Il Fiore delle Perle/33. Il sultano di Butuan
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Capitolo XXXIII
Il sultano di Butuan
Il villaggio del capo degli igoroti del Linguasan sorgeva sulla punta estrema d’un promontorio il quale si spingeva molto innanzi sulle acque del lago.
Si componeva di tre o quattro centinaia di capanne costruite su palafitte, onde metterle al sicuro dal crescere delle acque e anche da un improvviso assalto da parte dei nemici.
Alcune però, molto più vaste delle altre, trovavansi dentro il promontorio ed erano circondate da fossati ripieni di spine e da palizzate.
Nel mezzo di queste sorgevano parecchie vaste tettoie e un gruppo di sette od otto capannoni costruiti con tronchi d’albero massicci e guardati da un certo numero di guerrieri.
Essi costituivano la piazzaforte, abitata esclusivamente dal capo e dalle principali autorità del villaggio.
Quando il drappello giunse all’estremità del promontorio, una viva agitazione regnava per le vie.
Truppe d’igoroti armati di bolos, di archi, di mazze e alcuni di vecchi fucili a pietra, correvano per le vie o si raggruppavano sulle terrazze erette sulle palafitte.
Gruppi di donne e di bambini, guidati da alcuni vecchi, fuggivano verso i boschi, spingendo frettolosamente bande di maiali e portando sul dorso panieri ricolmi di provviste.
Dappertutto si gridava e si discuteva animatamente. I guerrieri, raccolti sulla spiaggia, s’indicavano vicendevolmente la flottiglia che stava allora girando una seconda punta e che pareva diretta precisamente verso il villaggio.
Il marinaio, che pareva godesse molta considerazione fra quei piccoli uomini, forse in causa della sua pelle bianca e anche dell’alta statura, si fece largo fra la folla, che guardava stupita il drappello dei chinesi, e condusse i suoi nuovi amici verso le capanne abitate dal capo.
Bunga stava allora per uscire, accompagnato da una ventina d’uomini armati di fucili.
Il capo degli igoroti del Linguasan, era un omiciattolo non più alto d’un metro e mezzo e già innanzi cogli anni.
Era di tinta un po’ più chiara dei suoi compatrioti, più muscoloso, e anche di primo acchito lo si riconosceva per un uomo molto più intelligente dei suoi sudditi.
Indossava una specie di camiciotto di nankino rosso, a fiorami, privo delle maniche e adorno di scagliette di tartaruga e di perle di vetro, e sul capo portava un ciuffo di penne di kakatoa trattenuto da un fermaglio d’oro.
Alla cintura aveva il bolo e in mano teneva un fucile a due colpi, colle canne brunite.
Vedendo comparire il marinaio seguìto dai chinesi, dal malese e da Tiguma, s’arrestò sulla riva del fossato ricolmo di spine, guardandolo un po’ sospettosamente.
— Chi sono quegli uomini? — gli chiese poi in cattivo spagnuolo.
— Essi sono amici nostri.
— E degli igoroti, — disse Tiguma, facendosi innanzi. — Il capo non mi riconosce più?
— Tiguma! — esclamò Bunga, con stupore. — Come ti trovi qui?
— Il capo del mio villaggio ti manda i suoi saluti e ti raccomanda questa fanciulla e gli uomini che l’accompagnano.
— Cosa vogliono da me?
— Sono venuti a cercare i prigionieri dalla pelle bianca per ricondurli in patria, — disse Tiguma. — Essi hanno salvato la nostra tribù dall’assalto d’un potente bagani, hanno ucciso il capo e molti dei suoi guerrieri, e sono amici degl’igoroti. —
Bunga lo aveva ascoltato in silenzio. Quando il giovane isolano ebbe terminato, lo prese per una mano e lo condusse in una delle sue capanne. Quel colloquio non durò che pochi minuti. Quando però il capo tornò, pareva molto preoccupato, anzi inquieto.
Egli s’avvicinò a Than-Kiù e posatole una mano su una spalla, le disse:
— Temo che tu sia arrivata troppo tardi.
— Forse che gli uomini bianchi non sono più qui? — chiese il Fiore delle perle, con voce sorda.
— No, essi sono ancora in mio potere e li ho fatti partire per la foresta vergine, ma fino a quando saranno miei? Non vedi tu avanzarsi quella flottiglia?
