseguissero dei nemici fuggenti.
Quella danza durò una buona mezz’ora, poi i guerrieri, esausti, trafelati, rientrarono nei loro accampamenti.
Successe un profondo silenzio, che si prolungò per alcuni minuti, quindi un urlo formidabile, mandato da tutti i combattenti, echeggiò nella pianura, propagandosi sotto i boschi che la circondavano.
— Si preparano all’attacco? — chiese Tremal-Naik a Yanez che aveva puntato nuovamente il binocolo.
— No; vedo un uomo che esce dalla tettoia abitata dal «pellegrino», con una banderuola verde infissa su una lancia.
— Che ci mandi un parlamentario?
— Sembra — rispose il portoghese.
— A proporci la resa?
— La pace no di certo.
Un dayaco, un qualche famoso guerriero a giudicarlo dalle lunghe penne che gli ornavano la testa e dalla straordinaria quantità di braccialetti di ottone che portava alle braccia ed alle caviglie, aveva lasciato il campo, seguìto da un altro che reggeva a stento uno di quei grossi tamburi di legno che avevano servito poco prima per accompagnare i danzatori.
— Cospettaccio! — esclamò il portoghese. — Ecco un parlamentario in piena regola; invece d’avere un trombettiere ha un tamburino o meglio un tamburone. Quel «pellegrino» deve essere un uomo civilissimo. Scendiamo, Tremal-Naik, e andiamo a udire che cosa ci manda a dire il generalissimo dei dayachi.
Avevano appena lasciata la torretta e raggiunta la terrazza che si alzava sopra la saracinesca, quando il parlamentario giunse, chiedendo di voler parlare all’uomo bianco.
— Non sono io il padrone del kampong — disse il portoghese, curvandosi sul parapetto e guardando con curiosità il guerriero ed il suo tamburino.
— Non importa — rispose il parlamentario. — Il «Pellegrino della Mecca», il discendente del gran Profeta, desidera che io comunichi solamente coll’uomo bianco, il fratello della Tigre della Malesia.
— Per Giove! — esclamò Yanez, ridendo. — Due fratelli di colore diverso! Quel «pellegrino» deve essere un grande sciocco. — Poi alzando la voce, proseguì: — Mi dirai allora che cosa ha da dirmi il discendente del Profeta.
— Egli ti manda a dire che accorda per ora la vita a te ed ai tuoi uomini, a condizione che tu gli ceda Tremal-Naik e sua figlia.
— E per cosa farne di loro?
— Per decapitarli — rispose candidamente il guerriero.
— Mi dirai almeno per quale motivo.
— Allah così vuole.
— Dirai allora che il mio Allah invece non lo vuole e che io sono qui venuto per far rispettare il suo desiderio e che sono pronto a difendere i miei amici.
— Ti ripeto che Allah e il Profeta hanno decretato la morte di quell’uomo e di quella fanciulla.
— Io me ne infischio di loro e di quell’imbroglione di «pellegrino» che vi ha fanatizzati dandovi da bere delle panzane.
— Il «pellegrino» è uomo che ha compiuto dei miracoli sotto i nostri occhi.
— Ma non sotto i miei e gli dirai anzi che lo sfido a farne qualcuno. Fino a prova contraria non lo crederò altro che un intrigante che abusa della vostra dabbenaggine o dei vostri istinti sanguinarî.
— Io andrò a riportare a lui le parole dell’uomo bianco.
— Senza fretta, giacchè noi non ne abbiamo — disse Yanez, ironicamente.
Il tamburino fece echeggiare per tre volte il suo pesantissimo istrumento che risuonò come il tuono udito in lontananza, poi i due selvaggi tornarono verso l’accampamento dove tutti i guerrieri pareva che li aspettassero con viva impazienza.
— Quel «pellegrino» deve essere il più gran furbo che viva sotto la cappa del cielo — disse Yanez a Tremal-Naik, quando i due parlamentari si furono allontanati. — Che specie di miracoli può aver compiuto quell’uomo per persuadere i dayachi d’essere un semidio? Vorrei saperlo.
— Qualche cosa deve evidentemente aver fatto — rispose l’indiano. — Non ci s’impone da un momento all’altro a questi selvaggi che sono per natura diffidenti.
— Armi, denari e miracoli! — esclamò Yanez. — Con tuttociò si domano anche gli antropofaghi della Malesia. E non sapere per quali cause quell’uomo se la prende con noi!
— Con me e con mia figlia — corresse Tremal-Naik.
