I suicidi di Parigi/Episodio terzo/XIII
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XIII.
Una fine di capitolo, cui le signorine... leggeranno di soppiatto.
Il dì dopo, a mezzogiorno, il conte di Nubo si presentò al palazzo di Lavandall, e parlò a lungo col principe.
Uscendo di là, il dottore se ne andò di galoppo dall’agente di cambio.
Il principe si presentò al palazzo del duca di Balbek, e prese motto della duchessa.
Il fine del principe era restato lo stesso; ma aveva cangiato il piano di attacco.
Voleva ad ogni costo ottenere le carte del duca di Balbek.
Lo aveva gittato nella trappola di Morella per obbligarlo a vendere, e vendere a prezzo più mite.
L’avea ruinato per mezzo dell’amore. E si approntava già a mettergli l’asta alla gola per la vendita, quando Tob udì la conversazione del duca e del dottore — il quale pingeva lo stato miserabile dei fatti loro.
Tob intravide lo spediente infame cui andava a sperimentarsi. Osservò il duca, dopo la partenza del dottore, e lo vide accomodare due giuochi di carte, poi esercitarsi a cacciarseli in tasca e cavarneli fuori, come un giuocatore di bossoli.
Questa rivelazione fu per il principe di Lavandall uno spiracolo di luce.
Preparò il tranello in casa: ed i due signori russi furono suoi complici.
Aveva ricevuto la mattina stessa un dispaccio del principe di Tebe — di cui parleremo più tardi — e fu questo stesso dispaccio, cui innanzi al duca ed al dottore e’ disse d’aver ricevuto dal Guizot, e cui comunicò ai due diplomatici.
La dichiarazione del duca, cui possedeva adesso, gli consigliava un’altra tattica.
Con un uomo che aveva preferito di addossarsi una patente di ladro, anzichè mandarsi le cervella alle nuvole, non era più a far capitale di strappargli le scritte concernenti la successione di re Taddeo, per modi facili. Avrebbe rimbeccato, resistito, tenuto duro fino all’ultimo estremo.
Quando in un gentiluomo la voce dell’onore è divenuta muta, quando egli à indietreggiato dal duello e dal suicidio, non si à altra presa su di lui — tranne che mediante il Codice penale.
Il Lavandall non rinunziava di servirsi della dichiarazione del duca direttamente con lui, per tutti i modi. Egli voleva però mettere a partito, anzi tratto, un successo che gli sembrava più probabile, e meno rude a cogliere: il terrore della duchessa.
Vitaliana lo aspettava.
Ella non aveva chiuso occhio in tutta la notte.
I suoi occhi, tutti rossi, cerchiati di livido, attestavano ch’ella aveva pianto lunghe e lunghe ore. La sua pallidezza, rilevata ancora da un vestimento a nero come per un giorno di funerale, denunziava l’agone interno sostenuto. Ma la calma, di presente, delle sue palpebre e della sua fronte, la contrazione delle sue labbra indicavano nel tempo stesso agli osservatori, che ella aveva preso una risoluzione.
All’opposto della credenza comune, le nature deboli sono quelle che si decidono più pronte e che prendono risolvimenti più radicali. I caratteri forti alternano le fortune della lotta, dell’astuzia, dell’ardire, dell’abilità, del coraggio. Essi resistono, calcolano, danno un passo innanzi per poi retrocedere; indietreggiano per risaltare di un lancio tutti gli ostacoli; dubitano, tasteggiano, provano di transigere — in una parola, esitano ed aggiornano la decisione. Le nature deboli, non possedendo alcuna di queste risorse di resistenza, non veggono di un colpo che i partiti estremi: cedere o perire. Si bilica, si pencola un istante tra questi due termini della fatalità, poi vi si immerge capo giù, e tutto è detto.
Ora, Vitaliana era una natura debole.
Ella trovavasi nel suo boudoir. Leggeva una lettera di sua madre, cui il fattorino aveva rimesso testè — e che acchiudeva qualche capelli del suo bimbo — quando il principe di Lavandall si fece annunziare.
Un sole glorioso attaccava la neve caduta abbondantemente la notte precedente.
Lo splendore era dunque doppio.
La porta del balcone, che sporgeva sulla stufa, era aperta.
I raggi, traversando qualcuno dei vetri colorati, aggiungevano le vivide tinte di questi ai bagliori animali dei fiori e degli arbusti — in foga di vegetazione in quel clima di Senegal. Scintillio di colori, di luce, di profumo, di forme squisite e strane, di quegli uccelli vegetali della stufa; tutto ciò, di unita ad un sentimento di delizie voluttuoso e misterioso, faceva irruzione nel salottino di Vitaliana ed incarnava un inno a Dio.
