I rossi e i neri/Primo volume/XXXV

XXXV

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XXXV.

Come un gladiatore moderno si disponesse all’ultima Pugna

Memori sempre di tutti i personaggi della nostra storia, non abbiamo dimenticato Lorenzo Salvani, il povero giovine che abbiamo lasciato in via Nuova, sotto le finestre dei Torre Vivaldi, a guardare un’ultima volta Matilde che saliva alla festa, leggiera e felice come persona che si sia liberata di un grave peso, ed abbia fatto un’opera buona. Fu l’ultimo sguardo che egli volse a costei, ma non ardiremmo dire che fosse l’ultimo pensiero.

Chi penetra negli ultimi recessi di un cuore trafitto? Chi sa dire quante volte, anche inconsciamente, un’anima aspreggiata [p. 328 modifica]dalle ineffabili angosce di un morto affetto, accolga nel suo segreto una perfida immagine, e la vagheggi e la maledica, e frema a quella vicinanza come la carne al contatto di un ferro rovente, innanzi di affogarla nel suo immenso disprezzo e di poterla contemplare impunemente e sorridere?

Il forte animo di Lorenzo s’era chiuso in quella medesima notte; ma la tempesta ruggiva dentro, nè potremmo dirvi quando e per che modo si chetasse. Forse le avvenne di consumarsi da sè; forse ardeva tuttavia, ma il cuore, divenuto insensibile per soverchio di pena, non tradiva il suo signore nei moti del volto o negli atti. Laonde, mutato apparve, non turbato, alla gente; e se lo spirito afflitto maturava un feroce proposito, niente lasciava trasparire agli occhi del volgo profano.

Ferito da una donna amata in ogni cosa più cara, nella sua adorazione per lei, nel suo divino inganno di poeta, nella sua dignità d’uomo, egli, dopo quel giorno, non la cercò, nè la fuggì; non la vide. Gli era ella passata daccanto per via? Non lo sapeva neppure. Ella era e non era per lui. Questo non significava ancora il disprezzo, ma più non significava l’amore; sibbene, e assiduamente, l’angoscia, il disdegno, lo scontento di sè.

Aveva la morte nel cuore, e lo stato suo era tanto più grave in quanto che egli non aveva potuto ottener sollievo da un’ora di vendetta. Quel conte palatino, ma così poco paladino, dell’Alerami, egli non aveva potuto trovarselo a faccia a faccia sul terreno. Ciò ch’egli aveva detto nel suo ultimo colloquio con Matilde, intorno a quel vile spavaldo, era pure avvenuto.

I lettori rammentano che innanzi di uscire dalla casa della Cisneri, Lorenzo aveva detto all’avventuriero, conchiudendo il suo sarcastico discorso sul giuoco: «Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre a’ suoi riveriti comandi». Alle quali parole avea risposto l’Alerami, facendosi bianco in viso come un cencio lavato: «Eh! chi sa che non me ne venga la voglia?» E Lorenzo aveva soggiunto: «S’accomodi!».

Ora questa voglia non era venuta al conte palatino, che s’era accomodato assai meglio non rispondendo all’invito. Non già che ne’ suoi colloqui colla contessa egli non avesse simulato di voler tenere la giostra; che anzi aveva strepitato, e di molto. Ma egli aveva fatto come que’ tali rodomonti da quadrivio, i quali sogliono finire i loro alterchi colla frase proverbiale, « [p. 329 modifica]tenetemi, se no l’ammazzo!». E la contessa, sgomentita, lo aveva tenuto; ed egli s’era chetato, per non mettere (diceva lui) a repentaglio l’onore di una dama, in una contesa con tal uomo (soggiungeva lei) che non ne francava la spesa, che non era della civil compagnia e che non c’era nè gusto ne gloria a sforacchiargli la pelle.

Così erano sbollite le ire d’Achille; così l’Alerami ebbe al cospetto della bionda contessa un pregio di più. Ma così va il mondo; si passa a buon mercato per valorosi e per gentiluomini. E il vero gentiluomo, il valoroso, passava, agli occhi di certo volgo eccellentissimo, per un dappoco, per uno screanzato, che non francava la spesa d’un colpo di pistola, o di spada.

