I rossi e i neri/Primo volume/XXXVI
Questo testo è incompleto. |
◄ | Primo volume - XXXV | Primo volume - XXXVII | ► |
XXXVI.
Nel quale una cassettina d’ebano dischiude alla perfine i suoi ventenni segreti
- Eppure.... bisognerà aprirla! - diss’egli tra sè, in quella che, a riposarsi dalla sua lunga fatica, si lasciava cadere su d’una scranna, - Maria rimarrà sola, domani. La poverina ha imparato a cavare il vivere dalla stentata opera delle sue mani, e il buon Michele non verrà meno alla usata fedeltà. Io, poi, non le tornavo più utile in alcun modo; e forse morto le gioverò più che vivo. L’Assereto potrà farle avere una piccola somma dalla vendita de’ miei libri, e dove ella voglia ristringersi in un più modesto quartiere, egli potrà anche farle vendere una parte delle masserizie. Tutto ciò, aggiunto a’ suoi guadagni, le assicurerà un anno di vita non al tutto disagiata. Ma chi la custodirà. Dio santo? chi le terrà luogo di fratello, di madre? L’Assereto è un cuor d’oro, e veglierà certo a’ suoi bisogni; ma altro non potrebbe fare per lei, senza dar esca ai sospetti, alle ciarle assassine del volgo umano. Povera Maria! povera sorella!... Ma via! io non posso abbandonarla, prima di aver letto là dentro. Chi sa? forse in quelle carte è il suo destino, e certamente, dopo aver conosciuto ogni cosa, potrò lasciarle un consiglio che la indirizzi su questa terra, dove si troverà tutta sola. Che ha detto mio padre? Le sue restrizioni intorno a quel segreto domestico, non erano forse derivate dalla tema di recare un pericoloso turbamento nella pace di qualche famiglia? E la turbo io, leggendo? E posso io non leggere, al punto in cui sono, di dover lasciare un addentellato tra la volontà di lui e la sorte di questa povera fanciulla? -
Lorenzo stette forse una mezz’ora1 in queste considerazioni, le quali finalmente ebbero forza di farlo andare verso il cassettone, a cavar fuori dal suo ripostiglio la cassettina d’ebano.
Era una graziosa cassettina, sulla foggia di que’ cofanetti tanto in uso nei secoli scorsi presso le dame, che solevano riporvi i loro preziosi gingilli ed ogni nonnulla che loro piacesse di avere più agevolmente alla mano. Il coperchio, rilevato come un tetto a quattro acque, portava al sommo una maniglia di bronzo dorato, e tutt’intorno bei fregi d’intarsiatura, ai quali ne rispondevano altri sui quattro lati della cassa.
Lorenzo, poi ch’ebbe cavato fuori il cofanetto e messolo in mostra sulla scrivania, andò a cercare in un altro ripostiglio la chiave. Il cuore gli tremò, quando egli ne pose l’ingegno nella toppa; la vista gli si offuscò, quando, levati due giri di serratura, una molla interna fece scattare il coperchio. Egli aveva dinanzi il segreto dei natali di Maria; due vite, a lui sconosciute, spente già forse, si affacciavano da quel vano, mettendo in balìa dell’estraneo gli arcani ventenni di un amor sciagurato.
Sciolto il nodo che legava un primo involtino di carte a sinistra, Lorenzo incominciò a leggere. E qui, un foglietto dopo l’altro, senza alcuna sosta, passarono molte lettere sotto gli occhi di lui.
Due ore di tempo non furono troppe a quella fatica. Noi non ne faremo perder tanto ai nostri benevoli, e daremo appena un compendio di ciò ch’egli lesse.
Era quello un carteggio abbastanza continuato dal 1833 al 1835: quindi ripigliava dal 1839 al 1843, dove cessava affatto. La scrittura, fine e allungata, indicava alla bella prima la mano di una donna. E non mancava il nome della scrittrice, in molte lettere espresso nella forma di Lilla, in altre, specie delle più recenti, allungato in Camilla, essendo sempre una la mano di scritto, e quasi tutte quelle lettere, poi, recando sulla soprascritta il nome di Paris Montalto.