— Per ora: e poi?... E poi non mi fiderei delle promesse di quell’impostore. To’! Ecco il parlamentario che ritorna. Comincia a diventare noioso anche lui e anche il suo tamburone. Se si mostra ancora gli farò tirare nelle gambe una scarica di pallottole o di chiodi.
— Uomo bianco — disse il parlamentario, quando giunse sotto il terrazzo, — il «pellegrino» mi manda a dire che egli compirà dinanzi a te un miracolo stupefacente che nessun altro uomo potrebbe fare, per dimostrare a te ed ai tuoi uomini la sua invulnerabilità.
— Vuole che io provi sul suo corpo la penetrazione delle palle della mia carabina? — chiese Yanez beffardamente.
— Egli si propone di eseguire dinanzi ai tuoi occhi la prova del fuoco e vuol mostrarti come ne uscirà incolume per la protezione celeste che gode. Chiede solo che tu gli conceda una zona di terreno in prossimità del kampong, in modo che tu possa ben osservarlo.
— E poi?
— Non ti basta?
— Domando che cosa farà dopo.
— Aspetterà la tua decisione.
— Che sarebbe?
— Di consegnargli nelle sue mani l’indiano e sua figlia, perchè dopo una simile prova non ti rimarrà più alcun dubbio che egli non sia un semidio, contro cui nessuno potrebbe lottare: nè tu, nè i tuoi uomini e nemmeno la Tigre della Malesia, quantunque la si dica invincibile.
— Giacchè il «pellegrino» è così gentile da offrirci uno spettacolo, digli che noi non ci opponiamo. Ci servirà almeno di svago.
— Tu non credi, uomo bianco, che il «pellegrino» possa subire una simile prova?
— Te lo saprò dire quando avrò veduto quel miracolo.
— E ti arrenderai allora?
— Questo poi non te lo posso dire per ora.
— I tuoi uomini disarmeranno subito e ti abbandoneranno.
— Va bene: aspetterò che gettino a voi i loro fucili — rispose Yanez col suo sorrisetto ironico.
Non era trascorso un quarto d’ora da che i due parlamentari avevano fatto ritorno per la seconda volta all’accampamento, quando Yanez e Tremal-Naik, che non avevano abbandonato il terrazzo, curiosi di godersi quel miracolo, videro due drappelli di dayachi, formati d’una quindicina d’uomini ciascuno, tutti disarmati, accostarsi al kampong, portando delle grandi ceste colme di pietre per la maggior parte piatte, che dovevano aver raccolte di certo nel letto di qualche ruscello.
Si fermarono a cinquanta passi dal terrazzo e si misero a disporle in modo da formare una specie di aia, larga una mezza dozzina di metri e lunga il doppio.
— Preparano il letto del braciere — disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava.
Ripartiti i due drappelli, se ne avanzarono due altri carichi di legname resinoso che accumularono sulle pietre e che poi accesero lasciandolo avvampare per un paio d’ore. Yanez, Tremal-Naik e tutta la guarnigione, eccettuate le sentinelle, avevano assistito pazientemente a quei preparativi, tenendosi al riparo degli alberi i cui rami fronzuti proiettavano una fresca ombra sulle terrazze costruite sulla cinta per permettere ai difensori di far fuoco più comodamente.
I dayachi che, da quanto si poteva capire, ci tenevano a mostrare all’uomo bianco — essere superiore per loro — i miracoli del «pellegrino», a poco a poco si erano radunati intorno al falò, senza che i difensori del kampong si fossero presi la briga di protestare, essendosi avanzati tutti inermi.
— Ecco un divertimento che non godremo mai più — aveva detto Yanez — e che non produrrà alcun effetto, almeno sui miei Tigrotti.
— E nemmeno sui miei fedeli — soggiunse Tremal-Naik.
— Eh! — esclamò Yanez. — Guarda il «pellegrino» che si avanza! Quel birbone si lascerà bruciare le piante dei piedi per dare ad intendere ai suoi fanatici che è un semidio, un essere superiore, un vero discendente del Profeta... lo ammiro la sua forza d’animo.
— Ed io vorrei ucciderlo con un buon colpo di fucile o di spingarda — rispose Tremal-Naik.
— Non commettiamo un simile assassinio, amico mio. Dobbiamo essere gli ultimi a rispondere alle provocazioni. Siamo persone civili, noi.
Un urlo immenso li avvertì che il «pellegrino» stava per lasciare l’accampamento, onde mostrare all’uomo bianco ed ai suoi guerrieri la sua invulnerabilità e la sua potenza di essere superiore.
