XXV

../XXIV ../XXVI IncludiIntestazione 2 febbraio 2024 75% Da definire

Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
XXV
XXIV XXVI

[p. 185 modifica]


ERCOLE UCCISOR DEL LEONE,

OVVERO LA RICCHEZZA D’AUGEA

Idillio XXV

Manca il principio.

Il buon vecchio bifolco allor dismessa
     L’opra, che avea alle man, così parlògli:
Ben volentieri, o peregrin, di quanto
     Chiedi contezza io ti darò; chè troppo
     Le gravi ire pavento di Mercurio

[p. 186 modifica]

     Guardator delle strade. Ei, com’è fama,
     Sovr’ogn’altro Celeste a sdegno prende
     Chi schivo niega al viandante aita.
     Già non han tutte le lanute gregge
     Del regnator Angea nè un pasco istesso,
     Nè un territorio sol; ma pascon altre
     Alle rive del rapido Elisunte,
     Altre lungo le sacre onde d’Alfeo,
     Altre sovra il vitifero Buprasio,
     Ed altre qui d’intorno. Ha ciascun gregge
     L’ovile a parte. I numerosi armenti
     Han però tutti ai gran paduli intorno
     Del Menio lor pasture sempre verdi,
     Poichè le rugiadose praterie,
     E i piani uliginosi in gran dovizia
     Metton erbe soavi, onde a’ cornuti
     Tori vigor s’accresce. Alla tua destra
     Oltre il corrente fiume appar ben tutta
     La stalla lor; colà dove perenni
     Platani sono, e pallido oleastro,
     Inviolabil tempio al Nomio Apollo
     Perfetto Nume, o forestier, s’innalza.
     Quinci in diritto edificati sono
     Lunghi ostelli per noi cultor de’ campi,
     Che tante inestimabili ricchezze
     Fedelmente guardiamo al re, spargendo
     Sovra i maggesi or tre fiate or quattro
     Arati la semenza. I lor confini
     Son noti a’ vangator, che affaccendati
     Traggono ai torchi nella piena estate.
     Tutto questo è terren del lieto Augea,
     Piagge fertili in grano, e gran boscaglie
     Fino a’ gravidi d’acque estremi gioghi,
     Ove ogni di attendiamo a’ lavor propri
     De’ servi, che dimorano in campagna.
     Or tu mi svela, e pro saratti ancora,

[p. 187 modifica]

     A qual uopo venisti, in queste bande?
     Forse in traccia d’Augea, oppur d’alcuno
     De’ servi suoi? Da me, cui nulla è ascoso,
     Tutto saprai. Ne già te nato estimo
     D’iniqui genitor, nè di malvagio
     Hai tu sembianza; tale in te risplende
     Maestoso decoro, e tali al certo
     I figli son degl’Immortali in terra.
Di Giove il prode figlio a lui rispose:
     Certo, o buon vecchio, il duce degli Epei
     Augea veder m’è in grado; e qua bisogno
     Di lui mi trasse. Or se in città dimora
     Fra le sue genti al buon governo inteso,
     E a dettar leggi, fa che a lui mi scorga
     Alcun de’ più pregiati infra i suoi servi
     D’este campagne curator, con cui
     Ragionar possa, ed egli meco. Il Nume
     Bisognosi fe’ gli uomini un dell’altro.
Il degno vecchio agricoltor soggiunse:
     Ben tu qua, peregrin, venuto sei
     Per voler d’alcun Nume. Alle tue voglie
     Così tutto risponde. Il caro germe
     Del Sole Augea pur jer col figlio illustre
     Fileo qua venne a visitar per molti
     Giorni le innumerabili ricchezze,
     Ch’egli ha in campagna. Così i re talora
     Fiso hanno in cor, che il proprio sguardo assai
     Giovi a’ lor beni. Andiam; chè a ritrovarlo
     Io ti sarò fino al mio stallo guida.
Così innanzi si pose; e molti in core
     Pensier volgea mirando e la gran clava
     Ch’empiea la mano e la ferina pelle,
     Onde tal forestier venisse, e inchiesta
     Volea pur farne, ma lentezza il varro
     Chiudea sul labbro al detti per non farsi
     Troppo importuno al frettoloso Alcide.