Paris Montalto! Era costui della famiglia d’Aloise? Sì certo; raccogliendo i suoi pensieri, Lorenzo si ricordava che questo nome era stato proferito una volta da Aloise, come quello d’un suo zio paterno. L’amico, volendo chiarire a Lorenzo che nella sua aristocratica famiglia l’amore della patria non era merce sconosciuta, gli aveva accennato di Paris Montalto, fratello di suo padre, emigrato la prima volta nel 1833, e morto, durante un nuovo esilio, nel 1846, in Ispagna.
Ma Lilla? chi era Lilla?
Il carteggio, come abbiam detto, incominciava dal 1833: ma le prime lettere lasciavano argomentare un affetto di due anni innanzi, affetto tenuto a disagio dalle troppo rare occasioni di vicinanza che erano offerte ai due innamorati dalle veglie e dalle feste da ballo del patriziato genovese. Paris non andava in casa di lei, e non ardiva chiederne la mano, poichè non era tanto ricco da sperare che i parenti della fanciulla gliela avrebbero concessa. E l’amava frattanto, e si struggeva dalla rabbia e dalla gelosia. In quelle sue lettere, schiette espansioni di un cuor giovanile. Lilla si doleva della congiura che le avevano ordita dintorno i parenti e i congiunti tutti, per farla sposa ad un altro; ma giurava a Paris che, innanzi di consentire alle nozze, si sarebbe chiusa in un monastero. Il pretendente era stato introdotto in casa! ma Lilla non lo poteva in nessun modo patire; nè di lui nè d’altri al mondo avesse ad ingelosire il suo Paris, nemmeno di quello Spagnuolo che gli spiaceva tanto per le sue leziosaggini intorno a lei, e che a lei pure tornava molesto, più molesto dell’altro, del pretendente, se pure fosse stato possibile.
Queste prime lettere non avevano bollo postale, e in una di essa era accennato come giungessero tra le mani di Paris. La notte egli andava ad appostarsi in una viottola, dietro al palazzo dov’ella dimorava; un filo pietoso scendeva colla lettera di Lilla, e per quel filo un’altra lettera di Paris saliva fino alle mani di lei. Ingegnosi trovati dell’amore! Ma un giorno Paris aveva dovuto fuggire. Le lettere dalla fine del 1833 al cominciamento del 1835 erano scarse, e recavano sulla soprascritta, insieme con un finto nome, il bollo delle regie poste. Il Montalto, giovinotto bollente, s’era legato d’amicizia con taluni più in voce di volere e di promuovere novità; si erano rifischiate parole sue, che lo accusavano audace cospiratore ai danni dello Stato; laonde, pel suo meglio, aveva dovuto uscire da Genova e rifugiarsi a Parigi. Le prime lettere di questo secondo periodo erano un rammarichio continuo; Lilla non poteva sopportare l’amarezza di quella lontananza, ma i pericoli d’un ritorno di Paris la spaventavano; ella era infelice, dannata all’avversa fortuna, ma almeno lo sapeva in salvo e ne rendeva grazie al cielo. Talvolta si doleva di lui, che aveva sacrificato l’amor d’una donna all’amore di patria; tal altra andava superba dell’amore di un uomo tanto dissimile da tutti que’ neghittosi e codardi che si vedeva dattorno; ora si dava in balìa della disperazione, ora si beava ne’ sogni di una felicità senza pari. Sublimi contraddizioni dell’affetto, chi non vi ha sentite una volta in cuor suo?
