Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo XXI
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XXI.
Ma non si decideva.
Sentiva qualche cosa dentro di sè, che sopravveniva sempre ad arrestarlo nei momenti in cui egli avrebbe voluto prendere finalmente una risoluzione; qualche cosa che somigliava a una superstiziosa paura, a una vaga apprensione di pericoli appiattati nell’ombra e pronti a slanciarsi sopra di lui appena si fosse deliberato ad attuare quel progetto iniziatore della nuova fase della sua vita.
E cavava fuori oggi un pretesto, domani un altro, con una specie di inconsapevolezza feconda che gli dava un senso di soddisfazione e di sollievo, quasi la scusa, il pretesto non fossero stati cercati, ma offertisi spontaneamente col naturale andamento delle cose.
Per questo il cugino Pergola, il dottor Meccio e gli altri erano riusciti a far breccia nell’animo di lui, a vincerne la repugnanza di prender parte alle lotte municipali, quantunque, secondo la sua espressione, non si arrivasse per mezzo di esse a cavare un ragno da un buco.
Scadeva di carica il Sindaco. Menato pel naso da due o tre consiglieri furbi e prepotenti che non avevano voluto essere della Giunta per levare le castagne dal fuoco con la zampa altrui, egli non osava di muovere un dito senza aver preso prima l’imbeccata da loro. Appunto i nomi di essi erano stati sorteggiati per la rinnovazione del quinto dei consiglieri. Bisognava impedire che venissero rieletti, o almeno far entrare nel Consiglio, invece di qualcuno di loro, il marchese che sarebbe poi stato il personaggio più importante tra quei pecoroni, capaci soltanto di dire sì o no come veniva loro imposto.
Nome, censo, onestà, che altro poteva chieder di meglio il governo per nominare sindaco il marchese? E la cuccagna di quei signori sarebbe finita di botto.
— Il marchese di Roccaverdina — esclamava il dottor Meccio — non è un burattino da muoversi secondo che quei signori tireranno i fili da dietro la scena.
— Avrete un plebiscito, cugino! — soggiungeva il cavalier Pergola.
E a quattr’occhi, quando il dottor Meccio non era più là, con le sue fisime clericali, a trattenerlo di parlare, si sfogava:
— Siamo in mano di una serqua di sagrestani! Bisogna spazzarli via. Sagrestani e borbonici! Attendono da un momento all’altro il ritorno di Franceschiello....
In fondo in fondo il marchese era un po’ borbonico anche lui.
L’Italia una, sì, gli sarebbe parsa forse una bella cosa, se non avesse portato con sè tante tasse che non lasciavano rifiatare; ma a lui, che di politica non si era mai occupato, poco importava che il re si chiamasse Franceschiello o Vittorio Emanuele. La libertà egli la capiva fino a un certo punto. Chi gli aveva dato noie nel passato? Aveva sempre fatto quel che gli era parso e piaciuto in casa sua; non cercava altro.
Suo nonno e suo padre si erano procurati parecchi fastidi per essersi mescolati in certi affari; il nonno specialmente, carbonaro arrabbiato nel venti! Che n’avea ottenuto? Aveva dovuto acquattarsi per vivere in pace. E suo padre nel quarantotto? Capitano della guardia nazionale, per poco Satriano non lo aveva fatto fucilare. Ecco i bei guadagni dell’occuparsi di politica! Almeno con Ferdinando II e Franceschiello, si stava tranquilli. Niente lotte municipali. I Decurioni, come allora si chiamavano i consiglieri, li eleggeva il Sottintendente e nessuno osava di rifiatare.
Il cugino Pergola si arrabbiava sentendogli ripetere queste cose:
— E la dignità umana la contate per nulla? Ora ci amministriamo da noi con deputati e consiglieri eletti da noi. Se scegliamo male, la colpa è nostra...
— Precisamente; ed è impossibile sceglier bene. Le persone oneste non sono sfacciate, non amano di mettersi avanti, come coloro che niente hanno da perdere e tutto da guadagnare.
— Le persone oneste hanno torto. Lasciarsi sopraffare è da minchioni.
— Certe volte i minchioni la indovinano, cugino!
Intanto si lasciava travolgere dalle incitazioni e dall’esempio. Il cugino e gli altri digrossavano gli elettori, lasciando al marchese la cura di fare soltanto l’operazione d’ultima mano, con un saluto, con un sorriso, con un bel grazie, con un’accorta promessa che diceva e non diceva per non trovarsi poi troppo impegnato.