— La vedo, — rispose Than-Kiù, con un filo di voce.
— Essa conduce qui il Sultano di Butuan.
— E cosa vuole quell’uomo?
— Prendermi gli uomini dalla pelle bianca.
— Con qual diritto?
— Con quello del più forte, — rispose l’igoroto, con un sospiro. — Egli ha saputo che qui vi erano gli uomini bianchi e mi ha intimato di consegnarglieli. Sembra che egli abbia grande desiderio di aver degli schiavi dalla pelle bianca.
— E tu glieli darai? — chiese Than-Kiù, con impeto selvaggio.
— Non ho forze sufficienti per impedirglielo. Egli viene qui con un numeroso seguito di guerrieri.
— E se tu rifiutassi di darglieli? — chiese Hong, che fino allora era rimasto silenzioso.
— Farebbe un macello della mia tribù.
— Vuoi lasciare a me l’incarico di rispondere a quell’uomo?
— Cosa vuoi fare? — chiese l’igoroto, con una certa apprensione.
— Contrastargli i prigionieri e fors’anche ucciderlo, — disse Hong con accento risoluto.
— Tu non oseresti tanto!...
— Temi quell’uomo?
— Sì, — rispose l’igoroto. — Egli è potente.
— E noi saremo più potenti di lui, — disse Hong. — Comanda ai tuoi uomini che si tengano pronti a tutto, anche a venire alle mani, e lascia fare a me.
— E tu saresti capace di uccider quel potente? — chiese l’igoroto, a cui forse sorrideva l’idea di sbarazzarsi di quel temuto avversario.
— Lo saprai più tardi. Tu intanto dirai a lui che noi siamo qui venuti per incarico della potente nazione degli uomini gialli. Pel resto penseremo noi. —
Poi, volgendosi verso Than-Kiù, le disse:
— Vieni, Fiore delle perle. Noi sapremo giuocare audacemente l’ultima carta! —
La flottiglia non era allora lontana più di cinquecento passi. Precedeva la grande canoa dal baldacchino rosso, montata dal Sultano, da quaranta rematori e da una scorta di venti guerrieri armati tutti di fucili, poi seguivano altre venti scialuppe tutte piene d’indigeni armati di bolos, di kampilang, di kriss, di lance e alcuni di moschettoni.
Una forza imponente, pei piccoli igoroti malamente armati e forse poco atti a sostenere una lotta contro quei nemici molto più robusti e di statura molto più elevata.
— Sono almeno in duecento, — disse Hong a Than-Kiù. — Ma bah! Con un buon colpo si può anche ridurli all’impotenza.
— Cosa vuoi fare, Hong? — chiese Than-Kiù, con un’angoscia che non riusciva a nascondere.
— Vedremo più tardi che cosa si potrà fare; ti dico però che quel Sultano non si porterà via gli uomini bianchi.
— Quali progetti hai?
— Silenzio, Than-Kiù, per ora. Andiamo a ricevere il Sultano. —
La grande canoa si era accostata alla riva, approdando dinanzi alle prime palafitte del villaggio.
La popolazione, composta solamente d’uomini, essendo le donne fuggite nei boschi, s’era radunata sulle terrazze tenendo le armi pronte. Si capiva che era in preda ad una grande apprensione, ad un vero pànico.
Il Sultano di Butuan era un uomo già vecchio, col volto molto rugoso ed i capelli e la barba bianca. Indossava una lunga veste di seta bianca, a ricami d’oro, stretta alla cintura da una larga fascia variopinta e sul capo portava un turbantino verde.
Al fianco aveva una vecchia scimitarra turca col fodero di marocchino rosso e l’impugnatura d’argento ed un pesante kampilang.
Bunga si era affrettato a muovergli incontro, dicendo:
— Salute al Sultano di Butuan. —
Il monarca s’era degnato di rispondere al saluto con una lieve mossa del capo.
Guardò con occhi corrucciati e sospettosi gli igoroti che stavano radunati sulle terrazze, poi disse con accento che suonava come un comando imperioso:
— Cosa fanno lassù quegli uomini armati?... Il Sultano di Butuan non ha già paura.
— Io ignoravo chi montava le canoe — rispose Bunga. — Se avessi saputo che erano comandate dal potente Sultano di Butuan, avrei ordinato ai miei sudditi di disarmarsi.