Ma le lettere della giovinetta andavano a mano a mano facendosi più rare; tutto il giorno, e perfino la notte, ella era vigilata dalla sospettosa cura de’ suoi, che non sapevano intendere la cagione de’ suoi ostinati rifiuti; una lettera incominciata era caduta nelle mani di sua madre; la cameriera, che portava di soppiatto le sue lettere alla posta, era stata congedata sui due piedi; finalmente, mancando gli spedienti, fors’anco soppravvenendo la stanchezza, Lilla non aveva più scritto. Un ultimo suo biglietto, vergato nel gennaio del 1835, lasciava trapelare com’ella dovesse inchinarsi alla ferrea volontà dei parenti. L’ultima frase diceva: «Paris, per pietà, dimenticatemi! Dio era contro di noi!»
Accanto a queste lettere di Lilla ce n’era un’altra, ma non scritta da lei. Era un amicissimo di Paris Montalto, che gli dava ragguaglio del matrimonio della sua «antica fiamma», ragionandone con quella libertà di modi che si deriva dal non entrar punto nella faccenda di cui si tratta, dal non averne, come suol dirsi, nè caldo nè freddo.
«Te Deum laudamus! - scriveva l’amico. - Finalmente la Lilla s’è smossa dal no, e s’è degnata di far felice il cugino. Vuol essere un bel matrimonio! Lei giovine, bella e punto contenta; egli in visibilio, ma logoro e scemo. Già i Priamar, da tre o quattro generazioni, sono tutti così. Per me, credo che egli, se non fosse uno scemo, non si sarebbe tanto incocciato ad averla. E nota che, per giungere a questo sì, ha dovuto passare sotto le forche caudine; far casa nuova, pigliar palchetto al Carlo Felice, in seconda fila, vicinissimo alla Corona; fare insomma tali novità, che in casa Priamar non si sono vedute mai. Non ti dirò le chiacchiere che se ne fanno dappertutto; tanto gli è stato un caso impensato, strano, inaudito, un vero fulmine a ciel sereno. E lo Spagnuolo, poverino, che le faceva una corte spietata, ha dovuto appender la voglia all’arpione. La vigilia del matrimonio, egli è scomparso da Genova. Dicono che sia tornato a Madrid, col proposito di farsi frate. Buon pro’ gli faccia. Io non sarei così pazzo. Le donne sono graziosi animaletti, da pigliarne sollazzo un giorno o due: ma guastarcisi il sangue attorno.... il cielo ne scampi ogni fedel cristiano!»
A questa lettera succedeva una lacuna di quattro anni, che Lorenzo non poteva colmare, digiuno com’era della cronaca genovese di que’ tempi. Aloise, soltanto, colle sue memorie di casa alla mano, avrebbe potuto dirgli che un anno di poi il giovine Montalto aveva ottenuto, mercè le poderose attinenze del fratello a Torino, di tornare senza pericolo nei felicissimi Stati del re di Sardegna, e che nell’autunno del 1836 era in Genova, stanco, malinconico, infastidito, rifuggente da ogni compagnia, sebbene da molti desiderato, segnatamente dalle donne, alle quali era argomento di curiosità non poca.
Apriamo, noi che lo possiamo ad ogni ora, le opere di Sant’Agostino alla lettera P, nel dodicesimo volume, e troveremo il nome della marchesa Lilla di Priamar che vi era citata come una delle più ragguardevoli dame del suo tempo. Bella, arguta, assai corteggiata, questo dicono le note della società del Parafulmine: le quali tuttavia non possono trovar niente a ridire intorno ai fatti suoi, e ne dànno cagione alla freddezza del suo carattere. Abbondano in quella vece le considerazioni intorno al rammarico della famiglia, perchè la casa Priamar non è rallegrata di prole, e lo scemo, logoro e podagroso marchese vi è pettinato a dovere. Ma ecco, segue alcun che di più ghiotto. Paris di Montalto, il politicante, l’esule rimpatriato, il giovanotto più grave di Genova, del quale si notano le apparizioni in teatro, o nei geniali ritrovi, come uno stranissimo evento, Paris di Montalto è andato in casa Priamar, e sembra che guardi la marchesa con occhi più desiosi che non faccia colle altre. La cosa è tanto più credibile, in quanto che parecchi anni prima, la marchesa nubile ancora, gli andava a genio maledettamente, Ma ohimè, il romanzetto non andava più oltre; la Lilla era severa, asciutta con lui più ancora che cogli altri, e ricusava l’omaggio che tante altre, più cortesi di lei, si sarebbero recate ad onore grandissimo. Già, non era da farne le meraviglie; la Priamar era fredda come un marmo, anzi come uno scoglio. E qui veniva un bisticcio genovese sulla pietra e sul mare, che accennava alla etimologia del casato di Priamar.