Così nelle prime settimane il marchese si era tenuto un po’ in disparte. A poco a poco però, il fervore della lotta aveva eccitato anche lui, spingendolo fino ad andare personalmente in casa di alcuni elettori influenti.
— Oh, signor marchese! Troppo onore!...Si figuri! Il suo nome...
— Non il mio solamente. Capite; sarei una noce nel sacco. Bisogna votare la lista intera.
— Ha ragione; ma... come si fa?
— Transigiamo. Due, tre nomi: questi.
— Si può dire di no al marchese di Roccaverdina?
Gli altri, contadini, operai, qualche galantuomo di quelli col don ma scarsi di quattrini, li mandava a chiamare con diverse scuse, o semplicemente con un: — Il marchese vuol dirvi una parola
— Vi darò io la scheda.
— Come voscenza comanda.
— Segnata, badate!
— A mio compare, eccellenza, non posso fare un torto; ho promesso.
— Vada per vostro compare.
Qualcuno si grattava la testa, impacciato.
— Che c’è?... Ti pagano?
— Che vuole, voscenza! Ho moglie e figli... Le male annate... Con lo stomaco non si scherza!
— Ti do il doppio; ma, il giorno avanti, in casa mia, per evitare le tentazioni; non sarai solo.
E se incontrava qualche resistenza, il maluomo veniva fuori in lui. Si trovava nel ballo, e doveva ballare, in tutti i modi, con tutti i mezzi, e non rifuggiva dalle minacce:
— Me la legherò al dito! Arriva un momento che in questo mondo si ha bisogno di qualcuno. Non vi lagnate se allora....
Addestratosi subito nelle manovre elettorali, già prendeva gusto alla lotta e vi si accaniva come non aveva mai immaginato che potesse accadergli. Era proprio vero che certe cose bisognava provarle per darne equo giudizio.
Pensava egli forse agli interessi del Comune, alle piaghe da guarire, alle questioni da risolvere, al bene da fare? No. Lo attraeva unicamente la lotta; e questa non tanto per la smania di vincere a ogni costo le forze avversarie, quanto per quell’affaccendamento con questo e con quello che lo distoglieva dal riflettere ad altro, che gli porgeva occasione di mostrarsene occupato e preoccupato assai più che non fosse in realtà.
Giacchè, di tratto in tratto, una parola, un accenno, un avvenimento, qualche cosa che insorgeva dentro di lui ciò non ostante, bastava a fargli scorgere la inanità di tutti quei suoi sforzi. Tra poco bisognava ricominciare a combattere l’aspra intima lotta che non voleva lasciarlo tranquillo, quasi niente avesse egli fatto sin allora per soffocarla, per nientarla!
Giusto in quei giorni gli si era presentata la vedova di Neli Casaccio coi suoi quattro bambini.
— Voscenza, ch’è stata la nostra divina Provvidenza!... Ha fatto cento, faccia, per carità, cento e uno! Prenda al suo servizio il grandicello. Io m’ingegnerò per sfamare gli altri, finchè avrò braccia e salute. Lo mandi in campagna col bovaro. Non chiedo salario. È buono anche per mandarlo qua e là, dove occorre. Ora che voscenza prende moglie.... Ho pregato anche la signora marchesa. Mi avevano consigliato: — Andate da lei! — Che ne so io come vanno queste cose? E la buona signora mi ha risposto....
— Niente! È impossibile! Ho fatto quel che ho potuto!
Aveva rabbia di tremare, come dinanzi a un giudice, davanti a quella povera donna coperta di miserabili stracci neri, sfiorita pel dolore e per la miseria, mal lavata e mal pettinata, e che conservava un lampo della vantata bellezza soltanto negli occhi grandi e neri, gonfi di lagrime.
— È vero! Glielo renderà in paradiso la Bella Madre Santissima! Io non ho parole per ringraziare voscenza! E il Signore deve darle, in compenso, cento anni di salute e di prosperità! Come dovrà dare fuoco in questa e nell’altra vita alle male persone che hanno fatto morire in carcere l’innocente di mio marito!... Era innocente, eccellenza! Innocente come Gesù Cristo messo in croce!
— Non l’ho condannato io — biascicò il marchese.
— Che c’entra voscenza? Dicevo: le male persone.