Tutto quivi respirava la felicità. Tutto pareva dire alla fata di quel nido di angelo: Godi! Dio ti sorride!
Stesa sopra una dormeuse, la lettera di sua madre sul seno, la noccolina di capelli sulle labbra, Vitaliana aveva gli occhi a tutto... e non nulla scorgeva! Ella si sentiva penetrata di un sentimento vago, composto di tutti i dolori e di tutti i terrori cui aveva traversato da dodici ore in qua, e di quella calma catalettica che infonde la disperazione.
Il principe entrò.
Ella si sollevò.
Il signor di Lavandall le baciò le punte delle dita e si tacque.
La si sarebbe detta una visita di condoglianza.
— Signore — sclamò infine Vitaliana, voi venite ad annunziarmi che il disastro è completo?
— Dio mi è testimone, madama — balbettò il principe commosso, o sceneggiando la commozione — che, a prezzo della mia vita, io vorrei sparmiarvi quello orribile dolore.
Nel tempo stesso, egli presentava a Vitaliana la dichiarazione di suo marito e dei testimoni.
Vitaliana la lesse, gli occhi enormemente dilatati e fissi. Poi, la carta le cadde dalle mani, e, malgrado lei, malgrado tutto, dei singhiozzi le lacerarono il petto.
Il principe si ripostò la scritta in tasca, e prese le mani di Vitaliana fra le sue, senza soggiunger verbo.
La procella durò cinque minuti; poi si appaciò di un tratto, come le bufere dei Tropici.
Allora, Vitaliana, divenendo estremamente calma, riprese:
— Signore, vengo dal ricevere una lettera di mia madre; ecco i capelli del mio figliuolo. Essi sono felici. Signor di Lavandall, siete voi padre?
Il principe comprese il significato di quell’appello e rispose:
— Signora, sì. Ma, per sventura, io non sono mica solamente padre, e vostro marito non è mica un gentiluomo ordinario. Egli è qui ambasciatore di un re, ed io rappresento un imperatore. Gli è dirvi, madama, che io non sono punto libero delle mie azioni; che io debbo riferire quest’avvenimento all’imperatore — il palazzo del di cui ministro è stato vituperato — e che debbo aspettare gli ordini da Pietroburgo.
— Vi sarebbe egli permesso di presentire quegli ordini, signor principe?
— No, madama. Però, io non oserei incoraggiarvi ad alcuna speranza.
— Se mio padre vivesse, se io mi avessi un fratello, signore, non avrei bisogno di supplicarvi. Essi saprebbero il loro dovere: essi ucciderebbero il padre per non infamare il figliuolo! Io sono sola nel mondo; sono vedova, signor principe... Grazia, grazia pel mio figliuolo! bruciate quella carta.
— Impossibile, madama. Voi dimandate il mio onore, la mia sentenza, la posizione della mia famiglia, per salvar l’onore di un... di vostro marito, madama — il quale non comprenderebbe forse neppure la magnitudine del sacrifizio che io farei.
— Voi avete ragione — rispose Vitaliana dopo qualche istante di zittire. Un’ultima parola, allora. Principe, credete voi al pentimento?
— Io non lo nego.
— Credete voi che il duca di Balbek possa riabilitarsi unque mai di un atto, che fu senza dubbio un accesso di follia?
— Un accesso di follia! — mormorò il principe.
— Voi non ammettete la follia. Voi credete alla premeditazione. Siete voi dunque convinto che quell’anima è perduta?
— Madama...
— Principe, vi dimando il vostro parere, non mica la vostra pietà. Se mia madre fosse qui, ella mi consiglierebbe forse. Scriverle? non si confidano di codeste cose alla carta, la quale, presto o tardi, tradisce sempre. Io medito un piano di condotta, una determinazione... che so io? E sono sola!... Siate mio padre.
Il principe di Lavandall ebbe l’aria di riflettere. La risposta? no. Egli considerava che Vitaliana invocava una scusa, invocava le circostanze attenuanti, se non per assolvere suo marito, per attenuarne almeno il delitto. Ella andava quindi a sfuggirgli di mano. Ei non poteva allora contare sull’aiuto di lei. E’ si trovava dunque di nuovo solo d’incontro al duca.