In questo giudizio della compagnia del Parafulmine non c’era nulla di vero, salvo le apparenze che l’avevano tratta in inganno. Il compilatore di quella notizia, che pure apparteneva al ceto nobilesco, aveva pigliato un granchio a secco. Era giovine, e, comunque volenteroso annotatore, non era anche fatto ad intendere certi arcani del cuore. Ma le cose notate da lui, insieme con parecchie altre avvenute di poi, avevano in quella vece ad insospettire un certo Spagnuolo, a cui gli atti del Parafulmine dovevano cadere più tardi tra mani. Il savio lettore ha già capito di chi intendiamo parlare.
Ma proseguiamo il racconto. Dalle carte dell’anonimo appariva che Paris Montalto, dopo poche visite, non avesse più messo piede in quella casa. La fama della marchesa di Priamar seguitava a correre illibata, sotto l’usbergo di quella sua petrosa freddezza. Di casa sua si continuava a scrivere, per tante altre ragioni secondarie; ma di lei, particolarmente, non era più fatta menzione, fuorchè sullo scorcio del 1838, per raccontare d’una sua malattia di languore, che la costringeva ad un lungo viaggio. Questo era il Consiglio del medico, che si riprometteva moltissimo da un mutamento di clima, e proponeva una gita in Isvizzera.
Il marito, inchiodato a letto da’ suoi continui malori, non aveva potuto muoversi da Genova; però la marchesa Lilla aveva dovuto andar sola in compagnia del medico. Ma su questo capitolo non c’era nulla a dire; il cronista notava candidamente che il sacerdote d’Esculapio, dottissimo, onestissimo e ben voluto da tutte le più spettabili famiglie, aveva i suoi settanta suonati. L’assenza della marchesa durò mesi parecchi, in capo ai quali tornò, ma non risanata. L’aria dell’Oberland non le aveva giovato, come sperava; laonde, trovandosi a disagio in città, era andata a chiedere la salute restìa all’aure di un suo podere di là da Sestri Levante, dove rimase forse due anni, non tanto per sè, quanto per una malattia del consorte, che, ancora in verde età, era giù di salute, pieno di acciacchi, come un gaudente sessagenario. Quando ella si ridusse da capo a vivere in Genova, era mutata del tutto nelle sue consuetudini. In casa sua non più feste, nè ritrovi di allegra gioventù, ma severe conversazioni, o piuttosto conferenze, ordinariamente tenute in mercoledì, alle quali convenivano tutta gente posata, magistrati sputasentenze, dame contegnose, nobili parrucconi, e simiglianti. Per qual ragione ciò fosse avvenuto di una donna che di poco avea varcata la trentina, come la marchesa Lilla, non si giungeva ad intendere. L’annotatore del Parafulmine, leggero oltremodo, ne dava cagione, secondo il solito, alla proverbiale freddezza della signora di Priamar.
In tal guisa i teatri, le veglie eleganti, perdevano un prezioso ornamento; per contro, i più riputati oratori di chiesa guadagnavano una assidua ascoltatrice. Era sempre a gironzare per le chiese, la marchesa Lilla; la sua testa era un taccuino ambulante delle quarant’ore, delle indulgenze plenarie, de’ tridui e, a farla breve, di tutte le solennità divote. Ciò che tutte le donne, le quali hanno molto amato aspettano a fare quando abbiano cinquant’anni almeno, la marchesa Lilla anticipava di venti. Perchè? L’annotatore non sapeva dirlo; si rifaceva sempre al suo ritornello, che i lettori conoscono.