[p. 188 modifica]

     Poi ben duro è scoprir la mente altrui.
     Il loro avvicinarsi i can da lunge
     Sentir ben tosto ed al fiutar de’ corpi,
     E al calpestio de’ piè. Con gran latrati
     Chi di qua, chi di là si mosser contro
     D’Anfitrione al figlio; e d’altra parte
     Col guattir vano fean carezze al veglio.
     Questi dal suolo a pena i sassi alzati
     Metteagli in fuga, e con le truci grida
     Tutti gli minacciava, e tacer fea,
     Godendo in cor però, che in sua distanza
     Guardia fessero a’ chiusi; e poi sì disse:
     O cieli! che animal gl’Iddii possenti
     Locato han fra’ mortali, e come accorto!
     E s’ei pur anco intelligenza avesse,
     Onde saper con chi crucciarsi dee,
     E con chi no, già nessun’altra belva
     Con esso gareggiar poria di pregio.
     Or pazzamente s’indispetta, e infuria.
Disse; e nel chiuso a seder ratti andaro.
     Intanto vêr l’occaso il Sol volgea
     I suoi destrier, menando a sera il giorno.
     Tornår da’ paschi a’ lor ovili, e stalle
     Le pingui agnelle, e l’une dopo l’altre
     Vacche infinite sopraggiunser, come
     Si veggono pel cielo oltre sospinte
     Dal furor d’austro o borea acquose nubi,
     Che in aria non han numero nè fine;
     Poichè tante ne aggruppa con le prime
     L’urto del vento, e l’une investon l’altre:
     Tanti di vacche ognor seguiano armenti.
     Ogni campo era pieno ed ogni via
     Del bestiame che andava, e i pingui campi
     Rispondevano intorno a’ lor muggiti.
     Tosto le stalle empieronsi di buoi
     Dai piè ritorti, e negli ovili entraro

[p. 189 modifica]

     Le agnelle. Ivi nessun fra tanti stava
     Inoperoso, e pigro attorno ai buoi.
     Altri a’ piedi acconciava delle vacche
     Con ben incise cinghie le pastoje
     E stando loro al fianco le mungea.
     Altri alle care madri i cari parti
     Sottoponea a poppare il dolce latte,
     Ond’avean colmo il seno. Altri la secchia
     Teneva; altri addensava il pingue cacio,
     Altri i tori partiva dalle vacche.
     Augea per ogni stalla iva osservando
     Qual guadagno gli avessero i pastori
     Accumulato; e visitando attorno
     Sue gran dovizie avea seguaci il figlio,
     E il saggio Alcide. Questi avente in petto
     Un infrangibil cor, costante e saldo,
     Pur da stupor commosso era in mirando
     Quell’infinito popolo di buoi;
     Che nessun dire, o immaginar sapría,
     Che tanti un sol n’avesse, e neppur dieci
     Re di quanti mai v’han più ricchi in mandre.
     Il Sole al figlio suo fe’ don sì raro,
     Che in greggi oltrepassasse ogni mortale.
     Ei stesso gli cresceva ognor gli armenti;
     Poichè non infestavagli alcun morbo
     De’ rustici lavor distruggitore.
     Ma sempre più e più cornute vacche,
     E migliori nascevan d’anno in anno.
     Figliavan tutte quante a meraviglia,
     E di femminea prole eran feconde.
     Con loro in branco ivan trecento buoi
     Di bianche cosce, e curve corna, ed altri
     Dugento rossi, e montator già franchi.
     Oltre a questi vagavan dodici altri,
     Al Sole sacri, e bianchi al par de’ cigni,
     Che fra tutto l’armento erano i primi.

