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Or mi si volge in cor. Qua d’Argo venne
Un certo Achivo d’Elice marina
Sul primo fior degli anni, il qual contava,
E ben fra molti Epei, che sè presente
Un uomo Argivo ucciso avea feroce,
Orribile lione, a’ campagnoli
Infesto mostro il quale avea di Giove
Nemèo nella boscaglia un cavo speco.
Nè sapea ben, se propio d’Argo sacra,
O di Tirinto ei fusse, o di Micene.
Così narrava; e lui da Perseo sceso
(Se mal non mi ricorda) esser dicea.
Nè cred’io già, ch’Egialese alcuno
Bastasse a tanto fuor di te; e cotesta
Pelle di fera, ond’hai coperto il fianco,
Di tua man la grand’opra assai palesa.
Or dimmi in pria (perch’io conosca, o Eroe,
Se al ver m’appongo, o no) se tu sei quegli,
Che quel d’Elice Achivo a noi descrisse.
Te quello estimo a gran ragion. Poi narra,
Come spegnesti la feroce belva,
E come quella nel paese entrasse
Dell’acquosa Nemea. Che non mai pari
Mostro, volendo ancor, trovar potresti
Nell’Apio suol, che tali non ne alleva,
Ma ben orsi e cinghiali, e la dannosa
Schiatta de’ lupi: onde stupor n’avea
Chiunque l’ascoltava, ed alcun anche
Credea mendace il forestiero, e intento
Con vane fole a dilettar gli astanti.
Così detto, dal mezzo della via,
Perchè bastasse ad ambedue, piegossi,
E per udir comodamente Alcide,
Che venendogli appresso in tali accenti
Si pose a favellar. — Figlio d’Augea,
Ben di leggiero indovinasti appieno