Ora, occorreva, ad ogni costo, assicurarsi il concorso di Vitaliana. Laonde e rispose:
— I dolori reiterati uccidono; i grandi colpi ci mettono a prova. E’ non sarebbe mica dunque pietà sparmiarvi, duchessa — ora che siete sulla breccia della sventura. Ebbene, volete voi sapere ove va il danaro cui il duca ruba al giuoco?
— Se lo voglio! l’esigo anzi, principe — o, piuttosto, ve ne supplico.
— Avreste voi il coraggio di vederlo, voi stessa, degli occhi vostri?
— Io non so se ne avrò il coraggio; ma ne ò, certo, la volontà.
— Allora, domani sera, o dopo domani sera, o fra tre giorni — io non posso nulla precisare in questo momento — ma vi domando il permesso di scrivervi per indicarvi il giorno in cui, tra le undici e la mezzanotte, verrò a prendervi. Andremo... e vedrete.
— Posso condurre qualcuno con me?
— Se aveste vostro padre, vostra madre, vostro fratello, io vi direi: sicuro! Ma uno straniero ciancia, qualunque sia la sua fedeltà, se non un giorno, un altro. Ora, nel posto che occupa vostro marito, lo scandalo è sempre funesto. Del resto, voi siete libera.
— Voi avete ragione, principe; Dio ve lo renda. Io sarò pronta.
Il principe partì.
Vitaliana restò a meditare tutto il giorno.
Nè quel giorno nè il seguente ella non rivide suo marito.
Il duca era rientrato all’ambasciata per spicciare gli affari, e si era informato intorno a sua moglie. Ma, la prima fiata, Maria gli rispose che la duchessa era nel bagno e non poteva riceverlo; e la seconda, ch’ella era in sullo scrivere a sua madre, e non voleva essere disturbata.
Per sorte, il duca non chiedeva mica meglio che non contrariarla.
Il terzo giorno, però, ella lo ricevè.
Vitaliana pensò che la non poteva schermirsi da quella visita, senza risvegliar sospetti; tanto più che aveva giusto allora letto un viglietto del signor di Lavandall, il quale le significava questo semplice motto:
«A stasera, madama!»
Non mai il duca di Balbek si era mostrato a sua moglie più gaudioso. Aveva quasi dello spirito! La sua eleganza respirava la felicità. Portava nelle pupille un’immagine a dimora fissa, sotto la forma di sorriso, che folleggiava nel suo sguardo e gli dava l’aria intraprendente.
Vitaliana n’ebbe paura, ed invocò subito alla riscossa un acciacco.
Non v’è che lo coscienze perverse che abbiano un sembiante sì festoso. Un manigoldo non retrocede innanzi all’idillio, se lo trova di suo pro. Il carmina proveniunt animo deducta sereno è una baggianata volgare.
Vitaliana, dagli occhi divaricati, cercò l’infamia sulla faccia di suo marito — come Otello cercava il bacio sulla labbra di Desdemona. Non vi scorse che l’ebbrezza della pace, e l’impronta del sentimento che il mondo non aveva per lui che delle rose!
La visita non durò che tre minuti.
— Si è sempre certi di trovare sua moglie, ahimè! — dicevasi il duca. Le Morelle sono, invece, come i giorni di sole nell’inverno dell’Inghilterra.
Il cervello di quella bella creatura, d’altra banda, avea, la vigilia, partorito di un’idea bizzarra. Vitaliana era dunque anch’ella felice.
Il dottore di Nubo si era guizzato col duca nella palazzina di Morella — il dì dopo della festa — per dargli calma, ed avvisare con lui al mezzo di scongiurare il pericolo. Però egli aveva, principalmente, voluto vederlo prima della ganza, onde impedirgli che affogasse in quel baratro tutto il prodotto della sua infamia.
Il dottore desiderava prelevar della somma un qual cosa per dare un pizzico di scudi ad ogni creditore, ed insinuar loro così la virtù della pazienza.
Riuscì.
Il duca udì ragione.
E’ prese 5,000 franchi per lui, ne lasciò 20,000 sul davanzale del caminetto di Morella, e rimise il resto al suo Mentore.
Orbene, Morella parve così tôcca di questa gentilezza del suo amante, che gli acconciò la sorpresa di una festa — oltre le sue previe terribili carezze.
Forse il principe di Lavandall avrebbe potuto reclamare la sua quota in questa sùbita inspirazione di Morella; ma non è mo il momento d’imbarazzarci in questa investigazione.
Guardate là, invece!
E che vi è desso di straordinario alla fin fine?
Sei persone pranzano.
