Il Natale del Duca di Reichstadt
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IL NATALE DEL DUCA DI REICHSTADT
Percorrendo Schoenbrunn, gran castello imperiale di piccola architettura, situato nel circondario di Vienna, il cicerone, dopo avervi guidato nelle gallerie di lusso, vi apre un’appartamento la cui vista è più suggestiva da sè sola, di quella delle mille cinquecento stanze e delle cento e trentanove cucine che contiene il palazzo. E’ là che nella dimora della superba Maria Teresa nel tradizionale santuario della monarchia austriaca, visse a due riprese — dopo Austerlitz o prima di Wagram — Napoleone, vincitore del vecchio impero germanico.
Per una commovente coincidenza, forse voluta, nello stesso appartamento languì e trapassò ventidue anni più tardi il duca di Reichstadt, nato re di Roma, e morto colonnello austriaco.
Nel mostrarvi quelle stanze vi viene narrata una storia: una storia tanto strana e romanzesca tanto ingenua, tanto vera però che si crederebbe udire uno di quei racconti d’altri tempi, in cui dei giovani principi, sotto la sorveglianza di carcerieri gelosi, ricevevano, pel concorso delle fate, la visita di un buon genio, protettore e benefico.
Verso la fine dell’autunno 1823, uno straniero era giunto alla Couronne de Hongrie uno degli alberghi vicini al castello di Schoenbrünn.
Come pareva non occuparsi che di sè stesso, prendendo cura dei suoi menus, passando lunghe ore nella birreria, non frequentando alcuno, la polizia dopo averlo osservato per qualche tempo aveva cessato di preoccuparsi di lui. Lo si diceva francese e ricco, venuto in Austria per cacciare nel Bosco di Leopoldsberg; partiva all’alba, col fucile sul dorso, sempre seguito da un domestico a rudi baffi, che pareva essergli più amico che servo e non faceva ritorno all’albergo che a notte inoltrata: pranzava, leggeva i giornali, indi se ne andava, se faceva bello, a fumare la sua pipa sulla soglia, guardando da lungi la lunga silhoutte cupa del castello, che si delineava nello sfondo di un’immensa spianata e ove splendeva soltanto, al primo piano dell’ala destra, una fiammella tenue e pallida, indicando il punto ove vegliava il giovane principe... l’aquilotto prigioniero, cui eran state recise le ali.
Convien dire ancora che lo straniero s’era legato con alcuni servi del castello, i quali finite le loro attribuzioni, andavano a passare la serata alla Couronne de Hongrie: egli si mostrava appassionato dilettante di fiori rari, e, per le relazioni che si era create fra i giardinieri e la livrea della residenza andava sovente a gironzare durante lunghe ore nelle serre e nei giardini del palazzo.
Ora, in quell’anno 1823, la Corte, in occasione delle feste del Natale, venne a stabilirsi a Schoenbrünn.
Secondo un vecchio costume germanico che si propagò poi nel mondo intero, nella galleria era stato eretto un alto e verde abete strappato ai fianchi del Schneeberg.
L’albero issava il suo tronco robusto ed eretto fino alle volte coperte di affreschi raffiguranti le divinità dell’Olimpo. Le alte specchiere riflettevano i verdi rami, gravi di aranci, di sacchetti di dolci, di uccelli impagliati, di piccoli soli di stagno, di nastri, di campanelli, che brillavano alla luce di mille candele ardenti sotto a globi di vetro variopinti, variati, i quali ravvivano giocondamente il cupo fogliame.
Il circolo intimo dell’imperatore feld-marescialli dalle scintillanti uniformi, grandi dame in abbigliamenti di gala, era stato convitato alla festa.
Era una festa difatti; Francesco II, aveva avuto l’idea di presentare alla sua corte il piccolo nipote che fin’allora era vissuto recluso e solitario nella poco ricreativa società del conte Districhtein, suo precettore, del capitano Foresti, suo professore di arte militare e del signor di Metternich, cui incombeva il compito particolarmente delicato di apprendergli la storia.
