Il Fiore delle Perle/10. Il tradimento del malese
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Capitolo X
Il tradimento del malese
La Concha, che Than-Kiù aveva subito riconosciuta, non era più che un rottame.
Quella bella cannoniera che il povero Fiore delle perle aveva veduta salpare, rapida come un uccello, la notte che aveva perduto Romero, era stata orribilmente mutilata dai predoni del Talajan.
Tutto era scomparso: alberi, murate, cabine, ponte di comando, timone, le artiglierie, le manovre, perfino le àncore, le catene e le gomene. Non era rimasto che lo scafo col fumaiolo, tutto sventrato, tutto fori, tutto strappi, colla prora spaccata, entro la quale era già penetrata l’acqua del fiume.
La coperta poi offriva uno spettacolo ancora più deplorevole. Le traverse erano state in più luoghi strappate dagli avidi pirati per impadronirsi degli ultimi pezzi di metallo, le scale erano state portate via, il boccaporto levato.
Dovunque si vedevano casse sventrate, frammenti di vesti, avanzi di viveri, pezzi di brande, palle di fucile e di cannone, qualche sciabola e qualche scure spezzata, grandi macchie di sangue e verso poppa alcuni scheletri umani appartenenti agli assaliti e fors’anche agli assalitori.
Hong e Than-Kiù, che si erano issati sulla tolda inclinata della cannoniera assieme a Sheu-Kin, rimuovevano ansiosamente tutti quei rottami, sperando di trovare qualche traccia di Romero, di Teresita o del maggiore d’Alcazar, ma invano. I due chinesi erano andati perfino a rimuovere gli scheletri temendo che vi fosse anche quello del meticcio. Dagli avanzi dei calzoni e delle casacche s’accorsero che erano di marinai.
— Nulla, — disse Hong a Than-Kiù, la quale si era assisa su di una cassa sfondata. — Nessuna traccia di lui: speriamo adunque che non sia stato ucciso.
— Sperare!... — mormorò la fanciulla, con voce semi-spenta. — Ma chi ci assicura che il suo cadavere non sia stato gettato nel fiume? Egli era valoroso e avrà combattuto in prima fila.
— I pirati possono averli sorpresi di notte e fatti prigionieri, prima che Romero e gli altri potessero organizzare la resistenza.
— E chi mi toglierà questo dubbio angoscioso che mi lacera il cuore?... Chi, Hong?...
— Chi?... Il malese.
— Disponi dei miei gioielli se è necessario, ma cerca d’indurlo a parlare.
— Non dubitare che egli ci dirà tutto, dovessi scorticarlo vivo. Il sole sta per tramontare, Than-Kiù e non è prudente passare qui la notte.
— Vuoi tornare alla giunca?...
— Per ora sì, — rispose Hong. — Domani prenderemo una decisione sul da farsi. Per oggi basta aver avuto la prova che la Concha si è arenata qui e che qui è stata assalita.
— Grande Budda!... Cosa sarà accaduto di lui?... Dove l’avranno condotto?... Potrò rivederlo un giorno?...
— Taci, Than-Kiù, — disse Hong, con voce imperiosa.
Il grido strano o meglio quel misterioso muggito che avevano udito mentre salivano il fiume, era echeggiato nuovamente verso la riva sinistra, e molto vicino.
— È un segnale di certo, — disse il chinese, che cominciava ad essere inquieto. — Temo che non passeremo la notte tranquilla.
Il malese, che fino allora era rimasto nella canoa con Pram-Li, si era arrampicato sulla tolda della cannoniera. Non pareva più tranquillo, anzi i suoi lineamenti ed i suoi occhi manifestavano una viva ansietà.
— Hai udito? — chiese egli a Hong.
— Sì, — rispose il chinese.
— È un segnale; ora sono certo di non ingannarmi.
— Di chi?
— Dei pirati che abitano l’alto corso del Talajan.
— Lo credi?...
— Ne sono certo.
— Ed hai paura?...
— Sono uomini sanguinari che non risparmiano nessuno.
— Eppure hanno risparmiato anche degli uomini della cannoniera.
