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I suoi occhi, tutti rossi, cerchiati di livido, attestavano ch’ella aveva pianto lunghe e lunghe ore. La sua pallidezza, rilevata ancora da un vestimento a nero come per un giorno di funerale, denunziava l’agone interno sostenuto. Ma la calma, di presente, delle sue palpebre e della sua fronte, la contrazione delle sue labbra indicavano nel tempo stesso agli osservatori, che ella aveva preso una risoluzione.

All’opposto della credenza comune, le nature deboli sono quelle che si decidono più pronte e che prendono risolvimenti più radicali. I caratteri forti alternano le fortune della lotta, dell’astuzia, dell’ardire, dell’abilità, del coraggio. Essi resistono, calcolano, danno un passo innanzi per poi retrocedere; indietreggiano per risaltare di un lancio tutti gli ostacoli; dubitano, tasteggiano, provano di transigere — in una parola, esitano ed aggiornano la decisione. Le nature deboli, non possedendo alcuna di queste risorse di resistenza, non veggono di un colpo che i partiti estremi: cedere o perire. Si bilica, si pencola un istante tra questi due termini della fatalità, poi vi si immerge capo giù, e tutto è detto.

Ora, Vitaliana era una natura debole.

Ella trovavasi nel suo boudoir. Leggeva una lettera di sua madre, cui il fattorino aveva rimesso testè — e che acchiudeva qualche capelli del suo bimbo — quando il principe di Lavandall si fece annunziare.


Un sole glorioso attaccava la neve caduta abbondantemente la notte precedente.

Lo splendore era dunque doppio.

La porta del balcone, che sporgeva sulla stufa, era aperta.

I raggi, traversando qualcuno dei vetri colorati, aggiungevano le vivide tinte di questi ai bagliori animali dei fiori e degli arbusti — in foga di vegetazione in quel clima di Senegal. Scintillio di colori, di luce, di profumo, di forme squisite e strane, di quegli uccelli vegetali della stufa; tutto ciò, di unita ad un sentimento di delizie voluttuoso e misterioso, faceva irruzione nel salottino di Vitaliana ed incarnava un inno a Dio.