Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
― 228 ― |
proprio vero che certe cose bisognava provarle per darne equo giudizio.
Pensava egli forse agli interessi del Comune, alle piaghe da guarire, alle questioni da risolvere, al bene da fare? No. Lo attraeva unicamente la lotta; e questa non tanto per la smania di vincere a ogni costo le forze avversarie, quanto per quell’affaccendamento con questo e con quello che lo distoglieva dal riflettere ad altro, che gli porgeva occasione di mostrarsene occupato e preoccupato assai più che non fosse in realtà.
Giacchè, di tratto in tratto, una parola, un accenno, un avvenimento, qualche cosa che insorgeva dentro di lui ciò non ostante, bastava a fargli scorgere la inanità di tutti quei suoi sforzi. Tra poco bisognava ricominciare a combattere l’aspra intima lotta che non voleva lasciarlo tranquillo, quasi niente avesse egli fatto sin allora per soffocarla, per nientarla!
Giusto in quei giorni gli si era presentata la vedova di Neli Casaccio coi suoi quattro bambini.
— Voscenza, ch’è stata la nostra divina Provvidenza!... Ha fatto cento, faccia, per carità, cento e uno! Prenda al suo servizio il grandicello. Io m’ingegnerò per sfamare gli altri, finchè avrò braccia e salute. Lo mandi in campagna col bovaro. Non chiedo salario. È buono anche per mandarlo qua e là, dove occorre. Ora che voscenza prende moglie....