Ogni parola di lei gli aveva trapassato il cuore come una punta di stile.
Fortunatamente era sopravvenuto il cavalier Pergola, affannato, sudato, con gli occhi scintillanti per le buone notizie che recava.
La povera donna si rivolse anche a lui:
— Ah, signor cavaliere! Metta una buona parola, voscenza!
— Sì, sì; intanto andatevene. Se credete che il marchese non abbia altro da fare!
E la nottata precedente alla domenica in cui doveva avvenire la votazione, il marchese era andato attorno, accompagnato dal cugino e da parecchie persone fidate, a bussare alle porte degli elettori che dormivano tranquilli, per incoraggiare gli esitanti, per tentare gli ultimi assalti su coloro che resistevano, per condurre, come prigionieri, in casa sua quelli di dubbia fedeltà, o che non avrebbero saputo resistere alle pressioni degli avversari. E per le vie, pei vicoli, le squadre dei due partiti s’incontravano guardandosi in cagnesco, scambiandosi motti ironici, prendendo allegramente la cosa, secondo gli umori delle persone.
Il marchese non si era mai sognato di dover arrivare fino a questo punto. In certi momenti, sentiva nausea, stanchezza di quei piccoli intrighi. Intanto, si trovava nel ballo; doveva ballare! Un bel giorno, quando si sarebbe seccato, avrebbe mandato tutti - Municipio, Consiglio, elettori - tutti a farsi benedire! Non voleva ridursi il servitore di nessuno.
Era tornato a casa all’alba, e si era messo a letto, che non ne poteva più. Di là, intanto, nella sala da pranzo, quei mascalzoni vuotavano bottiglie di vino dietro bottiglie e mangiavano a due ganasce uova sode, formaggio, salame, ulive nere salate, noci, fichi secchi, con montagne di pani freschi che sparivano di su la tavola quasi fossero pilloline; mangiavano e bevevano, in attesa di essere condotti nella chiesetta di San Luigi, dove la votazione aveva luogo per mancanza di locali più adatti.
Venivano a prenderli a due, a tre, a quattro per volta, secondo la prima lettera dei nomi; e il cavalier Pergola e il dottor Meccio facevano da carabinieri, non lasciandoli avvicinare da nessuno per timore che non accadesse qualche rapido scambio di scheda, scortandoli fino al tavolino del seggio tra le risate, le parole sarcastiche, le velate minacce degli avversarii, che però non protestavano, facendo la stessa cosa per conto loro.
Poi il marchese avea dovuto uscire di casa in fretta per andare a deporre la sua scheda, al secondo appello; ed era passato in mezzo a due ale di elettori, quasi vergognoso di quel suo primo atto di vita pubblica che lo esponeva alla vista di tanta gente non meno di lui maravigliata di vederlo apparire colà.
E la sera, fino a tardi, la sua casa era stata invasa da persone di ogni sorta, venute a rallegrarsi della vittoria. Raccontavano episodi, magnificavano i loro sforzi, e gli si affollavano attorno per rammentargli tacitamente: — Dovrà ricordarsi di noi quando occorrerà! — Non abbiamo lavorato pei suoi begli occhi! — Non ci siamo messi allo sbaraglio unicamente per farle piacere!
— Così è il mondo! — pensava il marchese. — Tutto apparenza. Mi credono onesto, irreprensibile perchè ignorano. Così è il mondo! Forse parecchi di questi qui hanno fatto peggio di me, e, ignorando, anche io li stimo e li rispetto. Forse, non hanno avuto coraggio, ardire, astuzia, onesti loro malgrado; forse, loro è mancata l’occasione, onesti per caso!
Sentiva rinascere proprio in quei momenti la solita superstiziosa paura, la solita apprensione di pericoli appiattati nell’ombra. Gli pareva che il contatto con tanta gente lo costringesse a vivere in un’atmosfera insidiosa, dove non poteva respirare liberamente. Non vedeva l’ora di sottrarsi ai loro sguardi, di tornare a Margitello. Colà i lavori erano stati sospesi; voleva sorvegliarli lui, non si fidando molto dell’ingegnere. Stavano per arrivare i pigiatoi, i frantoi, le botti, i bottaccini, i coppi; e i locali erano ancora ingombri di materiali, e certe opere di muratura appena iniziate!