— È vero, ma avevano un motivo.
— Ah!... — esclamò Hong. — Tu sai che avevano uno scopo per non ucciderli? —
Il malese fece un gesto di malumore, come fosse seccato di essersi tradito, poi disse:
— Fuggiamo o non rispondo più della vostra pelle.
— E dove?
— Nella mia capanna per questa notte. Non fidatevi a ridiscendere il fiume.
— Siamo persone risolute.
— Sì, lo credo, ma nulla potrete fare contro cento o duecento armati.
— Forse hai ragione — disse Hong che era diventato pensieroso. — Non è prudente esporsi ad una scarica improvvisa di fucili. È lontana la tua capanna?
— Si trova fra i boschi della riva destra, a mezzo miglio dal fiume.
— Cosa mi consigli di fare, Than-Kiù?... — chiese Hong.
— Andiamo nella capanna, — rispose la giovanetta. — I pirati possono tagliarci la ritirata ed assalirci in mezzo al fiume. Sono però inquieta per Tseng-Kai.
— Il vecchio non è uomo da lasciarsi sorprendere e poi si trova così vicino al mare, da poter prendere il largo facilmente. Siamo noi, per ora, che corriamo il pericolo di farci massacrare da quegli squali d’acqua dolce. —
Il muggito si fece udire per la terza volta ancora più vicino, seguìto da un fischio acuto.
Hong prese Than-Kiù per una mano e la trasse rapidamente verso la murata di babordo che toccava quasi il banco di sabbia essendosi la cannoniera rovesciata, poi la calò nell’imbarcazione, dicendo:
— Presto, partiamo!... —
Le tenebre calavano rapidamente, non essendovi crepuscolo nelle regioni equatoriali. Gli uccelli e le scimmie, appena scomparso l’astro diurno, si erano affrettati a raggiungere i loro nidi ed i loro ricoveri ed a por fine ai loro cicalecci ed ai loro concerti scordati.
Al baccano assordante era successo un profondo silenzio, appena rotto dal mormorìo dell’acqua frangentesi sulle due rive.
La canoa si era frettolosamente staccata dallo scafo della cannoniera che giganteggiava sul margine del banco, come una balena arenata. I due malesi remavano lentamente, cercando di far meno rumore che era possibile, mentre Than-Kiù, Hong e Sheu-Kin tenevano i fucili puntati verso la riva sinistra per essere pronti a rispondere al primo attacco, avendo ormai tutti la persuasione di essere spiati dai pirati.
Già la canoa aveva attraversato mezzo fiume, quando Hong, che teneva gli occhi fissi sugli alberi, in mezzo ai quali era echeggiato il segnale, vide levarsi pesantemente una coppia di quegli orribili e giganteschi pipistrelli chiamati tainan e che somigliano più a gatti ed a volpi che a volatili. Nello spiccare il volo avevano mandato due grida di spavento ed invece di posarsi sulla stessa riva, avevano attraversato il fiume.
— Hai veduto? — chiese a Than-Kiù.
— Sì, — rispose la giovanetta, — e se quei tainan si sono alzati così precipitosamente, ciò indica che sono stati spaventati da qualche uomo.
— O da più uomini, — aggiunse Hong. — La riva però è vicina e saranno ben bravi se sapranno scovarci in mezzo al bosco.
— Temo sempre per Tseng-Kai.
— Non inquietarti per lui. —
La canoa era allora giunta presso la riva ed i due rematori, con un’ultima spinta, l’avevano arenata in mezzo ai paletuvieri.
Hong, prima di sbarcare, stette in ascolto, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava in mezzo ai boschi, balzò a terra.
Than-Kiù e gli altri lo seguirono, gli uni coi fucili armati ed il pescatore malese col formidabile bolo in pugno.
— Guidaci, — disse Hong al malese, — ma bada che io ti starò dietro e al primo sospetto ti fracasso il cranio con un colpo di fucile.