Basta; per non dirne altro, al tempo in cui l’anonimo cronista deponeva la penna, la marchesa Lilla di Priamar non era più annoverata tra le signore di cui mettesse conto indagare la vita e celebrare i miracoli. Ella era citata in quella vece come una dama di specchiata pietà, come una patrona d’istituti di carità, dama di Misericordia, visitatrice di infermi, di carcerati, e via discorrendo.
Più fortunati di Lorenzo Salvani, il quale non aveva altro sott’occhi che il carteggio rinchiuso nella cassettina d’ebano, noi sappiamo dagli atti della società del Parafulmine chi fosse la marchesa Lilla. E poichè abbiamo colmata con queste notizie la lacuna dal 1835 al 1839, ripigliamo il compendio delle lettere che ella scriveva al Montalto.
Si chiariva da queste lettere che Paris aveva lasciato Genova alcuni mesi prima di lei. L’aria della terra natale non era abbastanza respirabile per un uomo segnato, com’egli, sui libri del palazzo Ducale. Troppo spesso egli era stato chiamato ad audiendum verbum dall’eccellentissimo governatore, e soltanto i suoi titoli, le sue attinenze, lo avevano fino allora scampato da molestie più gravi. Per farla finita co’ sospetti continui dell’autorità, Paris Montalto aveva dovuto andarsene un’altra volta in esilio, e si aggiungeva che a ciò fosse stato consigliato da persone, le quali avevano paglia in becco, ed amavano fargli cansare qualche mese di villeggiatura a Fenestrelle, o in altro orrevole castello di pertinenza dello Stato.
Questo non era vero del tutto, o solamente era una parte del vero; poichè la partenza del Montalto, se forse fu affrettata da ragioni di salvezza personale, era anche consigliata da un negozio più delicato. Ma nessuno ebbe a trapelarlo in quei tempi: la ragion politica lo coperse col suo manto pietoso. Il dispotico reggimento d’allora poteva portare benissimo la malleveria di questo e d’altri più gravi peccati.
Comunque fosse, Paris Montalto era di là dai confini tre o quattro mesi innanzi che la marchesa Lilla ne uscisse per ragion di salute; e come nessuno aveva sospettato per lui, così nessuno ebbe a sospettare per essa. E quando ella tornò, per andarsi a chiudere nel suo podere di Sestri Levante, non ci fu alcuno che più pensasse agli amori giovanili, nè ai rinnovati ardori di Paris Montalto; nè alcuno, per conseguenza, che immaginasse come certe lettere, messe alla posta di Sestri Levante, col ricapito di Enrico La Vega, a Barcellona, fossero lettere di Lilla di Priamar al marchese di Paris Montalto.
Or da queste lettere s’intendeva come il viaggio di Sestri non fosse che uno spediente adatto a colorire meglio, a rafforzar le ragioni del viaggio fatto dianzi in Isvizzera. Durante il quale, Lilla e Paris si erano’ veduti; e lo accennava chiaramente il carteggio. In una di queste lettere, così scriveva la povera solitaria:
«....Abbiamo errato, Paris, ed io ne sconto la pena. Iddio non mi aveva concesso che io ritraessi dalle infauste mie nozze un frutto; ed ecco, l’ho avuto dalla colpa, ma triste ed amaro, come tutti i frutti della colpa. E non poterlo confessare! e dover contraddire alle mie viscere di madre!... Oh amico, ditemi, ve ne prego, come sta Maria, la mia bella Maria? Mi sento più raffidata, poichè essa è nelle vostre mani, e voi l’amerete anche molto per la sua povera madre. Uomo fatale, perchè vi ho io conosciuto?.... Ma voi l’amerete, non è egli vero? Voi avete un nobilissimo cuore; quando l’ho confidata a voi, mi è parso di non separarmi tutta quanta da lei.