La storia, insegnata al figlio di Napoleone, da Metternich!...
D’altronde l’allievo era docile e studioso: i maestri si mostravano soddisfatti delle sue felici disposizioni, ed era appunto per ricompensarlo di quella applicazione allo studio, che l’imperatore Francesco s’era deciso di presentarlo alla Corte e trattarlo coi riguardi ai quali il suo titolo di principe gli dava diritto.
Nella sala, intorno all’albero del Natale, erano raccolti i tre mentori che Francesco II interrogava attendendo l’entrata in scena del fanciullo imperiale.
— Sire, diceva il conte Districhtein, il principe Franz (tale era il nome tedesco di Napoleone II) il principe Franz mi colma di soddisfazioni; il suo ardore allo studio, la mente tenace, l’intelligenza acuta assecondano mirabilmente le cure che io prendo della sua educazione letteraria. Egli è, è vero, qualche po’ ribelle a Tacito e a Orazio; ma traduce a libro aperto i Commentarii di Cesare, e questo libro divenne la sua lettura favorita.
— Hum, Cesare! fece l’imperatore il cui volto si offuscò. Non temete voi che Cesare, ridesti nella sua mente un confronto spiacevole?... Mai un’allusione da parte sua?... Mai una domanda indiscreta?...
— Oh! Sire! Il principe Franz ha fortunatamente obliato perfino il nome del suo paese, e l’uomo che sventura volle egli avesse per padre non esiste per lui... Di questo mi vanto, e il signor Foresti potrà confermarvi quanto asserisco.
— Sotto ogni rapporto, sire, disse il professore d’arte militare, curvandosi. Chiamato all’onore di apprendere al principe Franz le cose di guerra, io lo allevai nel culto dei grandi capitani... L’illustre Maria Teresa, il gran Federico sono i suoi eroi, e...
— E... l’altro? riprese l’imperatore esitando, suo padre?...
— Non ebbi mai a pronunziare il nome di quell’uomo nefasto, i cui rari trionfi, dovuti al caso, nulla hanno a vedere coll’arte della strategia...
— Il signor di Metternich, apprendendogli la storia, non avrà, certo, potuto serbare l’eguale silenzio.
— Vi domando perdono, sire, riprese Metternich; io ho istruito il principe Franz sulle virtù de’ suoi avi... degli avi dell’augusta sua madre, intendo dire; e non credetti dover rattristare la sua giovane mente colla narrazione d’incidenti che turbarono la pace europea durante questi ultimi anni. Avvenimenti abbastanza gloriosi si presentano negli annali del santo Impero Romano; e credetti inutile ridestare un passato troppo recente ancora e per sempre obliato.
— Tutto è dunque pel meglio, disse l’Imperatore soddisfatto; voi faceste del mio nipotino un onesto e leale tedesco, e ve ne sono grato, amici miei. Or dunque, poichè Franz ha conquistato il suo posto fra noi, ordino ormai non gli si tenga più rigore per la funesta sua origine... Signor barone d’Obenhaus, vogliate introdurre il principe. Spero, signori, soggiunse Francesco II volgendosi verso il circolo degli invitati che assistevano alla scena, che il nipote mio troverà nella vostra accoglienza un compenso alla sventura della sua nascita... della quale dopo tutto non è responsabile.
La porta si aprì, e il fanciullo comparve. Egli si arrestò sulla soglia, sollevò gli occhi indifferente verso l’albero del Natale raggiante che metteva nel centro della galleria un bagliore... non parve affatto commosso di quella meraviglia, e, a passi lenti s’avvanzò verso l’Imperatore. Era vestito dell’uniforme bianca dei colonnelli austriaci, i capelli biondi e ondeggianti gli scendevano sulle spalle, era pallido, di un pallore malaticcio, e le labbra scolorite parevano disabituate al sorriso. Soltanto gli occhi erano vivi in quel mesto volto d’adolescente grave, per quanto si applicasse, come fu detto, ad estinguerne la espressione e lo splendore.
Al suo presentarsi, tutte le conversazioni cessarono...
