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Il sultano di Butuan' | 261 |
stava allora girando una seconda punta e che pareva diretta precisamente verso il villaggio.
Il marinaio, che pareva godesse molta considerazione fra quei piccoli uomini, forse in causa della sua pelle bianca e anche dell’alta statura, si fece largo fra la folla, che guardava stupita il drappello dei chinesi, e condusse i suoi nuovi amici verso le capanne abitate dal capo.
Bunga stava allora per uscire, accompagnato da una ventina d’uomini armati di fucili.
Il capo degli igoroti del Linguasan, era un omiciattolo non più alto d’un metro e mezzo e già innanzi cogli anni.
Era di tinta un po’ più chiara dei suoi compatrioti, più muscoloso, e anche di primo acchito lo si riconosceva per un uomo molto più intelligente dei suoi sudditi.
Indossava una specie di camiciotto di nankino rosso, a fiorami, privo delle maniche e adorno di scagliette di tartaruga e di perle di vetro, e sul capo portava un ciuffo di penne di kakatoa trattenuto da un fermaglio d’oro.
Alla cintura aveva il bolo e in mano teneva un fucile a due colpi, colle canne brunite.
Vedendo comparire il marinaio seguìto dai chinesi, dal malese e da Tiguma, s’arrestò sulla riva del fossato ricolmo di spine, guardandolo un po’ sospettosamente.
— Chi sono quegli uomini? — gli chiese poi in cattivo spagnuolo.
— Essi sono amici nostri.
— E degli igoroti, — disse Tiguma, facendosi innanzi. — Il capo non mi riconosce più?
— Tiguma! — esclamò Bunga, con stupore. — Come ti trovi qui?
— Il capo del mio villaggio ti manda i suoi saluti e ti raccomanda questa fanciulla e gli uomini che l’accompagnano.
— Cosa vogliono da me?
— Sono venuti a cercare i prigionieri dalla pelle bianca per ricondurli in patria, — disse Tiguma. — Essi hanno salvato la nostra tribù dall’assalto d’un potente bagani, hanno ucciso il capo e molti dei suoi guerrieri, e sono amici degl’igoroti. —
Bunga lo aveva ascoltato in silenzio. Quando il giovane isolano ebbe terminato, lo prese per una mano e lo condusse in una delle sue capanne. Quel colloquio non durò che pochi minuti. Quando però il capo tornò, pareva molto preoccupato, anzi inquieto.
Egli s’avvicinò a Than-Kiù e posatole una mano su una spalla, le disse:
— Temo che tu sia arrivata troppo tardi.