[p. 190 modifica]

     Essi fra loro di baldanza pieni
     In disparte dagli altri ivan pascendo
     Le fresche erbette; e se da folte macchie
     Le fiere snelle uscìan talora in campo
     Contro gli agresti buoi, questi in battaglia
     Movean primieri i furibondi corpi
     Mugghiando orribilmente, e da’ sembianti
     Spirando morte. Di fortezza, e possa,
     E ardire il gran Faeton gli altri vincea,
     Che i pastor somigliavano a una stella,
     Perch’ei movendo altier su tutti i buoi,
     E chiaro campeggiava. Ei come vide
     Del fulv’-occhio lion l’arida pelle,
     Scagliossi incontro al cauto Alcide, e a’ fianchi
     Drizzògli il capo, e la gagliarda fronte;
     Ma a pena ch’ei s’avanza, Ercole afferra
     Con la man pingue il manco corno, e al suolo
     Ritorce in giuso il duro collo, indietro
     Respingelo, e sul tergo se gli aggrava.
     Il toro tesi allor muscoli e nervi
     Sulle punte de’ piedi erto rizzossi.
     Stupivano al mirar sì strana prova
     Il re medesmo, e il bellicoso figlio,
     E i reggitori del cornuto armento.
Quindi lasciati gli urbertosi campi,
     Vèr la città col valoroso Alcide
     S’incamminò Fileo. Fornito in brieve
     Co’ ben rapidi piè l’angusto calle;
     Che fra la vigna dalla stalla parte,
     E ascoso serpe per la verde selva,
     Entrati son nella maestra via.
     Allor d’Augea l’amato figlio a destra
     Piegando il capo lievemente al figlio
     Dell’altissimo Giove, che il seguìa,
     Si disse: Forestier, già da gran tempo
     Qualche di te novella aver udita

[p. 191 modifica]

     Or mi si volge in cor. Qua d’Argo venne
     Un certo Achivo d’Elice marina
     Sul primo fior degli anni, il qual contava,
     E ben fra molti Epei, che sè presente
     Un uomo Argivo ucciso avea feroce,
     Orribile lione, a’ campagnoli
     Infesto mostro il quale avea di Giove
     Nemèo nella boscaglia un cavo speco.
     Nè sapea ben, se propio d’Argo sacra,
     O di Tirinto ei fusse, o di Micene.
     Così narrava; e lui da Perseo sceso
     (Se mal non mi ricorda) esser dicea.
     Nè cred’io già, ch’Egialese alcuno
     Bastasse a tanto fuor di te; e cotesta
     Pelle di fera, ond’hai coperto il fianco,
     Di tua man la grand’opra assai palesa.
     Or dimmi in pria (perch’io conosca, o Eroe,
     Se al ver m’appongo, o no) se tu sei quegli,
     Che quel d’Elice Achivo a noi descrisse.
     Te quello estimo a gran ragion. Poi narra,
     Come spegnesti la feroce belva,
     E come quella nel paese entrasse
     Dell’acquosa Nemea. Che non mai pari
     Mostro, volendo ancor, trovar potresti
     Nell’Apio suol, che tali non ne alleva,
     Ma ben orsi e cinghiali, e la dannosa
     Schiatta de’ lupi: onde stupor n’avea
     Chiunque l’ascoltava, ed alcun anche
     Credea mendace il forestiero, e intento
     Con vane fole a dilettar gli astanti.
Così detto, dal mezzo della via,
     Perchè bastasse ad ambedue, piegossi,
     E per udir comodamente Alcide,
     Che venendogli appresso in tali accenti
     Si pose a favellar. — Figlio d’Augea,
     Ben di leggiero indovinasti appieno

[p. 192 modifica]

     Quel che in prima cercasti. Or io del mostro
     Quanto avvenne dirotti a parte a parte
     (Perocchè il vuoi), fuor che dond’ei venisse.
     E già nessun di tutti quanti Argivi
     Notizia certa porìa darne. Solo
     Congetturiam, che qualche Nume irato
     Per sacrilegj incontro i Foronesi
     Questa peste mandasse. Il fier lione
     Qual fiume rovesciandosi fea scempio
     De’ Pisci senza cessa, e più di tutti
     I Bembiniesi abitator vicini
     Soffrìano danni estremi. A questa prima
     Prova Euristèo forzommi disïoso,
     Che m’ancidesse la malnata belva.
     Io l’arrendevol arco, e il pien di strali
     Cavo turcasso tolto, in via mi posi.
     All’altra mano un baston saldo avea
     Di frondoso oleastro, con sua scorza,
     Di non vulgar misura, che alle falde
     Del sacrato Elicona intero svelsi
     Con le dense radici. Appena giunsi
     Al luogo del lion, ch’io presi l’arco,
     Ed al pieghevol corno il nervo avvinsi,
     E a questo imposi la feral saetta.
     Portando gli occhi intorno io pur cercava,
     Se potessi adocchiare il crudo mostro
     Pria ch’egli me scorgesse. Era già mezzo-
     Giorno, e in nessuna parte ancor potea
     Vestigio rinvenirne, o udir ruggito.
     Nè cui farne ricerca eravi alcuno
     Là per que’ campi da semenza inteso
     A guardar buoi o lavorar; che in casa
     Il pallido timor tutti tenea.
     Ma dall’investigar l’ombroso monte
     Non pria ritenni il piè, che alfin vedessi
     La fiera, e seco mi mettessi a prova.