— E quegli uomini dal viso giallo che sono dietro di te, chi sono?
— Degli ambasciatori qui mandati dalla potente nazione degli uomini gialli, — rispose Bunga.
— Perchè sono venuti prima da te invece che da me? Ignoravano forse che qui regna il Sultano di Butuan? Mie sono le acque di questo lago, miei i villaggi che le circondano, miei i boschi, le fiere, i pesci, gli uccelli. Lo dirai loro.
— Lo sanno di già.
— E non sono venuti a rendermi il dovuto omaggio?
— Non sono giunti che ora e contavano ripartire questa sera.
— E cosa vengono a fare qui? Io ho udito parlare della loro nazione e mi hanno anche detto che è molto grande e molto potente, che ha grandi navi e molti cannoni.
— Essi sono venuti a reclamare la liberazione di alcuni uomini bianchi che prima si trovavano qui.
— Gli uomini bianchi! — esclamò il sultano, dardeggiando su Hong, che s’era fatto arditamente innanzi, uno sguardo cupo. — Dirai loro che sono giunti troppo tardi perchè anch’io sono venuto a reclamarli e per conto mio.
— Allora anche tu sei venuto troppo tardi, — disse Hong a cui erano state tradotte quelle parole.
Aveva pronunziata quella frase in spagnuolo ed il sultano che conosceva sufficientemente quella lingua, lo aveva subito compreso.
Udendo quelle parole, guardò il chinese con stupore, poi disse:
— Cosa vuol dire l’uomo giallo?
— Che tutti siamo giunti qui troppo tardi.
— E perchè?
— Perchè gli uomini bianchi sono fuggiti.
— Quando? — chiese il sultano, con sorda ira.
— Da tre giorni fuggono attraverso i boschi.
— Tu menti! — urlò il monarca.
— Gli uomini gialli non sono tuoi cani, nè tuoi schiavi per dare loro una smentita, — rispose Hong, audacemente. — Basta! La nostra nazione ha navi, ha soldati, ha cannoni ed è tanto grande da fare un solo boccone del tuo sultanato.
— Ma è lontana.
— Forse meno di quello che tu credi.
— Ed io sono vicino a te.
— E vuoi concludere? — chiese Hong, incrociando le braccia e guardandolo minacciosamente.
Il sultano sostenne per qualche istante lo sguardo fiero del chinese, poi abbassò gli occhi, dicendo:
— Sì, gli uomini gialli sono forti e potenti, ma anche il sultano di Butuan ha molte canoe e molti guerrieri e avrà gli uomini dalla pelle bianca.
— Ti ho detto che sono fuggiti.
— Manderò uomini ad inseguirli.
— Forse sono già molto lontani.
— Io so che fra di loro vi è una donna ammalata, quindi non possono aver percorsa molta via. I miei guerrieri vincono alla corsa i babirussa e li raggiungeranno. Bunga, il sultano di Butuan domanda ospitalità.
— Le mie capanne sono tue, — rispose il capo degli igoroti a denti stretti.
— Prendo possesso della tua dimora.
Poi volgendosi verso gli igoroti che occupavano le terrazze, aggiunse:
— I miei guerrieri hanno fame: portate loro dei viveri e mettete a loro disposizione le vostre capanne.
— Ed i miei sudditi, ove andranno? — chiese Bunga.
— Vi è la foresta per loro, — rispose brutalmente il monarca. — Andiamo!... —
Pochi minuti dopo il sultano e la sua scorta prendevano possesso della dimora del capo, cacciando tutti gli igoroti che vi si trovavano, compresi i figli del povero proprietario.
I guerrieri, legate le canoe alla spiaggia, avevano invaso il villaggio, facendo sgombrare le abitazioni e le terrazze.
Non erano ospiti, erano veri padroni o meglio dei ladroni prepotenti, che, certi dell’impunità, si credevano autorizzati a fare man bassa su tutto.
I poveri igoroti, impotenti a far fronte a quell’orda selvaggia, per paura di peggio, si erano affrettati a lasciare libero il campo, radunandosi sul margine della foresta onde proteggere, in caso disperato, le loro donne che si erano nascoste in mezzo alle fitte piante.