Ma così non la pensavano tutti; chè per buona sorte il volgo eccellentissimo, se spesso promulga, non sempre fa accettar le sue leggi. Ventiquattr’ore dopo quel suo battibecco in casa Cisneri, il nostro Lorenzo, maravigliato di non avere anche veduto i padrini dell’Alerami, era andato su tutte le furie, e s’era aperto coll’Assereto e col Montalto, perchè volessero andargli a chiedere se egli, conte palatino, avesse gl’insulti per celie. Ma Giorgio Assereto avea crollato le spalle, chiedendogli se egli, Lorenzo Salvani, avesse dato il cervello a pigione; e Aloise di Montalto, fior di gentiluomo se altri fu mai, gli aveva soggiunto:

- Se quel conte apocrifo mandasse una disfida a voi, ed io avessi la fortuna di essere vostro padrino, comincerei da non averlo per degno avversario, e sfiderei per conto mio quei due gentiluomini che avessero ardito presentarsi come suoi mandatarii. -

E un’altra volta, a giugno inoltrato, nella affettuosa dimestichezza d’un fraterno colloquio, gli aveva parlato in tal guisa:

- Lorenzo, voi sapete come io vi apprezzi e vi ami. Non so d’uomini i quali possano starvi a paragone, e certo non ce ne sono, ai quali volessi chiedere consiglio od aiuto, siccome a voi. Questa confessione mi darà, spero, il diritto di dirvi una schietta parola, come la direi ad un fratello, come saprei dirla a me stesso.

- Oh parlate, Aloise! - aveva risposto Lorenzo. - Vi ascolto come si ascolta un fratello, come si ascolterebbe la voce della propria coscienza.

- Orbene, Lorenzo, io avevo saputo del vostro amore fin da’ primi giorni ch’esso era nato, e fin da que’ giorni mi dolse che foste caduto ne’ lacci di una donna guasta dalle consuetudini d’una vita frivola e vana. Amavate, credevate, [p. 330 modifica]ed io tacqui. Che cosa avrebbe potuto allora la voce di un amico, e, quel che è peggio, di un amico recente? Ora voi stesso vi siete ricreduto; quella donna non amava voi, in quella medesima guisa che non ha amato e non amerà mai nessuno, salvo il piacere. Se costei non fosse ricca e gentildonna, qual nome e quale stato le si converrebbe? Ditelo voi. Or dunque, perchè vi accorate? Rimpiangete forse ch’ella medesima, generosa senza saperlo, vi abbia aperto gli occhi alla luce del vero?

- No, Aloise, v’ingannate; io non rimpiango l’amore di quella donna. Soffro.... ecco tutto! Soffro di esser caduto così stoltamente in errore, di aver commesso altrui così ciecamente il mio cuore. Torno ora in balìa di me stesso; ma basta egli forse? Voi non sapete quanti bei sogni si proseguono, amando; che castelli in aria si edificano; che dolci consuetudini si vagheggiano, e come l’animo confidente, quasi ringiovanito, si schiude agli aliti della nuova vita, e come paion nulla le molestie, le difficoltà d’ogni maniera, e come nasce, come si rinvigorisce il desiderio di adoperarsi in questa battaglia dell’esistenza. L’amore è un liquor generoso che ridesta e centuplica tutte le virtù dormenti o prostrate dell’uomo. E un bel dì, tutto crolla, tutto svanisce! Ma voi, rimanete, pur troppo, voi rimanete, logoro, impossente, disperato, in presenza del nulla. Credetemi, Aloise; da gran tempo infelice, ho imparato a leggere nel mio cuore. Non è l’amore di quella donna che io rimpiango ora; è il mio povero edifizio crollato, la mia speranza morta, la mia vita disutile. -

A render più doloroso lo stato di Lorenzo si aggiungeva che tutto era buio d’intorno a lui, che ogni via era chiusa alla sua operosità, che il turpe bisogno batteva alla porta. I lettori rammentano com’egli ponesse la sua ultima speranza nel dramma «Una corona di spine» scritto, stiamo per dire, col suo sangue, e come il Bonaldi gli avesse promesso, se gli andava a’ versi, di pagarlo. Ecco ora la lettera che il Bonaldi gli scriveva da Brescia, venti giorni dopo l’invio del manoscritto:


«Egregio signore,

«Il dramma di V. S. m’è piaciuto assaissimo, laonde non ho a dirle se mi paia meritevole d’un pubblico sperimento. Soltanto mi duole di dover soggiungere che non potrei rimeritarla della sua letteraria fatica in contanti. La condizione del capocomico è dura oltremodo in Italia. Ogni cosa [p. 331 modifica]m’è andata a rifascio nei teatri di Roma e di Trieste; causa la malattia della prima donna, che come non sarà ignoto a V. S. ha dovuto smettere per qualche tempo, ed io sono stato costretto a presentare in sua vece una prima amorosa, buonina sì, ma al suo posto, non già nelle parti di forza.

