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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
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L’ERCOLETTO

Idillio XXIV

La Mideate Almena ambo lavati,
     E satolli di latte Ercole figlio
     Di dieci mesi, e l’altro figlio Ificle
     D’una notte minor, gli sovrappose
     A uno scudo di rame, insigne arnese,
     Che a Terela conquiso Anfitrione
     Predato avea. Poi la man posta in capo
     A’ Gigli, ella si disse: O figli miei,
     Un dolce e lieve sonno, anime mie,
     Dormite pur; dormite, o buon germani,
     Prole di vita piena, un fausto sonno
     Infino all’alba: In così dir cullava
     Il grande scudo; e quegli prese il sonno.

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     Ma quando a mezza notte, in vèr l’occaso
     L’Orsa si volve ad Orion vicina,
     E questi gira l’ampio tergo in mostra,
     L’insidïosa Giuno allor due draghi
     Feroci mostri, che in cerulee spire
     Arricciavansi orribili, sospinse
     Vèr l’ampie soglie sottoposte a’ cavi
     Usciali della casa, ed aizzògli
     A divorare il pargoletto Alcide.
     Ambo le pance al suol di sangue ingorde
     Tortuosi strisciavano, o dagli occhi
     Metteano in lor cammino atre faville,
     E sputavan mortifero veneno,
     Ma posciachè lambendosi fur giunti
     Presso ai garzon (tutto osservando Giove),
     D’Almena i cari figli si destaro,
     E s’allumò la casa. Ificle tosto
     Gridò al mirar ch’ei fe’ sul cavo scudo
     Le mostruose belve, e i sozzi denti.
     Volto a fuggir, cacciò da sè coi calci
     La morbida coperta. Ercole i draghi
     Prese all’incontro fra le mani, e in grave
     Nodo gli strinse, e a’ micidiali il gozzo
     Afferrò, dove stanno i rei veneni
     Fin dai Numi abborriti. Essi avvinchiaro
     Il tardi nato bambinel di latte,
     Che sotto la nutrice unqua non pianse.
     Poi disnodar la travagliata schiena
     Tentando scior l’inevitabil laccio.
     Almena in prima udì ’l romore, e scossa,
     Ah! sorgi, disse Anfitrion; me stringe
     Un timor neghittoso. Ah! sorgi, e lascia
     Pur di calzarti i piè. Non odi come
     Alte grida il minor figlio, e non vedi
     Come tutte risplendon le pareti
     A quest’ora di notte, e non apparve

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     La lucid’alba ancor? Caro consorte,
     Qualche nova avventura in casa abbiamo.
Tal disse; egli a’ conforti della moglie
     Immantinente si lanciò dal letto
     E corse ad afferrar l’industre brando,
     Che sempre appeso stava in capo al letto
     Di cedro a una caviglia. Il novel cinto
     D’una man tolse, e la guaìna egregio
     Lavor di loto sorreggea con l’altra.
     L’ampio talamo allor tutto di nuovo
     Intenebrossi. Ei chiamò forte i servi
     Che stavano alitando un cupo sonno.
     Presto correte, servi, a prender fiamma
     Al focolare, e le gagliarde spranghe
     Recidete alle porte. Ah! su, sorgete,
     Vigorosi famigli. Ei tal gridava.
     Questi ben tosto con lucerne accese
     Accorser tutti, e se n’empiè la casa.
     E com’ebber veduto il pargoletto,
     Che fra le molli man tenacemente
     Stringeva i draghi, urlaro. Egli frattanto
     I serpi verso il padre in mostra alzava
     Con pueril diletto saltellando.
     Poi ridendo a’ suoi piè scagliò sopiti
     Nel sonno della morte i truci mostri.
     Almena poscia il bilioso Ificle
     In sen recossi di timor conquiso.
     L’altro figlio ravvolse Anfitrione
     In pelliccia d’agnello; indi si trasse
     Novellamente a pigliar sonno in letto.
La terza volta il gallo omai cantava
     Sul fin dell’alba, e Almena a sè chiamato
     Il profeta veridico Tiresia
     Contògli il nuovo caso, e saper volle
     Qual fine avrìan le cose: E quando il cielo
     Su noi mediti pur qualche sciagura,