Noi abbiamo di già intravisti i convitati di Morella. L’è Fernandina, che à menato seco il grave ambasciatore del Sultano. L’è la Polacca, della festa di madama Augusta, che vi à condotto il suo cagnolino; il marchese delle Antilles. Poi, Morella e Balbek.
Tutto è bello, gaio, fresco, giovane — perfino il marchese! — il quale s’immerge nella quarantina, maturata anticipatamente, precocemente almen d’altri dieci anni, da una marchesa bisbetica come la moglie di Socrate.
L’età di un uomo è nelle mani della donna che lo governa.
Un pranzo di sei arcivescovi non sarebbe stato più decente e solenne.
Tre pensionarie del Sacré-Coeur non avrebbero avuto il verbo più innocente.
Si sbrigarono vivande squisite, chiacchierando filantropia, e mettendo in grave dubbio la fame del proletario — il quale maschera le sue rivoluzioni con quella malannata parola di: pane!
Lo scintillio di que’ cristalli, di quelle porcellane, di quelle argenterie, di quei fiori, era forse melenso in paragone delle sei pupille di quelle tre donne — che pur nondimeno le spegnevano sotto il languore.
Conoscete voi occhi più micidiali di quelli che sono sì dolci quando si muovono?
Le tre donzelle erano scollacciate. Però, misero dell’acqua nel vino — sintomo terribile! Nulla che non appartenesse loro — tranne il portamento! Nulla che non fosse vero — tranne il sorriso!
Il Turco, gli è vero, si provò, una volta o due alla barzelletta. Ma incontrò, in uno sguardo di Fernandina e nell’intenzione di un sorriso del marchese delle Antilles, un cotal correttivo, che lo si sarebbe detto di poi un novizio dei gesuiti.
— Parola d’onore, Morella — sclamò il duca di Balbek alla fine — si pranza da te come alla tavola del re. Il tuo champagne piagnucola. I tuoi intingoli sentono la predica della quaresima. I tuoi vini sono accimorrati. Facci dunque versare un fiaschetto di vieux gaiezza.
— Voi ne avete pieno il nappo — rispose Morella. Voi non la scorgete dunque che quando la si spande sulla nappa?
— Mio caro duca — sclamò il marchese sorridendo — voi siete intraprendente.
— E l’è fortuna — osservò la Polacca — senza che, Morella ci darebbe la berta a mo’ di una Bastille imprendibile.
— Il più difficile — obbiettò il Turco — non è prendere, ma tenere.
— Voi parlate male il francese — ripostò Fernandina. Io v’insegnerò la parola propria, che è nel tempo stesso il segreto di quel tenere lì.
Morella interruppe la conversazione, che pigliava mala piega.
— Pascià — diss’ella — avete voi udito il padre Lacordaire, il nostro eloquente predicatore?
— Sì — rispose il Turco con gravità — nel Don Pasquale!
— E non vi à convertito?
— E’ non à gli argomenti di Fernandina.
— Bisogna che io vi presti allora un libro di M. de Lammennais.
— Non ci mancherebbe che codesto — scoppiò Fernandina. Appena se noi abbiamo il tempo di studiare la quistione di Oriente nel Cocu di Paul de Koch. Che dite voi dei miei dispacci, eh?
— Uhm! — fece il Turco. Mi ci vuole una ballerina per metterci l’ortografia.
— Lasciamo la politica — disse il marchese di un tono grave.
— Ne fate voi qualche volta, marchese? — dimandò Morella.
— Uff! — s’intromise la Polonese. Non fate arrossire i segreti di gabinetto.
— A proposito — dimandò Morella — sapete voi la gherminella abbominevole che lord Warland à praticata ad Ines della Porte Saint-Martin?
— Che dunque? — chiese Balbek. L’avrebbe egli chiamata onesta?
— Quel lord incontrò l’attrice ad un thè, in casa di Maddalena Borel... voi sapete? la Lionese a cui il banchiere Dehal e Comp. fa una pensione di 200,000 fr. l’anno....
— Non v’è che le donne a barba che si abbiano di quelle fortune lì — osservò Fernandina.
— Or bene, milord si avvicinò alla piccola Ines e le sussurrò all’orecchio: «Mademoiselle, que fere moà per fere emer moà par vò.» Se un uomo mi avesse indirizzato un simile proposito — continuò Morella — io gli avrei risposto: «Bisogna, signore, provarmi codesto amore, e non parlarmene mai; non dimandarmi mai nulla; non lasciarmi mai nulla desiderare; prevenire tutte le mie volontà...