[p. 193 modifica]

     Ella anzi vespro al suo speco tornava
     Sazia, di carne e sangue, e tutta intorno
     Le sozze giube e il truce volto, e il petto
     Intrisa era di stragi, e con la lingua
     Intorno intorno si leccava il mento.
     Or io m’ascosi fra le ombrose frasche
     D’un’alta macchia ad aspettarla al varco.
     Quando venne il lion vibraigli un dardo
     Nel manco lato invan; chè il ferro acuto
     Non penetrò la carne, e rimbalzando
     Cadde sull’erba verde. Ei levò tosto
     Attonito dal suol la fulva testa,
     Lo sguardo osservatore in giro torse,
     E mostrò quanti avea protervi denti.
     Allor scoccai, dall’arco un’altra freccia,
     Doglioso della prima andata a vuoto,
     Scagliaila in mezzo al petto ov’è il polmone:
     Ma nè pur questo trapassògli il cuojo
     Dolorifero strale, e innanzi a’ piedi
     Senza far breccia cadde. Io pien di rabbia
     Presi la terza volta a tender l’arco.
     Ma gli occhi stralunando mi scoperse
     L’insaziabil belva, e la gran coda
     Alle ginocchia intorno ravvolgendo
     Meditava battaglie. Il collo empiessi
     D’ira, e le rosse chiomę s’arricciaro
     Sul minaccioso capo. Un arco feo
     Di sua schiena curvando i lombi e i fianchi.
     Come quand’uom fabbricatore esperto
     Di cocchi, i rami di selvaggio fico
     Atto alla scure in pria riscalda al foco,
     E torce in rote di volubil cocchio,
     Mentre il legno di dura scorza incurva,
     Di man gli scorre, e va lontan d’un balzo;
     Così il truce lion tutto d’un salto
     Per isbranarmi di lontan s’avventa.

[p. 194 modifica]

     Io d’una man gli porgo innanzi ì dardi
     E il doppio manto, che scendea dal tergo:
     Con l’altra alzato l’arido bastone
     Nel capo gliel avvento, e l’oleastro
     Duro si fiacca in duo sull’irta fronte
     Dell’indomito mostro. Egli anzi ch’io
     M’accosti, verso terra in giù declina,
     Poi su’ tremuli piedi barcollando
     Resta, e crollato il suo cervel nell’osso,
     Un fosco vel gli copre ambe le luci.
     Com’io quel vaneggiante in tanta smania
     Vidi, prima ch’ei fiato ripigliasse,
     Gittato l’arco al suolo, e la trapunta
     Faretra, il maggior tendine percossi
     Dell’infrangibil collo; e strettamente
     Con le robuste man l’afferro a tergo,
     Perchè con l’unghie non mi sbrani il corpo.
     Indi a lui soprastando i piè vicini
     Alla coda ben forte co’ calcagni
     Fermaigli a terra, e con le cosce i fianchi
     Gli strinsi finchè a lui le braccia stese
     Esanime il rizzai, e l’orrend’alma
     Ebbesi Pluto. Allor meco pensai,
     Come dai membri della belva estinta
     L’irta pelle traessi: opra ben dura;
     Poichè tentata non cedea nè a legno,
     Nè a pietra, ned a ferro. Allor mi pose
     Certo alcun Nume in cor di scorticarla
     Con l’unghie sue medesme. Io tosto a capo
     Venni dell’opra, e alle mie membra avvolsi
     Sua pelle per riparo incontro a Marte
     Lacerator de’ corpi. E questo, amico,
     Fu l’esterminio del Nemeo lione,
     Che tanti danni fea alle genti e a’ greggi.