Per coloro che assistevano a quella scena, l’apparizione di quel fanciullo debole evocava con impressionante contrasto il fantasma dell’uomo che aveva, colle sue mani possenti, spezzata la vecchia Europa per rifarla a suo modo, e che, in quello stesso palazzo, aveva col suo tallone schiacciato l’antico Impero degli Habsbourg.
Il principe Franz si avanzò verso il suo avolo, e, umilmente gli baciò la mano.
— Volli, figlio mio, disse Francesco II per rompere il silenzio penoso che pesava sugli astanti, volli procurarvi qualche distrazione; è giunto il momento di tenere, alla mia corte, il rango che vi assegna la vostra parentela con me... i vostri maestri si mostrano soddisfatti... ma se è bene lavorare, non si deve, per troppa inclinazione allo studio, allontanare le distrazioni dell’età vostra...
— Sire, vi rendo grazie, rispose il fanciullo.
Indi se ne andò modestamente a sedere in un seggiolino in disparte. Si tenne cogli occhi fissi a terra, meditabondo, assorto in qualche strano pensiero, che solcava di rughe la sua giovane fronte, e gli metteva una piega all’angolo delle labbra. L’imperatore, turbato, taceva; gli alti personaggi presenti imitavano il suo mutismo; e un nuovo spettro parve aleggiasse nella galleria, quello di un altro fanciullo, nato per portare la corona, egli pure, e la cui lenta agonia, in fondo a una prigione del Temple, aveva un giorno terrorizzato il mondo.
Il signor di Metternich, da esperto diplomatico, s’incaricò troncare quel silenzio, prendendo a tema le tendenze serie del suo allievo, l’emozione che gli procurava il suo debutto alla corte, con abili transazioni scivolò verso considerazioni generali, delle quali alimentò la conversazione rinascente; parve che nessuno più prestasse attenzione al fanciullo che s’isolava nel suo raccoglimento, all’abbagliante albero del Natale le cui candele si estinguevano tristamente una ad una nei loro globi variopinti... ma un’oppressione gravava su tutti, e con un sospiro di sollievo fu udito Metternich emettere l’opinione che il principe Franz era senza dubbio stanco, sollecitando per lui il permesso di ritirarsi.
L’imperatore fece un gesto breve; il fanciullo andò a lui, gli baciò la mano e si allontanò collo stesso languido passo verso la parte che adduceva al suo appartamento.
Rientrò nel salottino tutto tappezzato di specchi, ch’era stato quello di suo padre.
Quando Franz fu solo nella sua stanza, cadde seduto sul divano e rimase pensoso. Un malinconico concentramento era lo stato consueto di quel povero adolescente, che a nessuno confidava i suoi pensieri, nè i suoi desiderii. A che pensava egli così incessantemente? Forse il ricordo del vasto e raggiante palazzo ove era trascorsa la sua infanzia tormentava la sua mente... forse rivedeva la cupola delle Tuilleries sormontata dalla gaia bandiera a tre colori... forse riviveva in silenzio in quel passato glorioso, del quale non voleva parlare.
Quella sera più triste ancora del consueto, stava cogli occhi fissi, lo sguardo smarrito su quelle pareti a specchi che coprivano il salottino. Sapeva — come lo aveva appreso? lo s’ignora — sapeva che suo padre aveva occupato un tempo quell’ambiente, che s’era seduto su quel divano ove egli oggi si trovava, che la gloriosa sua imagine s’era riflettuta in quegli specchi, che ora gli rimandavano il suo pallido e malaticcio viso d’orfano. Ma chi dunque era suo padre? Che aveva fatto quell’uomo, perchè si evitasse insegnare al figlio il suo nome e la sua storia?... Quale delitto aveva egli commesso per essere messo al bando della società a tal punto che il figlio non osasse neppure interrogare sul conto suo coloro ch’erano incaricati di apprendergli la vita?