«Paris, mio ottimo amico, io sono inferma davvero, quantunque non sia da principio venuta a seppellirmi in quest’angolo di terra se non per isviare la curiosità sospettosa della gente; inferma di membra come di spirito. V’hanno giorni che non sento la forza di uscire dalla mia camera; sto in casa quasi sempre; non vedo, nè amo vedere persona. Il mondo m’è in uggia; la natura non ha colori, il cielo non ha luce per me.
«Ditemi, Paris, ma siate sincero, ve ne supplico; è bella Maria? A chi somiglia, il mio povero angioletto? Oh Dio! e pensare che io non potrò abbracciarla; che ella non porterà il mio nome; che non la vedrò cresciuta negli anni, fiorente di bellezza, passeggiare al mio fianco, quasi un’altra me stessa!... Almeno ella sia più felice di sua madre! Non conosca le angosce, gli spasimi, e soprattutto i rimorsi di un amore come il mio! Se il cielo è giusto, ho fede che darà a lei quello che ha negato alla povera Lilla.»
Un’altra lettera, scritta sullo scorcio del 1841, diceva:
«.... Gran conforto è la preghiera agli afflitti. Io non l’ho mai sentito così profondamente come ora. Io prego, ottimo amico, io prego per essa e per voi. In tal guisa mi sembra di poter pensare ad ambedue senza peccato, ed anche (se il cielo vorrà consentirmelo) di espiare il passato. Ditemi Paris, non vivete voi nell’errore? Non siete voi sempre in aperta ribellione contro le leggi umane e divine? Ravvedetevi; non date ascolto alla superbia della ragione, che è così trista consigliera; fidatevi al cuor vostro, che io conosco buonissimo. Se sapeste come è bello il credere; e come l’animo si sente, se non per avventura più felice (chè la felicità non è di questo mondo), certo più riposato e sereno! Porgete orecchio a chi ha molto patito; il mondo è vanità; noi siamo poveri pellegrini sulla terra; dalle nostre passioni, fumo della materia, non abbiamo altro che rammarico e danno, laddove la nostra patria è in cielo, ed ogni qualvolta i nostri occhi si affisano lassù, interrogando con potenza di affetto gli spazii azzurri, i nostri pensieri medesimi si purificano, e lo spirito turbato prova una calma che non si era mai conosciuta, che non si era mai derivata dalle cure della vita quotidiana.
«Desidero che Maria diventi una buona cristiana. Voi. forse, ottimo amico, non potrete darvene pensiero; ma vi sarà facile trovare una buona maestra, donna di poca dottrina, ma di molta pietà, che val meglio assai; una di quelle povere vedove derelitte, come ce ne son tante al mondo, per la quale voi sarete, inconsapevolmente, la mano della provvidenza, e il premio che questa avrà mandato a’ suoi patimenti. Fatelo, Paris; ve ne prego, ve ne supplico, per Maria, per me, per quello ch’io sono stata un giorno ai vostri occhi....»
Come aveva potuto una donna, ornata ancora di tutte le conscie lusinghe della bellezza e della gioventù, commossa ancora da tutti i prepotenti ardori del sangue, trionfare cosiffattamente di sè medesima, soffocare, annientare la sua volontà, consumarsi, e diventare un’altra, tanto da poter scrivere sinceramente in quel modo all’uomo amato, al padre di Maria? I patimenti l’avevano sopraffatta; il cuore aveva ceduto agli spasimi dell’assidua tortura; Lilla non era più Lilla.
Non senza contrasto, per altro. Qualche volta la materia si ribellava alle mortificazioni dello spirito. Anche nella piaga più profondamente visitata dal ferro e dal fuoco, rimane qualche cosa, che a volte ripullula. Inoltrata negli anni, Lilla si sarebbe chetata del tutto: giovine ancora, ella durava acerbi patimenti: e l’ardore male spento dagli anni si faceva a sviare con irrequietezza febbrile, spandendolo, consumandolo in sempre nuovi tentativi, larve di operosità più affannosa che efficace.