— Io — interruppe Fernandina — io avrei risposto: «Partite per l’India, e mandatemi vostre nuove assicurate, per mezzo della Banca di Francia.»
— Ed io — sclamò la Polacca — io gli avrei sciorinato: «Siate per lo meno lord Palmerston. Io non amo che i grandi uomini di Stato, come Talleyrand, Metternich... ed il marchese delle Antilles!»
— Bembè — riprese Morella. — Ma la piccola Ines, che ignorava quanto quell’Inglese pesava, gli rispose storditamente: «In primis, milord, bisognerebbe cangiar di maschera». «Very well, disse l’Inglese, what mask vò emer moà». «Ah! riprese Ines, non importa qual forma vi appropriate, milord, voi non potrete che guadagnarci.»
L’Inglese non rispose sillaba e si allontanò.
— Manca di spirito quel milionario lì — osservò Balbek. Io avrei risposto: «L’è fatta, carina. Io sono un cronometro che segna sulla sfera: mille franchi all’ora! Ne volete, cuor mio?»
— Stando a Parigi — disse il Turco — io le avrei mandato un laccio sotto forma di un filo di perle, e le avrei scritto: «Vieni a strangolarti, drolesse!»
— E voi, signor marchese, che avreste voi fatto? — dimandò Morella al marchese delle Antilles, che si taceva.
— Un giorno una ballerina del mio paese m’imberciò un’arguzia presso a poco su quel garbo — rispose il marchese. Io me la feci condurre a casa e la feci ricevere da’ miei palafrenieri.
— E che diss’ella, la vostra ballerina? — dimandarono le tre donne di una voce.
— L’era una piccola sciocca. Rispose: «Che io la trattava poi troppo come la marchesa!»
— Ebbene — continuò Morella — lord Warland è stato più eteroclito di voi tutti. L’indomani, due commissionari si presentarono ad Ines e le rimisero una larga cassa da parte di uno straniero, all’albergo Meurice. Voi comprenderete che non si rifiuta una cassa sì autenticamente listata. Ines sollecitò a farla aprire, e che vi trovò?
— Ma! milord in cioccolatte — sclamò Fernandina.
— Un maiale! disse Morella.
— Vivo.
— Pelato come un uovo, in camicia da notte, porgente un viglietto profumato da una zampa, nel quale milord aveva scritto: «Eccomi qui, sotto una forma che deve piacervi. Amatemi, mio cuoricino. Arturo.»
— E che fece Ines? — sclamarono le due donzelle ad un tempo.
— Che? la fece venire schietto schietto un salsicciaio, gli vendè la bestia per 200 franchi, e rispose: «Sì, milord, io vi adoro sotto questa forma. Prendete un poco più di lardo e venite ogni giorno.» Milord non vi tornò più.
— Perchè Ines andò da lui — osservò il Turco.
— Sotto quale forma? — dimandò il marchese.
— Dell’innocenza, perdinci! — replicò Morella.
Il pranzo terminato, Morella alzossi e disse:
— Adesso, signori, io sono la sultana qui, e cesso di essere l’anfitrione. Lasciatevi manipolare senza obbiezione, ed obbedite.
Ella tirò allora una corda di campanello, e nel medesimo tempo una fanfara invisibile scoppiò.
Accompagnò quindi i tre gentiluomini verso un uscio, e li fece entrar di quivi — mentre ella e le altre donne si dirigevano verso una porta di rincontro.
Un’ora trascorse.
La fanfara, che fin qui era stata briosa, cangiò di carattere, e divenne una melodia dolcissima di violini e violoncelli.
Le porte del salone si apersero.
Quattro immensi specchi riflettevano e moltiplicavano gli oggetti di quella stanza. Dei quadri, che avrebbero fatto trovar pudico quello della Venere di Tiziano, pendevano alle pareti, nell’intervallo degli specchi. Un folto tappeto di Smirne copriva il pavimento. Tutto intorno cuscini e divani di damasco rosso. Ai quattro angoli, dei vasi, da cui sbocciavan fuori dei narghileh, dai quali si poteva aspirare a volontà il latakie o lo hatchich. Fiori, dovunque era posto. In mezzo, un buffet coperto di liquori, di sorbetti, di vini deliziosi, di confetture aromatiche.
Una luce viva animava tutto e dava una scintilla ad ogni oggetto.