E mentre rimestava questi pensieri, troppo gravi al cervello di un fanciullo, la sua attenzione fu a un tratto attirata da un oggetto posato sul suo scrittoio. Era un vaso comune, colmo di terra secca, in mezzo alla quale era piantato un ramoscello di pino verde, semi-spogliato delle sue foglie.
Franz si alzò ed esaminò quello strano oggetto. Chi lo aveva là posato? Era un albero di Natale... non già paragonabile a quello allora da lui veduto nella galleria del castello... nulla di più umile, di più povero, di quel ramoscello quasi morto, conficcato in quel pugno di terra arida, e però, più lo contemplava più sentiva battersi il cuore, più si lasciava invadere da una angoscia sconosciuta. Si accostò vieppiù. Accanto a quell’inesplicabile simbolo era posato un rotolo di carta legato con un nastro viola.. Il fanciullo, preso da un timore misterioso, non osava toccare quella lettera... perchè era una lettera, senza alcun dubbio.
— Chi entrò qui?... interrogò sommessamente: e il suo sguardo percorse la stanza... Era solo. E a un tratto, con atto risoluto svolse il foglio. Le dita gli tremavano... No, non era una lettera, ma una imagine, una di quelle imagini popolari, grossolanamente colorite a tinte stuonanti... Rappresentava un uomo con piccolo cappello di battaglia — e sulla uniforme militare, attraversata da un gran cordone rosso, una redingote bigia. Sullo sfondo era figurata una linea di soldati raccolti intorno a una bandiera bleu, bianca e rossa, e nel cielo, fra raggi di un gran sole, era tracciata questa parola: lui.
Franz non poteva staccare gli occhi da quella effigie... Affascinato, la contemplava, e di repente fra le nebbie delle sue reminiscenze si fece uno squarcio. Quell’uomo, lo aveva veduto... nel lontano della sua memoria quella figura si ergeva incerta e fluttuante: quella apparizione che così veniva a turbare la sua solitudine, egli si sovveniva di averla veduta, diggià, curvarsi sulla sua culla: que’ soldati dalle uniformi azzurre e rosse rammentava averli veduti ancora, dall’alto di un poggiuolo, al rumore di tamburi e di fanfare; quella bandiera tricolore la riconosceva... Si portò ambe le mani sulla fronte.
— Oh! ho paura, gridò, ho paura! chi dunque entrò qui? chi dunque posò questa imagine?
E nell’alto specchio situato a lui di fronte, si vedeva, spaventato, pallido, cogli occhi dilatati dall’angoscia quando a un tratto gli parve che le pareti di specchi si muovessero, girassero come una porta su invisibili cardini... Mandò un grido e stette immobile di stupore; la parete si apriva realmente, un uomo entrò nella stanza.
— Nulla dovete temere, monsignore, disse l’incognito...
E piegando il ginocchio, prese la mano del fanciullo e la baciò.
— Chi siete? chiese Franz, la cui voce era appena percepibile: come penetraste qui? Perchè veniste?...
— Venni, per parlarvi di vostro padre, monsignore... per deporre a’ vostri piedi i voti e gli omaggi di milioni d’uomini che rimasero fedeli alla sua memoria... vengo a parlarvi della Francia.
— Mio padre?... la Francia?...
— Feci cinquecento leghe per portarvi questo pugno di terra, questo ramo disseccato, e questa imagine. Questa terra fu presa nel giardino delle Tuilleries, questo ramoscello fu colto a Saint-Cloud, questa imagine è simile a quella che si vede appesa alle pareti di tutti i casolari di Francia: essa rappresenta Napoleone.
— Le Tuilleries?... Napoleone?... Saint Cloud?... ripeteva macchinalmente il fanciullo, cercando di porre un ricordo su quelle parole un dì famigliari, e il cui suono gli ridestava nella mente mille confusi pensieri.
— Vi sono laggiù, monsignore, nella Francia, milioni d’esseri che non pensano che a voi, che non sperano che in voi, che darebbero la loro vita per voi... Una vecchia tradizione pretende che in questa notte di Natale, il cielo si schiude e gli angeli scendono a portare a tutti i figli della terra una gioia e una benedizione... Ebbene non volemmo che voi foste obliato.