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     Disse, per niun rispetto a me s’asconda.
     Poichè, vate Everide, a te sì saggio
     Ben so dir che i mortali unqua non ponno
     Fuggir quel che la Parca al fuso attorce.
Tal parlò la reina; ed ei rispose:
     Fa cuor, madonna, genitrice illustre,
     Buon sangue di Perséo. Pel dolce lume,
     Che già dagli occhi mi sparì, tel giuro,
     Ben molte Achive il morbido filato
     Intorno alle ginocchia dipanando
     Vér sera a nome canteranno Almena,
     E sarai lor di riverenza obbietto.
     Tal magnanimo eroe sarà il tuo figlio,
     Che leverassi allo stellante Cielo,
     È tutti vincerà mortali, e belve.
     Compiute, ch’egli avrà, dodici imprese,
     È suo destin, che alberghi in casa a Giove,
     E la Trachinia pira avrà il suo frale.
     Ei genero pur anco appellerassi
     Di que’ Numi, che gli angui suscitaro
     A scempio del garzon dalle lor tane.
     Verrà quel giorno ancor, che il lupo armato
     Di denti a sega troverà sul covo
     Il capriolo, nè faragli oltraggio.
     Or tu, madonna, fa che pronto v’abbia
     Sotto cenere il foco, e legna secche
     Di paliur, d’aspalato, o di rovo,
     O di scosso dal vento arido acherdo.
     Su queste agresti schegge i due serpenti
     Di mezza notte abbrucerai, nell’ora
     Ch’erano intesi a recar morte al figlio.
     Poi raccolta la cenere dal foco
     Sull’alba, una tua serva tutta quanta
     La rechi al fiume, e getti in rotte pietre
     A seconda del vento, e torni tosto
     Senza voltarsi. La magion con fiamma

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     Di puro zolfo in pria si purghi, e poscia
     Acqua netta a sal mista (com’è rito)
     Di verde ramuscel cinta s’asperga.
     Un porco maschio infin sacrificate
     Al gran Giove sovran, perchè sovrani
     Siate ognor su i nemici. In questi accenti
     Parlò Tiresia, e benchè d’anni grave
     Tornò spedito alla sua seggia eburna.
     Alcide poi d’Anfitrione Argivo
     Chiamato figlio, qual novella pianta
     In bel giardino, al fianco della madre
     Era educato. Il vecchio Lino figlio
     D’Apollo, industre e vigilante eroe,
     Erudì nelle lettere il fanciullo:
     Eurito, che dai padri ampie campagne
     Redato avea, l’instrusse a tender l’arco
     E a dirizzar gli strali: e cantor fello
     Eumolpo Filammonide, e addestrógli
     Su cetera di busso ambo le mani.
     In quante guise i flessuosi Argivi
     Seco. lottando intralciansi le gambe,
     E quante ancora i pugili tremendi
     Co’ cesti, e quante i lottator trovaro
     A terra chini maestrie dell’arte,
     Tutte imparò dal figlio di Mercurio
     Dal Fanopeo Arpalico, la faccia
     Di cui pugnante in lizza alcun non v’era
     Che pur da lunge a sostener bastasse:
     Tal sopracciglio avea nel truce aspetto.
     Il trar cavalli al cocchio giunti in corso
     E alla meta piegar sicuri, e illesi
     Gli assi di rota insegnò pure al figlio
     Con dolce cura Anfitrion medesmo,
     Che molti in Argo di cavalli altrice
     Ricchi premj portò dai pronti agoni;
     E i non mai rotti cocchi, ov’ei salìa,

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     Avean per lunghe età le cinghie sciolte.
     Come con lancia in resta, e il tergo ascoso
     Sotto lo scudo venir dessi a fronte,
     E sostener la panta delle spade,
     Dispor le schiere, e disegnar gli aguati,
     Affrontare i nemici, e comandare
     I soldati a cavallo, appien mostrògli
     Il cavalcante Castore, che venne
     D’Argo fuggiasco, posciachè Tideo
     Quel di viti fecondo equestre suolo
     Tutto da Adrasto in suo retaggio ottenne.
     A Castore non v’ebbe infra gli eroi
     Guerrier simil, pria che la vecchia etade
     Sua gioventù lograsse. In cotal guisa
     Ammaestrò la cara madre Alcide.
     Vicino al padre d’un lion la spoglia
     A lui molto gradita era suo letto.
     Eran suo pranzo arroste carni, e un grosso
     Pan doriese entro un canestro, tale,
     Che a satollare un zappator bastava.
     Ma scarsa era la cena, e senza foco.
     Vestiva disadorno a mezza gamba.

Manca il fine di quest’Idillio.