Delle cassollette invisibili aggiungevano un profumo penetrante a quello dei fiori. L’aria aveva, nel tutto suo insieme, irradiamento, armonia, olezzo, ripercussione di oggetti: una ubbriachezza irresistibile penetrava da tutti i pori. Tutto diceva: «Qui si ama fino a morirne!»
Aprendosi, la porta di mezzo dette ingresso a sei giovinette vestite da baiadere.
La porta di sinistra lasciò passare i tre gentiluomini — panneggiati in un’ampia tunica di cashmiere bianco, coronati, a modo degli antichi Romani, di fresche rose, e profumati come una corolla di magnolia.
Dalla porta di destra, entrarono le tre giovani donne — galleggianti in una nuvola di gaze, trasparente come il vapore dell’alba in Oriente.
Un grido scattò da tutte le bocche. Una percossa mise in fiamma tutti gli occhi. Fu un precipitarsi all’incontro gli uni delle altre.
Le braccia si aprirono... Il salone risuonò di uno strepito simile alla crepitazione della fiamma dei sarmenti.
Le sei baiadere, che avevano in mano vassoi e coppe di cristallo, versarono dei sorbetti. Poi, cominciarono una specie di danza, anzi di pantomima, dagli atteggiamenti molli e strani — compresi di uno sguardo, sentiti come un rimescolamento, e cui alcuna parola non potria pingere.
I sei principali personaggi di questo racconto si trovarono presi in un circolo che realizzava tutte le tentazioni di S. Antonio. Non si distingueva più dove il velo finiva, dove il nudo cominciava.
Gli occhi, striati di lampi, scoppiettavano. Il sorriso provocava. La respirazione soffocava la parola.
Morella servì ai suoi ospiti un liquore di oro, il quale sembrò, quando lo si ebbe cioncato, un fiotto di lava incanalato nelle vene.
Un’altra carola delle baiadere, più strana ancora, rigettò i tre ambasciatori e le loro dame verso i divani, verso i bocchini di ambra dei vasi, ove il tabacco e lo hatchich bruciavano.
Alla musica nascosta e soffice che non cessava di suonare, si aggiunse adesso una voce vellutata ed artisticamente velata, che respirava piuttosto che non cantava una strofa di Anacreonte, tradotta da Alfredo di Musset.
Quella strofa imprudente esprimeva, in parola, i voti dei tre uomini. Le braccia delle baiadere e delle tre giovani donne si allacciano attorno ai tre pascià, per i quali Morella realizzava un delirio delle Mille ed una notte.
Di un tratto la musica, fin lì così tenera, sì riservata, scoppiò come una bordata di cannoni. Essa mise fuoco alle polveri!
Tutti non fecero più ch’uno.
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Fra la mezzanotte e l’una del mattino, la porta di mezzo nel salone si aprì a due imposte, e sulla soglia si fermarono il principe di Lavandall e Vitaliana.
Di un solo ammiccare, questa vide tutto. Di un solo urto al cuore, ella comprese tutto altresì.
Vitaliana aveva appreso e sentito in un baleno ciò che una donna del mondo, a trentasei anni, più non ignora!
L’ebbrietà aleggiava sull’intero quadro, e faceva di quella gioventù, or ora piena di vita, come dodici corpi inerti.
Era poi lo hatchich?
Il duca di Balbek appoggiava la sua testa sul seno di Morella — rovesciata sur un monte di cuscini. A traverso a lui, giaceva una baiadera. I tre eran pallidi, in disordine, fuor di sensi: li si sarebbe detti avvelenati da un anestasiatico.
— Principe, fate tirare quell’uomo di colà — disse infine Vitaliana, indicando a Lavandall suo marito.
Il principe diede un ordine.
I due suoi valletti d’anticamera tolsero via il duca, lo avvilupparono in un mantello e lo portarono nel calesse.
Il principe e Vitaliana seguirono.
— Il duca può entrare in palazzo senza esser visto, duchessa? — domandò Lavandall.
— No.
— Allora?... In quello stato... Dimani, i domestici... tutta Parigi...
— Comprendo. Fate depositare codesta roba in casa del signor d’Alleux, mio cugino, stradale Santa Maria, e riconducetemi all’ambasciata, principe.
Parigi, vista a quell’ora, a piedi, à un aspetto singolare.
Il principe dette degli ordini.
Vitaliana si sentiva sì serena oggimai, che la sembrava felice.
Marciavano in silenzio, in grembo ad un vaneggiamento. D’un tratto, Vitaliana, si fermò e sclamò:
— Le dietro-scene della vita àn dunque di quegli Eden, principe?
Il signor di Lavandall s’inchinò e tacque.