Darma, la gentile e graziosa anglo-indiana, aveva raggiunto suo padre e Yanez. Anche i Tigrotti di Mompracem si erano radunati sul terrazzo, appoggiando le carabine ai parapetti, temendo qualche sorpresa da parte di quei selvaggi nei quali non avevano nessuna fiducia.
Il «pellegrino» si avanzava verso la via formata dalle pietre, rese ardenti da due ore di fuoco continuo.
Aveva sul capo il suo turbante verde ed il viso nascosto da un piccolo drappo di seta d’egual colore. Il corpo invece era avvolto in una specie di camicia assai attillata, di nanchino giallo, che gli scendeva fino alle ginocchia, ed i suoi piedi erano nudi.
— O quell’uomo è un gran ciurmadore, od una vera salamandra — disse Yanez.
— Forse che i fachiri dell’India non passeggiano sui tizzoni ardenti, invece che sulle pietre arroventate? — disse Tremal-Naik. — Non ricordi della festa di Darma Ragia, dove tu hai conosciuta l’adorabile Surama, la nipote del rajah di Gualpara?
— Per Giove, se me ne ricordo! — rispose Yanez.
— Anche in quella festa i fanatici correvano sulle brace.
— Ma uscivano da quell’inferno zoppi, mentre questo demonio di «pellegrino» promette di passeggiare su quelle pietre scaldate a bianco, senza alcun malanno.
— Lo vedremo, Yanez, a meno che non sia un gran fachiro.
— Apri gli occhi, Darma — disse Yanez, vedendo la fanciulla curvarsi sul parapetto. — Non mi fido di quei bricconi.
— Che cosa temete, signor Yanez?
— Eh! Un colpo di carabina si fa presto a spararlo.
— Non hanno alcuna arma — rispose Darma.
— Sì, visibile. Avanti, signor discendente di Maometto, mostrateci il vostro miracolo.
Il misterioso avversario di Tremal-Naik era giunto dinanzi all’aia lastricata di pietre che doveva proiettare un calore assolutamente intollerabile.
Stette un momento raccolto in se stesso, con le mani alzate e gli sguardi fissi verso occidente, ossia in direzione del lontanissimo sepolcro del Profeta, agitò per qualche po’ le labbra come se recitasse una preghiera, poi si slanciò risolutamente sulle pietre, gridando con voce rimbombante:
— Allah! Allah! Allah!
Quindi con passo sicuro, insensibile all’ardente calore che saliva dalle pietre, coi piedi e le gambe nude, s’avanzò sull’aia, a passi lenti, senza che gli sfuggisse un moto che tradisse qualche dolore.
I dayachi, stupiti, ammaliati da una simile prova, lo guardavano con profonda ammirazione, alzando le braccia.
Quell’uomo per loro doveva essere assolutamente un semidio, un vero discendente del Profeta.
Il «pellegrino», compiuta la traversata, si fermò un momento, poi ritornò sui suoi passi, sempre calmo, sempre impassibile, come se passeggiasse su un prato anzichè su delle pietre che potevano cuocere benissimo del pane.
— Costui deve essere un figlio di compar Belzebù! — esclamò Yanez, che non poteva fare a meno di ammirare lo stoicismo di quell’uomo. — Come può resistere a quel calore? Eppure i suoi piedi sono nudi e qui non vi può essere alcun trucco.
— Quell’uomo dev’essere insensibile come una vera salamandra — rispose Tremal-Naik.
Il «pellegrino», compiuta la seconda prova, volse il viso mascherato dal drappo verso Yanez, guardandolo per qualche istante, poi si allontanò a lenti passi, dirigendosi verso la sua tettoia, mentre i dayachi, in preda ad una vera esaltazione, urlavano a squarciagola:
— Allah! Allah! Allah!
Qualche minuto dopo, mentre i guerrieri raggiungevano i loro accampamenti, precipitandosi verso il «pellegrino», il parlamentario, accompagnato dal suo tamburino, si presentava per la terza volta sotto la terrazza.
— Che cosa vuoi ancora, uomo noioso? — gli chiese Yanez.
— Vengo a chiederti se dopo una simile prova data dal discendente del Profeta, tu ti sei deciso ad arrenderti — disse il guerriero.
— Ah! È vero, dovevo darti una risposta — disse Yanez. — Dirai dunque al figlio o nipote o pronipote di Maometto, che io lo ringrazio dell’interessante spettacolo che si è degnato di offrire a noi, poveri miscredenti.
Poi levandosi, con un gesto superbo, un magnifico anello che portava in un dito, lo gettò al parlamentario stupito, aggiungendo:
— E questa è la sua ricompensa!...