Solamente a Bunga era stato permesso di occupare un gruppetto di vecchie capanne che si trovavano sulla sponda del lago, su di una palafitta. Con lui si erano uniti i chinesi, ai quali anzi il sultano aveva mandato in dono due porci che aveva scovati nel villaggio, come se fossero cosa sua, ed alcuni canestri contenenti delle radici mangerecce, del pane di sagu e del vino bianco di palma.
Bunga era furente, essendosi sempre considerato come un capo indipendente, e non un suddito di quel brutale sultanaccio.
— Finirà male, — aveva detto a Hong ed a Than-Kiù.
— Per te o per lui? — aveva chiesto il chinese, con calma.
— Forse per ambedue.
— Allora tu mediti qualche vendetta.
— Gli igoroti sono uomini liberi e non devono tollerare simili umiliazioni.
— Finalmente! — esclamò il chinese. — Io aspettavo questa parola. Cosa vuoi fare?
— Io non lo so, — rispose Bunga, — qualche cosa però qui succederà.
— E non più tardi di domani, se vorremo salvare gli uomini bianchi, — disse Hong. — Se il sultano manda i suoi guerrieri a frugare la foresta, Romero e Teresita sono perduti.
— Hai qualche idea, Hong? — chiese Than-Kiù, che fino allora lo aveva ascoltato senza interromperlo.
— Sì, Fiore delle perle. —
Si volse verso Bunga e gli chiese:
— La tua scorta è fidata?
— E risoluta, — rispose il capo.
— Questa notte ne avremo bisogno.
— È a tua disposizione.
— Hai liquori inebrianti?...
— Ho del vino di palma distillato ed in grande quantità.
— E animali?...
— Ho tre o quattrocento porci.
— È necessario sacrificare una buona parte delle tue provviste.
— Sono pronto a qualsiasi cosa, pur di sbarazzarmi di questo pericoloso personaggio. Esso è cattivo e sarebbe capace di condurmi schiavo a Butuan.
— Sarà lui che correrà il pericolo di diventare tuo schiavo. —
Il capo degli igoroti guardò Hong con uno stupore impossibile a descriversi:
— Tu dimentichi che il sultano ha qui duecento guerrieri, — disse.
— Questa sera saranno tutti ubriachi fradici, — disse Hong, con un sorriso.
— Il vino di palma non basterà.
— Sì, perchè io vi scioglierò dentro certe pillole da renderli ebbri.
— Hai conservato dell’oppio, Hong? — chiese Than-Kiù.
— Ho fatto una provvista a bordo della barca del pirata e anche Sheu-Kin ne ha.
— E quando saranno tutti ubriachi? — chiese Than-Kiù.
— Allora il sultano sarà nostro. Basta, ecco quei gaglioffi che vengono a cercarci. S. M. desidera forse vederci nuovamente. —
Dieci guerrieri mindanesi, guidati dal capo della scorta, s’avanzavano verso le capanne occupate dai chinesi e da Bunga.
Sua Maestà mandava a pregare i chinesi di recarsi prontamente da lui assieme al capo degli igoroti, onde passare alcune ore in lieta compagnia.
— Quel briccone ci prende per suoi buffoni, — disse Hong. — Ha forse la pretesa che noi balliamo dinanzi a lui?... —
Ad un tratto si volse verso Than-Kiù col viso abbuiato.
— Tu rimarrai qui, Fiore delle perle, sotto la guardia del marinaio. Non si sa mai ciò che può accadere. Diremo al monarca che tu sei molto stanca e che non ti reggi in piedi. Sheu-Kin, Pram-Li, non dimenticate i fucili. —
Uscirono dietro la scorta e si diressero verso le capanne occupate dal monarca.
Quel despota s’era comodamente istallato nella piccola piazzaforte, da vero padrone.
Aveva fatti levare i fasci di spine che empivano i fossati, abbattere parte delle palizzate e rovesciare perfino alcune tettoie, col pretesto che gl’impedivano di vedere il lago.
Quando Bunga, Hong ed i suoi compagni entrarono, trovarono il monarca adagiato sopra ad un fitto strato di stuoie, in compagnia dei suoi capi.
Gli ospiti del capo degli igoroti mangiavano e bevevano allegramente alle spalle di quei poveri indigeni. Tutte le provvigioni del villaggio erano state requisite e ammonticchiate sotto le tettoie, in attesa di venire consumate.