«Ma lasciando da banda tutti questi particolari, che io le ho accennati soltanto per chiarirle lo stato delle cose mie. Ella è, mio egregio signore, tuttavia sconosciuto nell’arringo drammatico, non appartenente ad alcuna consorteria letteraria. Questo è suo merito, lo so; ma l’universale non ragiona sempre colla testa, e quantunque a volte si ribelli contro certe chiesuole (vera dannazione di noi poveri artisti!), non si affolla, poi, in teatro, se non ci ha l’esca dei nomi conosciuti. Oltre che, sebbene il dramma di V. S. ci abbia di molti pregi, e quello anzitutto dello stile che io non mi periterò di chiamare classico addirittura, Ella converrà meco che possa piacere e dispiacere. L’argomento è delicatissimo e del novero di quelli che vanno trattati, come suol dirsi, coi guanti.

«Comunque sia, se Ella si sente di affrontare il giudizio del pubblico, ai magri patti che io posso per ora proporle, tenteremo la prova, e mi è grato sperare che riesca favorevole al suo stupendo lavoro, e mi dia agio ad offrirle, per un nuovo dramma, qualcosa di meglio del decimo dell’entrata, detratte le spese serali. Aspetto dunque una sua riverita lettera, la quale mi dica si o no, e dolentissimo di non potere più efficacemente dimostrarle quanto apprezzo il suo nobile ingegno, me le profferisco devotissimo

RAFFAELLO BONALDI


Questa lettera era caduta come un fulmine in casa Salvani, a turbare l’ultimo sogno di Lorenzo, a distruggere l’ultima speranza che egli vagheggiasse in cuor suo, di tornare in qualche modo di sollievo alla sua povera sorella adottiva. - «Piove sul bagnato!» - aveva sentenziato con spartana breviloquenza Michele, allorquando il suo padrone, sorridendo amaramente, gli aveva annunziato il colpo di misericordia vibratogli dall’avversa fortuna.

Un ultimo lampo d’orgoglio guizzò nell’animo di Lorenzo Salvani. Scrisse al capo comico ringraziandolo di aver letto il suo dramma, che non era poca cortesia; distribuisse pure le parti e lo facesse recitare; non si desse pensiero di pagamento, nè di decimo netto, o lordo, nè d’altro, perchè a lui queste inezie non importavano punto. E scritta quella [p. 332 modifica]lettera, volle mandarla affrancata. «È l’ultima spina della mia Corona; - disse a Maria, - non ci pensiamo più!»

E non ci pensò più, davvero. La Corona di spine, entrando nel repertorio del Bonaldi, usciva per sempre dall’animo dell’autore. L’ultima tavola di salvezza.... diciamo male, il suo gorgo vorace, l’onorevole uscita (come egli stesso usava chiamarla) gli si apriva tuttavia dinanzi allo sguardo. Nemico del suicidio immediato, violento, che un uomo si procaccia colle sue mani in un momento di delirio, egli ne vedeva, ne vagheggiava un altro, che gli appariva certo del pari, ma che non avrebbe offerto ad alcuno argomento di biasimo e di scherno. Era questo il tentativo di rivoluzione che si maturava in Genova; tentativo che egli non aveva caldeggiato mai, ma al quale aveva promesso l’opera sua, in rispondenza alla sua fede politica, e che ora egli affrettava coi voti, come quello che gli avrebbe dato il modo di farla finita, presto e bene, col tedio dell’esistenza. Egli insomma s’industriava a disfarsi, a buttarsi via, come tanti altri a campare, a procacciarsi uno stato.

Così pensava Lorenzo, e sotto questo aspetto considerava i prossimi eventi. Egli non s’era mai pasciuta la mente di vane speranze, e reputava certissima la sconfitta. Era stato soldato, e ben sapeva quante cose ci vogliono a fare un soldato; era italiano, e non ignorava come difetti nelle moltitudini italiane la tenace concordia dei propositi, l’obbedienza al comando di un solo; era avvezzo alla vita pubblica, e gli erano note le difficoltà d’ogni maniera che avrebbero, anco nel caso più felice d’una vittoria parziale, mandato a male un rivolgimento, il cui trionfo dipendeva dalla simultaneità dello scoppio in parecchie regioni della penisola. Questo ed altro sapeva; nè, sulle prime, lo aveva taciuto. Ma altri consigli avevano vinto; il concetto era generoso, e Lorenzo Salvani, pronto alle opere com’era dubitoso ai consigli, aveva chiesto per sè una delle parti più rilevanti. Morremo, pensava egli, morremo; che importa? Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor....

