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Io d’una man gli porgo innanzi ì dardi
E il doppio manto, che scendea dal tergo:
Con l’altra alzato l’arido bastone
Nel capo gliel avvento, e l’oleastro
Duro si fiacca in duo sull’irta fronte
Dell’indomito mostro. Egli anzi ch’io
M’accosti, verso terra in giù declina,
Poi su’ tremuli piedi barcollando
Resta, e crollato il suo cervel nell’osso,
Un fosco vel gli copre ambe le luci.
Com’io quel vaneggiante in tanta smania
Vidi, prima ch’ei fiato ripigliasse,
Gittato l’arco al suolo, e la trapunta
Faretra, il maggior tendine percossi
Dell’infrangibil collo; e strettamente
Con le robuste man l’afferro a tergo,
Perchè con l’unghie non mi sbrani il corpo.
Indi a lui soprastando i piè vicini
Alla coda ben forte co’ calcagni
Fermaigli a terra, e con le cosce i fianchi
Gli strinsi finchè a lui le braccia stese
Esanime il rizzai, e l’orrend’alma
Ebbesi Pluto. Allor meco pensai,
Come dai membri della belva estinta
L’irta pelle traessi: opra ben dura;
Poichè tentata non cedea nè a legno,
Nè a pietra, ned a ferro. Allor mi pose
Certo alcun Nume in cor di scorticarla
Con l’unghie sue medesme. Io tosto a capo
Venni dell’opra, e alle mie membra avvolsi
Sua pelle per riparo incontro a Marte
Lacerator de’ corpi. E questo, amico,
Fu l’esterminio del Nemeo lione,
Che tanti danni fea alle genti e a’ greggi.