Vedendo Hong, Sheu-Kin e Pram-Li armati, il monarca li guardò sospettosamente, dicendo:
— I vostri fucili non erano necessari qui.
— Non ci separiamo mai dalle nostre armi da fuoco, — rispose arditamente Hong. — Tale è il costume del nostro paese.
— Sedete e mangiate: vi ho fatto l’onore d’invitarvi alla mia tavola e... pare che manchi qualcuno: il giovane o la giovane che vi accompagnava.
— Quel ragazzo è stanco, — rispose Hong.
— Ah!... È un ragazzo!... — disse il sultano, sorridendo beffardamente. — Lo credevo una fanciulla. Orsù mangiate e bevete: le provvigioni abbondano nel villaggio di Bunga.
— Ve ne sono anche altre, — rispose il capo degli igoroti.
— E perchè non me le hai mandate? Io sono tuo ospite ed ho con me molta gente da nutrire.
— Le ho serbate per offrire a te ed ai tuoi guerrieri un gran banchetto.
— E quando?...
— Questa sera.
— Tu sei un bravo amico, Bunga, — disse il sultano. — Già sapevo che qui sarei stato bene accolto ed ecco il motivo per cui ho condotto con me un seguito numeroso. Diversamente sarei venuto colla mia sola scorta. —
Così parlando il sultano guardava Bunga di sotto le palpebre per vedere l’effetto che producevano quelle parole e sorrideva malignamente. Il capo però era rimasto impassibile e si era limitato a rispondere:
— E tu hai fatto bene, sultano, a venire con tante persone. È un onore che non m’aspettavo.
— Bene, bene: mangia e bevi. Per il momento tu sei qui mio ospite.
Da uno dei suoi servi fece offrire ai due chinesi, al malese ed a Bunga del maiale arrostito, del sagu, delle frutta ed alcuni vasi di vino di arenga saccarifera lievemente fermentato, quindi del betel da masticare.
Quando il pranzo fu terminato, il monarca riprese la conversazione indirizzandosi a Bunga.
— Ora, — disse, — parliamo degli uomini bianchi. —
Il capo degli igoroti aggrottò la fronte e guardò Hong. Il chinese aveva risposto con un legger cenno del capo che voleva dire: «Sii tranquillo».
— Vuoi dirmi dove si trovano? — chiese il sultano.
— Ti ho già detto che sono fuggiti tre giorni or sono. —
Il monarca sorrise.
— No, — disse poi. — Una delle mie spie mi ha raccontato, or ora che ieri mattina l’uomo bianco che ha con sè la donna, è stato veduto sulle rive del lago.
— Dove? — chiese Bunga con sorda ira.
— Presso le tue capanne.
— Quella spia ti ha ingannato, — rispose il capo degli igoroti, con tono reciso.
— Allora farò tagliare la testa a quell’uomo che ha voluto scherzare con me.
— E farai bene.
— Lo credo anch’io, però...
— Vuoi dire?
— Se l’uomo che mi ha ingannato fossi tu, cosa meriteresti?...
Bunga si era alzato di scatto, gettando sul sultano uno sguardo irato.
— Io sono capo indipendente, — gridò, — e non già tuo suddito. Io ti ho ascoltato qui da amico, ho messo a tua disposizione il mio villaggio, ti ho lasciato saccheggiare le mie provviste e vieni a minacciare?...
— Non ne ho mai avuta l’intenzione, — rispose il sultano, con accento lievemente ironico. — Anzi io ti considero come il mio migliore amico ed è appunto per questo che sono venuto qui per farmi regalare gli uomini bianchi. Sono molti anni che desidero avere degli schiavi dalla pelle pallida, dei cristianos.
— Allora andrai a cercarteli, non essendo più qui.
— Mi dirai almeno dove sono fuggiti.
— Verso il Bacat.
— Sta bene, — disse il sultano, con accento minaccioso. — Noi li prenderemo e poi faremo tagliare la testa all’uomo che mi avrà ingannato.
— Vuoi parlare di me? — chiese Bunga.
— No, dell’altro, — disse il sultano con un sorriso da tigre. — Tu sei mio amico.
— Lo sapevo già, — rispose il capo degli igoroti, forzandosi a sorridere. — Noi salderemo la nostra amicizia con un gran banchetto.
— Che ci darai?
— Questa sera, ti ho detto.
— Grazie, amico, conto su di te. —