— Non ho alcuna voglia di farmi uccidere, — rispose il pescatore, sforzandosi a sorridere. — Vi condurrò in salvo nella mia capanna. —
Si misero in marcia, l’uno dietro l’altro, il pescatore dinanzi e Pram-Li in coda, aprendosi faticosamente il passo fra i rami, le radici ed i calamo che formavano una specie d’immensa rete. Procedevano con somma precauzione, fermandosi di sovente per tendere gli orecchi, avendo da temere un improvviso attacco non solo da parte degli uomini, ma anche dai serpenti, che sono numerosi a Mindanao e di dimensioni straordinarie, e dai feroci gattopardi nebulosi che sono molto comuni nelle fitte foreste.
Il pescatore, prima di muovere i rami, si curvava verso terra, poi si guardava intorno e solamente quando era ben certo di non esservi nelle vicinanze nè uomini, nè animali, osava avanzare.
Il bosco non era silenzioso. Di tratto in tratto scoppiavano dei clamori assordanti, dei latrati strani, che dovevano essere mandati da qualche banda di cani selvatici, occupati ad inseguire qualche capo di selvaggina; poi era una serie di fischi lanciati da certe specie di ranocchi grossissimi; quindi dei miagolìi sordi o dei brontolìi lanciati da qualche gatto pescatore ronzante sulle rive del fiume e di quando in quando echeggiava anche il grido rauco e breve di qualche pantera nera, formidabile animale che non teme di assalire un drappello d’uomini armati.
Quella marcia silenziosa e prudente attraverso la fitta e tenebrosa foresta durò circa venti minuti, poi il pescatore si arrestò sulle rive d’un piccolo corso d’acqua che doveva essere un affluente del Talajan.
— Ci siamo, — disse, volgendosi verso Hong, che gli stava dietro, minacciandolo sempre col fucile.
— Dov’è la tua capanna? — chiese il chinese.
— È nascosta dietro a quella macchia. —
Scese la riva per approfittare d’un sentieruzzo aperto fra le erbe e condusse Hong ed i suoi compagni in mezzo ad un gigantesco gruppo d’alberi, dove innalzavasi, su di una piccola radura, una misera abitazione di bambù col tetto conico, formata di grandi foglie d’arecche strettamente legate.
Con un calcio aprì la porta e porse a Hong un pezzo di ramo resinoso perchè lo accendesse, poi invitò tutti ad entrare.
L’interno di quella capanna non valeva più dell’esterno. Era divisa in due stanzucce, una che serviva di magazzino, perchè era ingombra di frutta, di pani di sagu, di fiocine e di reti e l’altra da cucina e da camera da letto essendoci una specie di fornello formato con alcuni grossi sassi, alcuni vasi di terracotta ed alcune stuoie di foglie di palma, che dovevano servire ad un tempo da tavola e da giaciglio.
Il pescatore fece sedere i chinesi ed il malese sulle stuoie, poi, dopo d’aver ascoltato qualche po’ sul margine della macchia, rientrò chiudendo accuratamente la porta e sprangandola con una grossa traversa.
— Ora possiamo essere certi di non venire assaliti, — disse. — Nessun abitante sa dove si trova la mia capanna.
— Purchè i pirati non ci abbiamo seguìti, — osservò Hong.
— Di notte non è facile seguire una traccia in mezzo ad una fitta foresta. Avete fame?... Posso offrirvi qualche cosa da cena.
— Sarà la benvenuta, — rispose Hong.
Il malese andò a prendere alcuni vasi e li mise dinanzi agli ospiti, invitandoli a servirsi liberamente.
La cena era più abbondante di quanto aveva sperato Hong, ma se poteva essere molto apprezzata dai palati malesi, non poteva esserlo certo per quelli dei chinesi, poichè consisteva in vasi di blaciang, puzzolente miscuglio composto di gamberetti pestati e di piccoli pesci lasciati prima fermentare al sole e poi conditi con molto sale; di laron, ossia larve di termiti, specie di grosse formiche, e di certe focacce chiamate ud-ang formate di piccoli crostacei seccati poi ridotti in polvere e quindi impastati.