D’altronde, rassicuratevi, io non sono un inviato di Dio: se potei introdurmi nella vostra prigione — perchè questa stanza è una prigione per voi — fu mediante quell’uscita segreta che il padre vostro aveva fatto praticare quando abitò questo appartamento... Da molto tempo spiavo l’occasione, che mi fu offerta questa sera approfittando della festa che si dava nel castello.
— Avete conosciuto mio padre? Chi dunque egli era?
— Egli era il padrone del mondo. Il Cesare che ammirate, mi fu detto, è un nano di fronte a questo gigante di gloria. Vostro padre, l’Imperatore, il Re, il capo adulato e temuto di ottanta milioni d’uomini, morì sopra una roccia, smarrita in mezzo all’Oceano; prigioniero in un’isola deserta, come voi lo siete in questo palazzo, morì dopo cinque anni di agonia, rodendosi le pugna, chiamandovi, gridando il vostro nome... Gli estremi suoi sguardi si sono arrestati sulla vostra imagine, e quando il suo sole si estinse sull’orizzonte del mondo, un lungo grido di dolore sorse da ogni angolo della Francia... ora è voi ch’ella chiama. Il nome vostro fa tremare tutti i re dell’Europa; ma la Francia è orgogliosa, pensateci: e potrebbe preferire l’uomo che per riconquistarla fa tentativi quasi insensati, a quello che si addormenta nella sua rassegnazione ai decreti della Provvidenza. Ecco quanto venni ad apprendervi. E quando mi avrete udito, io vi dirò: Monsignore, volete seguirmi? volete che questa scala — e lo sconosciuto indicò col gesto la porta segreta per cui era entrato — volete che questa scala praticata dal padre, serva, dopo quindici anni all’evasione del figlio?
Il duca di Reichstadt si terse gli occhi bagnati di lacrime, e, accennando al suo visitatore di prender posto al suo fianco sul divano:
— Bene, signore, disse, v’ascolto.
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Il domani giorno di Natale, lo straniero che da un mese abitava l’albergo della Cauronne de Hongrie, partì all’alba per la caccia, seguito dal suo domestico; aveva saldato la sua nota, di maniera che l’albergatore non fu che mediocremente sorpreso, e nulla affatto inquieto quando s’avvide al crepuscolo della sera che il suo cliente non era ritornato.
Non fu più veduto a Schoenbrünn... Perciò è tempo di lasciare il racconto per rientrare nella storia. Ch’era avvenuto fra quell’uomo e il duca di Reichstadt? Fu sempre ignorato: forse costui si lasciò riprendere ai ricordi di gloria evocati così inopinatamente alla sua memoria; fu detto — ma non è questa che una vaga tradizione — ch’egli fosse arrestato nel momento in cui la diligenza che lo conduceva verso la Francia passava il Danubio sul ponte di Linz. Forse invece, il fanciullo imperiale la cui natura era stata accuratamente compressa, rammollita, assopita dai maestri che Francesco II gli aveva dati, si spaventò dell’avvenire brillante, ma turbato, che gli prometteva il suo ritorno a Parigi.
Ecco ciò che più sembra probabile. Una sola cosa è certa, ed è che da quell’epoca, la sorveglianza si restrinse intorno al principe. Nessun francese potè mai pervenire fino a lui: il poeta Mery che aveva fatto il viaggio di Vienna per offrire al figlio di Napoleone il poema della campagna d’Egitto, non potè vederlo che da lontano, nell’ombra di un palchetto, al teatro di Corte. Tutta la giovinezza del disgraziato fanciullo fu una lunga prigionia, una lamentevele agonia... Perchè il dolore, l’isolamento, la disperazione ne avevano distrutta la salute. Il giorno in cui più non si alzò, dicesi, che la folgore schiantò una delle aquile che ornano il cancello del castello di Schoenbrünn... Qualche giorno dopo Napoleone II moriva e tutta la Germania emetteva un sospiro di sollievo...