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Orbene, Morella parve così tôcca di questa gentilezza del suo amante, che gli acconciò la sorpresa di una festa — oltre le sue previe terribili carezze.

Forse il principe di Lavandall avrebbe potuto reclamare la sua quota in questa sùbita inspirazione di Morella; ma non è mo il momento d’imbarazzarci in questa investigazione.

Guardate là, invece!

E che vi è desso di straordinario alla fin fine?

Sei persone pranzano.

Noi abbiamo di già intravisti i convitati di Morella. L’è Fernandina, che à menato seco il grave ambasciatore del Sultano. L’è la Polacca, della festa di madama Augusta, che vi à condotto il suo cagnolino; il marchese delle Antilles. Poi, Morella e Balbek.

Tutto è bello, gaio, fresco, giovane — perfino il marchese! — il quale s’immerge nella quarantina, maturata anticipatamente, precocemente almen d’altri dieci anni, da una marchesa bisbetica come la moglie di Socrate.

L’età di un uomo è nelle mani della donna che lo governa.

Un pranzo di sei arcivescovi non sarebbe stato più decente e solenne.

Tre pensionarie del Sacré-Coeur non avrebbero avuto il verbo più innocente.

Si sbrigarono vivande squisite, chiacchierando filantropia, e mettendo in grave dubbio la fame del proletario — il quale maschera le sue rivoluzioni con quella malannata parola di: pane!

Lo scintillio di que’ cristalli, di quelle porcellane, di quelle argenterie, di quei fiori, era forse melenso in paragone delle sei pupille di quelle tre donne — che pur nondimeno le spegnevano sotto il languore.

Conoscete voi occhi più micidiali di quelli che sono sì dolci quando si muovono?

Le tre donzelle erano scollacciate. Però, misero dell’acqua nel vino — sintomo terribile! Nulla che non appartenesse loro — tranne il portamento! Nulla che non fosse vero — tranne il sorriso!

Il Turco, gli è vero, si provò, una volta o due alla barzelletta. Ma incontrò, in uno sguardo di Fernandina e nel-