Accortosi però che i chinesi non facevano buon viso a quei piatti che solo Pram-Li poteva gustare, il pescatore offrì una mezza tartaruga marina arrostita, dei pani di sagu ed una grossa fiasca di kalapa che è quella bibita rinfrescante contenuta nelle noci di cocco.
Quand’ebbero cenato, il pescatore, che era diventato di una amabilità e d’una gentilezza insolite, si recò nel magazzino e pochi minuti dopo ritornava portando un cartoccio di rokok, ossia dei piccoli sigaretti molto eccellenti, arrotolati in foglie secche di nipa, delle frutta di durion già aperte, dei banani ed un vaso pieno di bram, specie di liquore ottenuto con riso fermentato, zucchero e col succo di certe specie di palme.
Sheu-Kin e Pram-Li, messi di buon umore, accesero le sigarette e vuotarono alcune tazze di quel liquore, ma Hong, sia che temesse qualche sorpresa o che detestasse i liquori, si rifiutò malgrado gli insistenti inviti del pescatore, il quale pareva sinceramente molto dispiacente di non poter offrire di meglio.
— Tu ci hai offerto anche troppo, — disse Hong. — Non avrei mai creduto di poter trovare tanto in mezzo ad una foresta e sapremo più tardi ricompensarti, se i pirati ci permetteranno di far ritorno alla tow-mêng.
— Domani non correremo più alcun pericolo, — rispose il pescatore, — poichè i pirati non osano assalire di giorno per tema delle navi del Sultano di Selangan, le quali di quando in quando vengono a perlustrare la foce del Talajan.
— Io credevo che quei pirati fossero sudditi di quel Sultano.
— No, vengono da lontano, cioè dal lago Butuan, essendo sudditi del Sultano di Bacat.
— E ardiscono spingersi fino qui?...
— Tutto il fiume Bacat e parte del Talajan appartengono al loro signore; possono quindi scorrerlo impunemente.
— Allora gli uomini della cannoniera saranno stati condotti schiavi a Butuan.
— È probabile, — rispose il pescatore.
— È feroce quel Sultano?...
— È un ladrone che vive di saccheggi, ma non sembra che sia cattivo.
— Cosa ne avrà fatto degli uomini bianchi?...
— Ho udito raccontare che da molto tempo desiderava avere degli schiavi dalla pelle bianca ed i suoi pirati l’avranno accontentato. —
Than-Kiù, che non aveva perduto una sillaba, conoscendo la lingua malese, era balzata in piedi, tutta trasfigurata, esclamando:
— Dunque non li avranno uccisi!...
— A quale scopo?... — chiese il pescatore. — Il Sultano di Bacat non è un raccoglitore di teste umane. —
Poi guardando fisso fisso la giovanetta, chiese:
— Vi è una persona che t’interessa fra quei prigionieri, è vero?...
— No. —
Il pescatore sorrise, come non fosse convinto di quella risposta, poi aggiunse:
— Tu indossi le vesti d’un ragazzo, ma sei una fanciulla e forse non sei chinese come i tuoi compagni.
— Può essere, — rispose Than-Kiù.
— Allora hai qualche amico fra i prigionieri.
— Ebbene sì, è vero.
— Non mi ero ingannato, — disse il pescatore che guardava sempre la giovanetta, con uno sguardo ardente.
Poi, cambiando bruscamente tono, aggiunse:
— È tardi, possiamo dormire. Domani, quando saremo a bordo della giunca, se lo desiderate, riprenderemo questo discorso. Offro a voi il mio magazzino dove potrete riposare con maggior comodità e più sicurezza, mentre io mi coricherò qui.
— Una dormita la desidero, — disse Sheu-Kin, che da qualche tempo sbadigliava incessantemente. — Non so se sia l’aria umida di questa foresta od il tuo bram, ma io ho molto sonno.
— È l’aria della foresta, — rispose il pescatore, con un impercettibile accento ironico.
Prese la torcia e condusse gli ospiti nel magazzino, dove stese alcune stuoie per Than-Kiù pregandola, con una galanteria che contrastava stranamente col suo mestiere di povero pescatore, di coricarvisi; poi augurata la buona notte e piantato il ramo in un buco del suolo, si ritirò nella cucina.