«.... Mi sono rinchiusa in questa dimora campestre, e nelle sue umili consuetudini, più facilmente che non sperassi da prima.» - Così ella scriveva nel febbraio del 1842. - «Un tempo davo troppa parte di me alle vanità del mondo, e furono quelle che mi hanno perduta. Ora battono all’uscio, ma invano. Mi compiaccio di vestire dimesso, come una povera monaca. A volte amerei di fare qualche passeggiata all’aperto, e di respirar l’aria pura dei monti che torreggiano alle spalle del nostro palazzo; ma di lassù si scorge troppo distesa d’orizzonte, e lo spirito va in balìa di sogni pericolosi; laonde, ammonita dalla esperienza di un giorno speso in tal modo, ogni qual volta mi venga il desiderio di andare, mi costringo a non uscir nemmeno in giardino.
«Faccio male a scrivervi queste cose, mio ottimo amico; forse è male che di tanto in tanto io prenda in mano la penna. Perdonatemi: accogliete questi scritti come un’umile confessione de’ miei falli, ed assolvetemi, come mi assolve il sant’uomo, ai piedi del quale io depongo ogni settimana questi ultimi atti di debolezza femminile. Egli è pietoso ed umile, questo curato, come un vero seguace di Cristo; non ho avuto segreti per lui, ed egli versa sulle piaghe del mio cuore il balsamo delle sue benedizioni. Ora egli mi aiuta in un’opera di gran sollievo per me. I bambini di questo paesello, lasciati in balìa di sè stessi dalle loro madri, non facevano altro che correre qua e là pei campi o sulla riva del mare, scalzi, sudici, alla rinfusa, a giuocare o ad accapigliarsi, come è costume della loro età. Noi li abbiamo raccolti dalla strada; ripuliti e coperti da me, vanno ogni giorno in chiesa, dove il curato insegna loro la dottrina cristiana, e chi più impara riceve in premio da me qualche bella immagine, o qualche libriccino di divozione, ed ha la speranza di venire a pranzo dalla signora. Poveri bambini! care creature innocenti!...
«Mio marito è buono; conoscendolo meglio, ho incominciato ad amarlo come una sorella, dirò anzi come una madre. E dire che un tempo io non potevo stargli vicina!... che i suoi mali mi facevano dare in atti d’impazienza!... Egli non esce quasi mai; i suoi dolori reumatici lo hanno tenuto quasi tutto l’inverno nella sua camera. Io mi sono posta intorno a lui come una suora di carità; ho vegliato intiere notti questo bambino di cinquant’anni. Quand’egli è meno infastidito dal male, mi dimostra con poche ma affettuose parole la sua gratitudine. Egli! gratitudine a me!... Ma Iddio mi ha ricompensata oltre i miei meriti, concedendomi di vederlo assai migliorato. Il ritorno della bella stagione fa miracoli. Se si potesse star sempre qui! Ma pur troppo bisognerà tornare in Genova, per dar sesto a molte faccende domestiche....»
Qui sarebbe stata gran ventura a poter leggere le risposte di Paris Montalto, e più grande a vedergli nel cuore, quando il povero esule andava leggendo quelle pagine spietate. Generoso qual era, certo egli doveva intendere ed anco perdonare quei manifesti mutamenti del cuore di lei. Le anime grandi sentono dolore, non isdegno; non odiano, nè sprezzano; dimenticano, o ne fanno le mostre.
Paris non dimenticava; amava sempre, a malgrado d’ogni cosa. E amando con tutte le virtù dell’anima sua, ebbe certamente a scrivere nel 1843 una lettera, da cui traboccasse una grande amarezza, perchè la risposta di Lilla (ultimo foglio di quel mesto carteggio) mostrava aperto che l’antica fiamma era spenta, e sopravviveva la fredda alterezza della gentildonna offesa. L’abbiano per fede gl’innamorati; quando un lagno strappato al cuor loro dagli spasimi di un affetto profondo non fa più vibrare la corda più tenera, la donna non ama già più, e in tal caso, che giova il proseguire, e dare ad un idolo muto, o schernitore, l’incenso spregiato delle nostre lagrime? Ora questo era il caso di Paris Montalto; ai suoi lagni, allo sfogo della sua amarezza. Lilla avea rizzato alteramente il capo, e rispondeva come una donna la quale non aveva più nulla di comune con esso lui, salvo la odiata ricordanza di un fallo.