E la mattina del 29 giugno era giunta. L’ora del gran tentativo, che già doveva essere per una parte iniziato in alto mare a bordo del Cagliari, sarebbe suonata in quella sera per Genova. Saldo nel suo proposito, Lorenzo Salvani guardava con occhio sereno l’imminente pericolo. Sotto le spoglie del suicida si era ridestato il veterano di Roma.

Che facesse egli quella mattina, può argomentarlo chiunque è stato al punto di doversi appigliare ad un grave partito che egli facesse [p. 333 modifica]sentire la necessità di non lasciare dietro di sè, morto, o lontano, nessuno di quei nonnulla, i quali dessero appiglio alla indiscreta curiosità o allo scherno della gente, non tanto a suo danno, quanto d’altrui. Chiuso nella sua camera, il giovine Lorenzo metteva sesto nelle sue carte, quali ordinatamente riponendo, quali stracciando, quali altre bruciando a dirittura.

Ce n’erano d’ogni forma e ragione; lettere di minor conto che bastava fare in quattro pezzi e buttar nel cestino; scritture fuggevoli, noterelle, capricci letterarii, abbozzi, versi non finiti, pensieri scombiccherati sulla carta, in attesa di tempo migliore; cose tutte dalle quali un uomo, che abbia avuto addosso la febbre dello scrivere, mal volentieri si separa, perchè ognuno di quei fogli rammenta un bel giorno, un pensiero felice, una speranza, una illusione, e la mente, guidata dal tenue filo nel laberinto degli anni trascorsi, corre tra desiosa e malinconica indietro, ripensando mille casi abbelliti dalla lontananza, per fermarsi poscia in questa considerazione tristissima: ohimè, tutto passa, tutto muore, in questo povero mondo!

E chi non ricorda poi quell’altra ricchezza del cassetto più geloso della scrivania, fatto custode delle lettere e dei piccoli doni d’amore? Perchè ognuno di noi ci ha pure avuto i suoi romanzetti giovanili; tal volta non finiti per difetto di occasioni, di audacia nostra o di buona volontà della gentil collaboratrice; tal altra male conchiusi dalla ferrea rigidezza degli eventi, o interrotti o guastati dai capricciosi trapassi della volubile giovinezza; tutti vani, transitorii come i nembi di maggio, e per dirla umoristicamente, falsi allarmi di un cuore che non ha sostenuto ancora la vera sconfitta che lo riduca in servitù duratura.

Di simili romanzetti facevano fede quelle lettere, così gelosamente custodite, legate in principio da un nastro verde, azzurro o rosato, il cui nodo era soventi volte disfatto per leggere e rileggere que’ dolci messaggi e veder di cogliere nuovi punti e nuove virgole che dicessero: t’amo! E la preziosa mèsse era riposta in un elegante scatolino, nel quale andavano a riposarle in compagnia i fiorellini furtivamente dati da lei in un giro di mazurca, i guanti felicissimi che l’avevano toccata, le foglie secche della robinia sotto la quale essa era stata un giorno seduta; un tesoro, a farvela breve, un tesoro che non avreste barattato con tutte le ricchezze dei Rotschild. Questo va inteso per que’ tempi; che, veramente, più tardi la divozione andava scemando per gradi; più [p. 334 modifica]raramente il nodo era disfatto; più raramente aperto lo scatolino elegante; poi dimenticato del tutto in un angolo del conscio cassetto, dove talvolta rovistando per altre ragioni, appariva improvviso ai vostri occhi; e allora vi facesse sospirare, o sorridere, vi tornava giovani un tratto, e.... e.... che serve tacerlo? non ardivate darlo alle fiamme.

Il caso di Lorenzo era diverso, come abbiam detto più sopra. Egli aveva a distruggere inesorabilmente ogni ricordo del passato, che potesse lasciare i superstiti, e quel ch’era peggio, i messeri del Fisco, in balìa di segreti, non tutti, nè interamente suoi. Forse egli aveva già di soverchio aspettato, e se ci era biasimo a dargli, risguardava appunto l’indugio ch’egli aveva posto alla esecuzione del suo auto da fè.

Già, le carte più rilevanti erano state arse nella notte alla fiammella del candeliere. Altre andavano a mano a mano seguendo la sorte delle prime. Ma la più parte erano fatte a minuzzoli, per tema che l’odore di bruciaticcio, invadendo la camera, non avesse a dar sospetto in casa.

Ed ormai non restava più altro d’intatto fuorchè la cassettina d’ebano, già più volte accennata nel corso del nostro racconto. Lorenzo Salvani, dando sesto a tutte le cose sue, ben sapeva di doverci giungere, a quella incognita del suo cassettone; epperò quasi senza formarne il disegno in mente, aveva lasciato ultimo tra le sue cure il pauroso problema.