— Per Fo e Confucio!... — esclamò Hong. — Avevo sospettato in quell’uomo un furfante, e devo confessare di aver preso un grosso granchio. Non ho mai trovato un malese più gentile, senza far torto all’amico Pram-Li.
— Comincio a crederlo anch’io, — disse Than-Kiù, — tuttavia uno di noi veglierà per turno. La prudenza non è mai troppa.
— Farò il primo quarto io, — disse Sheu-Kin, — perchè sento che se mi addormento non mi sveglierò più fino all’alba. Non so se sia quel dannato liquore o quelle eccellenti sigarette; ho un sonno irresistibile. Girellando pel magazzino, spero che mi passerà.
— Noi d’altronde dormiremo con un occhio solo, — rispose Hong.
Si accomodarono meglio che poterono e cercarono di addormentarsi per approfittare di quel po’ di tregua, non essendo certi di passare la notte tranquilla, mentre Sheu-Kin si era messo a passeggiare intorno a quell’ammasso di provviste e di reti.
Di quando in quando però si accostava ad un pertugio che serviva di finestra ed ascoltava i mille rumori della foresta, poi s’avvicinava alla porta della cucina per vedere se il pescatore dormiva. Pur girando e rigirando, sentiva però che un sonno irresistibile a poco a poco lo prendeva. Si stropicciava gli occhi, si pizzicava perfino le carni e cercava di reprimere gli sbadigli, ma le palpebre gli diventavano sempre più pesanti. Sentendosi impotente a vincerlo e non osando addormentarsi, fece per avvicinarsi ai compagni. Ad un tratto si sentì mancare bruscamente le forze, un turbamento lo prese e cadde in mezzo ad un mucchio di reti, colpito da un sonno fulminante.
Era passata un’ora, forse due, quando Hong, che aveva il sonno leggero, fu svegliato da alcuni colpi che pareva venissero dalla porta d’entrata. Credendo che fosse il pescatore che lo chiamasse, s’alzò rapidamente.
La torcia bruciava ancora, potè quindi subito vedere Sheu-Kin sdraiato in un angolo della capanna, placidamente addormentato.
— Il sonno lo ha vinto, — mormorò. — Fortunatamente mi sono svegliato. —
Guardò Than-Kiù e Pram-Li e li vide entrambi addormentati. Ad un tratto si ricordò dei colpi uditi e fece per avvicinarsi alla porta per interrogare il pescatore. Uno scricchiolìo che veniva dalla stanza vicina, lo arrestò di colpo.
— Cosa vuol dire ciò? — mormorò, allungando le mani verso il fucile. — Che siamo stati traditi?... —
S’avvicinò con precauzione a Pram-Li e lo scosse dapprima leggermente, poi vigorosamente. Pareva che anche il malese fosse stato colto da un sonno ben profondo, poichè non apriva gli occhi.
Un sospetto balenò nel cervello del chinese.
— Che il bram o le sigarette contenessero qualche narcotico? — si chiese.
S’avvicinò a Than-Kiù e la toccò. Bastò quella semplice pressione della mano, perchè la giovanetta si svegliasse.
Stava per chiedere a Hong cosa desiderava, ma s’arrestò vedendo il chinese porsi un dito sulle labbra, come per invitarla a tacere, poi accostarsi e sussurrarle agli orecchi:
— Than-Kiù, siamo traditi.
— Dal pescatore? — chiese ella con un filo di voce.
— Sì. I nostri compagni, assieme al bram hanno bevuto qualche potente narcotico, e non è possibile svegliarli.
— Ed il pescatore?...
— Taci: odi?... —
Than-Kiù tese gli orecchi, e udì aprirsi lentamente, con precauzione, la porta della capanna, poi un passo leggero che s’avvicinava.
— Sì, — diss’ella, — siamo traditi, però non ci lasceremo sorprendere. Dammi il mio fucile, e vediamo cosa sta per succedere.
Poi invitò il chinese ad accostarsi alla parete che divideva la capanna.