Inoltre, aveva fretta di assestare la sua casa, la sua vita; di riprendere un po’ la vecchia abitudine d’isolamento; di riposarsi dopo tante agitazioni che, infine, non erano servite a difenderlo, come aveva creduto, dagli intimi turbamenti dai quali era reso scioccamente irrequieto.
La baronessa di Lagomorto non aveva visto di buon occhio l’intromissione del marchese negli affari municipali.
— Che t’immagini? Si servono di te pei loro fini. Ti hanno mai ricercato prima?
— Ho sempre rifiutato.
— Avresti fatto meglio a lasciarli cantare anche ora. Zòsima, ieri mi diceva: — Ha tanto da fare a casa sua! — Quasi, poveretta, temesse...... Insomma, quando ti risolverai? Io non voglio morire prima di assistere alle tue nozze.
— Tra qualche mese, zia.
— Li so, per prova, i tuoi mesi! Hai la felicità sotto mano, e non ti scomodi a stendere il braccio! Perchè? Non ti capisco; Zòsima ha ragione di sospettare.....
— Mi dispiace.
— Lo dici in certa maniera! Comincio ad impensierirmi anch’io.
— Non credevo che la fabbrica laggiù, a Margitello, dovesse tenermi tanto occupato. Ora poi queste elezioni....
— Domani chi sa che cos’altro!
— Niente, zia! Mi sento stanco; ho bisogno di pace, di tranquillità. Ecco! Voi lo sapete, se una cosa mi afferra....
— Appunto!
— Uno di questi giorni, domenica prossima anzi, con voi, con la signora Mugnos, con Zòsima, parleremo dei preparativi; e in due o tre settimane.... Ho riflettuto; l’idea di Zòsima mi persuade; tutto alla buona, senza sfarzo, senza chiasso. Non potranno dire che faccia così per avarizia o perchè mi manchino i quattrini. Un matrimonio è festa di famiglia.
— Zòsima ne sarà molto contenta.
Ed era partito per Margitello assieme con l’ingegnere e il cavalier Pergola, il quale gli stava alle costole più che mai. Bisognava battere il ferro mentre era caldo; non perdere i beneficii della grande vittoria ottenuta.
— Gli amici sono rimasti scombussolati; ma lavorano con le mani e coi piedi presso il sottoprefetto, presso il deputato, perchè la scelta del sindaco caschi sopra uno di loro.
— Non posso farmi sindaco da me! — rispondeva il marchese un po’ seccato.
— Se li lasciamo mestare, se non ci facciamo vivi!... Una visita al sottoprefetto....
— E chi lo conosce cotesto signore?
— Non importa; è un funzionario del governo, e si terrà onorato di ricevere l’ossequio del marchese di Roccaverdina.
— Lasciamo, per ora, questo discorso. Guardate. Le campagne sembrano un giardino!
Un’immensa stesa di verde, di mille toni di verde, dal tenero al cupo che sembrava quasi nero; un trionfo, una follìa di vegetazione fin nei terreni più ingrati, che non avevano mai prodotto un fil d’erba!
I ciglioni dello stradone sembravano due interminabili siepi folte di maravigliosi fiori gialli, rossi, bianchi, azzurri, che si rizzavano su giganteschi steli tra foglie di smeraldo, come se un’esperta mano di giardiniere avesse pensato a mescolare i colori e le loro sfumature per produrre effetti di sorprendente decorazione. Ed erano erbe selvatiche senza nome, che s’intrecciavano, si pigiavano, non lasciando il minimo spazio tra loro, sorridenti, smaglianti al sole che le vivificava dall’alto.
E i seminati! Un tappeto di velluto verde che non finiva più, cosparso di macchie rosse dai papaveri, punteggiato di ricami cilestrini e violetti dalle iridi. E qua i papaveri dilagavano in larghe chiazze sanguigne; là, i fiori del lino coprivano liste e quadrati col loro tenero azzurro argentato; e dappertutto, miriadi di farfalle che s’inseguivano con ali tremolanti, piccole, grandi, di ogni forma e colore, quali non se n’erano mai viste, quante non se n’erano mai dischiuse dalle crisalidi e dai bozzoli a memoria di uomo!
Le mule della carrozza trottavano allegramente, e gli stormi dei piccioni di Margitello, incontrati alla svolta della carraia, tornavano addietro, verso il casamento con rapido fruscìo d’ale, quasi ad annunziare colà la visita del padrone.