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La fanfara, che fin qui era stata briosa, cangiò di carattere, e divenne una melodia dolcissima di violini e violoncelli.

Le porte del salone si apersero.

Quattro immensi specchi riflettevano e moltiplicavano gli oggetti di quella stanza. Dei quadri, che avrebbero fatto trovar pudico quello della Venere di Tiziano, pendevano alle pareti, nell’intervallo degli specchi. Un folto tappeto di Smirne copriva il pavimento. Tutto intorno cuscini e divani di damasco rosso. Ai quattro angoli, dei vasi, da cui sbocciavan fuori dei narghileh, dai quali si poteva aspirare a volontà il latakie o lo hatchich. Fiori, dovunque era posto. In mezzo, un buffet coperto di liquori, di sorbetti, di vini deliziosi, di confetture aromatiche.

Una luce viva animava tutto e dava una scintilla ad ogni oggetto.

Delle cassollette invisibili aggiungevano un profumo penetrante a quello dei fiori. L’aria aveva, nel tutto suo insieme, irradiamento, armonia, olezzo, ripercussione di oggetti: una ubbriachezza irresistibile penetrava da tutti i pori. Tutto diceva: «Qui si ama fino a morirne!»

Aprendosi, la porta di mezzo dette ingresso a sei giovinette vestite da baiadere.

La porta di sinistra lasciò passare i tre gentiluomini — panneggiati in un’ampia tunica di cashmiere bianco, coronati, a modo degli antichi Romani, di fresche rose, e profumati come una corolla di magnolia.

Dalla porta di destra, entrarono le tre giovani donne — galleggianti in una nuvola di gaze, trasparente come il vapore dell’alba in Oriente.

Un grido scattò da tutte le bocche. Una percossa mise in fiamma tutti gli occhi. Fu un precipitarsi all’incontro gli uni delle altre.

Le braccia si aprirono... Il salone risuonò di uno strepito simile alla crepitazione della fiamma dei sarmenti.

Le sei baiadere, che avevano in mano vassoi e coppe di cristallo, versarono dei sorbetti. Poi, cominciarono una specie di danza, anzi di pantomima, dagli atteggiamenti molli e strani — compresi di uno sguardo, sentiti come un rimescolamento, e cui alcuna parola non potria pingere.