«Finalmente (ella scriveva) ho avuto notizie vostre, e ve ne so grado. La piccola Maria che mi annunziate essere già presso di voi, e farvi compagnia, aiuterà a calmarvi lo spirito e a togliervi una volta di mente quella vostra eterna politica. Amate quella bambina, e soprattutto serbatevi per lei, perchè ella non avrà, dopo voi, alcun protettore sulla terra. Vi parlo, come vedete, il linguaggio della saviezza e dell’amicizia; che volete di più? Le nostre pazzie di gioventù furono grandi; industriamoci ad espiarle. A questo io, povera donna, vo lavorando ogni giorno.
«Avete torto a dolervi di me. Ciò ch’io sono, è opera vostra. Se il passato non mi costringesse ad arrossire, sarei certamente diversa, e potrei forse pensare senza rimorso ai lontani. Errammo; ma gli errori non debbono essere eterni. Così potessi io distruggerli, dimenticandoli; che di nulla nella mia vita avrei a pentirmi più oltre.
«Questo è un dirvi chiaramente che i vostri sospetti non giungono fino a me, e che io non potrei condonarli a chi pure dovrebbe conoscermi, se non pensassi che le tempeste della vita inaspriscono i cuori, e offuscano gl’intelletti. Quegli che voi chiamate lo Spagnuolo, è in Genova; sì certamente, ma che importa a me? Egli è qui venuto, ma colla tonaca nera della Compagnia di Gesù, ch’egli ha indossata da ott’anni. Ho avuto occasione di parlargli una volta. Egli non è più l’uomo di prima, nè credo che ricordi il passato; ma se ciò pur fosse?... Lilla non l’ha amato mai, lo sapete; ed ora ambedue non amiamo, non adoriamo altro che Dio. Questo è, io credo, il primo e l’unico punto di contatto che possono avere le anime nostre.
«In una cosa soltanto ho errato, e me ne accuso. Sappiatela, poichè essa è, insieme con questa lettera, l’ultimo atto di debolezza di quella donna che avete così mal giudicata. Or fanno due mesi, mio marito era in fin di vita. In una di quelle lunghe veglie durate al suo capezzale, mentre i medici già disperavano di lui, ho accolto nella mente un malvagio pensiero. - Non è, pensai, non è per cagion mia ch’egli muore; la natura, il cielo, lo avranno voluto; or bene.... se io rimanessi sola.... padrona di me.... - E in questo pensiero mi fermai un istante; vagheggiai una vita nuova. Uno spirito perverso mi sussurrava arcane parole all’orecchio, mi additava in lontananza una distesa di sereno orizzonte.... Un lamento dell’infermo richiamò la figlia d’Eva al suo debito di moglie, e sgombrò dalla sua mente le larve di un sogno colpevole; Lilla tornò in sè medesima. Ma di quel sogno, di quell’istante d’aberrazione involontaria, inconsapevole. Iddio l’ha punita, acerbamente punita, facendole giungere nella lettera di Paris Montalto una testimonianza di oltraggiosi sospetti.
«Vi perdono, poichè è debito mio di donna e di cristiana, vi perdono; ma per l’oltraggio medesimo e per tutto ciò che l’alterezza dell’animo mio ha dovuto patire, o mutate costume, o ritenetevi dallo scrivere più oltre ad una donna la quale ha fallito una volta e solamente per voi, come solamente per voi deve arrossire di sè stessa, ma che ora non ha più nulla a rimproverarsi, se non forse la colpa di aver segreti per l’uomo a cui è legata da un sacro giuramento; e ciò per voi, solamente per voi.»
Note
- ↑ Nell’originale "mezzora".