I rossi e i neri/Primo volume/XXXIV
Questo testo è incompleto. |
◄ | Primo volume - XXXIII | Primo volume - XXXV | ► |
XXXIV.
Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio istruttivo
Ora seguitiamo le pedate del Guercio, il quale, contento del fatto bottino, non pensa davvero di aver dato argomento a tanto chiasso futuro.
Il destro furfante, poi ch’ebbe veduto il suo uomo correre in su, come se avesse l’ali alle calcagna, se ne discese con passo misurato al crocicchio del Portello, donde si avviò per via Caffaro. La strada era pressochè deserta, e oltrepassato il teatro Paganini era deserta del tutto. I Genovesi sanno che nell’anno di grazia 1857 la via Caffaro non giungeva ancora molto più in là dal teatro anzidetto, e la valle non appariva anche allargata, come ora si vede, per dare ospitalità convenevole a due file di casamenti e alle loro intercapedini rispettive.
Si notavano in quelle vece le vigne sterpate, i camperelli distrutti, le falde della collina sconvolte dalle mine, fondamenta a mala pena gettate di case future, fossi di calce, monti di rena, sterramenti, cataste di pietre da costruzione; insomma un caos, che aspettava ancora il fiat degli architetti e dei mastri muratori.
In mezzo a questo laberinto il Guercio si aggirò destramente, come se fosse giorno chiaro, o come se avesse il filo d’Arianna tra le mani. Per tal modo egli potè giungere in un luogo dove il suolo fangoso mostrava una gran buca, una specie di voragine, e gli addentellati ancora scoperti di un vôlto recente accennavano che là era il cominciamento della chiavica maggiore sottoposta alla via.
Il Guercio diede un’occhiata in giro, e sinceratosi che non ci fosse anima nata in quelle vicinanze, si curvò sulla buca, ne abbrancò gli orli e si calò dentro colla fidanza di un uomo, che già aveva misurato l’altezza del salto. E qui lettori1 umanissimi,
- Qui ci convien lasciare ogni sospetto,
- Ogni viltà convien che qui sia morta;
perchè, noi dietro al Guercio, e voi altri con noi, dobbiamo scendere nella buca, e dare una corsa per Genova sotterranea.
Anzitutto, a raffidarvi contro il timore di dover camminare nel buio, vi diremo che il furfante, dopo esser corso un cinquanta passi, seguendo il muro a tentoni, si fermò, diè mano ai cerini e poco stante il lucignolo acceso d’una lanterna cieca rischiarò dinanzi a lui uno spazioso androne, alto forse tre metri, che correva tra due ruvide pareti, su d’un piano inclinato di forma concava, seguendo sotterra l’asse medesimo della via sovrapposta.
Genova sotterranea, che noi sappiamo, non è stata mai particolarmente studiata nè descritta, e mi dicono che fino ad ora il Municipio non ne abbia neppure la pianta. Noi che ci siamo avventurati là dentro una volta, faremo di dirne qualcosa, aiutando i nostri ricordi con alcuni particolari più esatti e minuti che la cortesia d’un vecchio architetto ci ha posti in grado di aggiungere. Come li conosceva bene, il nostro compianto Pedevilla, tutti quegli oscuri meandri! E che Cicerone meraviglioso fu egli, per farne gli onori alla nostra curiosa giovinezza!
I nostri benevoli hanno prima di tutto a notare che noi non li terremo soverchiamente sotterra; che non seguiremo, verbigrazia, l’esempio di tanti famosi romanzieri che hanno fatto vivere i loro lettori, per una infilzata di capitoli, quattro o sei metri sotto la superficie del suolo. Oltre che noi non abbiamo tanto ingegno, nè tanta dovizia di partiti da tenerli a bada, va ricordato che le chiaviche di Genova non possono entrare in paragone coi monumenti sotterranei di Parigi; nè colle catacombe di Roma, nè colle immani cisterne di Bisanzio, nè colle vie dischiuse sotto l’Eufrate dagli antichi re di Babilonia. Genova, edificata a più riprese, secondo le crescenti necessità della sua popolazione, su d’un terreno malagevole, altro non riuscì che un lavoro di aggiunte e di rappezzamenti faticosi, così sopra come sotto, e privo, ahimè, di un concetto ordinatore. Laonde i grandi canali, invisibili seguaci delle grandi arterie cittadine, son pochi; tutti segnati in anticipazione dai letti de’ rigagnoli, che separano le une dalle altre le colline digradanti dell’anfiteatro di Genova. Altri canali minori a centinaia, pochissimi de’ quali son praticabili, inesplorati tutti, seguono i capricciosi meandri delle vie, viuzze e vicoletti della Superba, e ognun d’essi mette, giusta la sua pendenza, a taluno degli anzidetti canali maggiori.
Questi gran dignitarii della dea Mefite son cinque, i quali scendono, come dicemmo, a piano inclinato dalle alture; ma giunti al centro della città si stendono in linea orizzontale, e qui i topi medesimi, loro abitatori naturali, non ci vanno altrimenti che a guazzo. Se vi pigliasse il desiderio di visitarli, accettate il nostro consiglio di farvi portare in collo dai serventi addetti a que’ sotterranei lavori, ed anche d’indossar vestimenta le quali non abbiano più da servirvi sulla faccia della terra.
Il primo di tutti (non già per ordine gerarchico, ma per ordine topografico) ha origine dal fossato di Sant’Ugo, là dalle parti dell’Arsenale di terra, e correndo sotto la piazza dell’Acquaverde e la Commenda di San Giovanni di Prè, attraversa la via Carlo Alberto, per metter foce in mare nel seno di Santa Limbania, di quella santa che ha comune coll’ottimo San Torpete la cittadinanza genovese, e la vergogna di non trovare anima nata che voglia portare il suo nome. Qual è, nella città dei Baciccia e delle Marinin, la donna che si chiami Limbania, e l’uomo che si chiami Torpete? I due poveri santi non hanno divoti; ma in forma di compenso, e diremmo quasi di elemosina, San Torpete ebbe una chiesuola e Santa Limbania un seno; seno di mare, s’intende, sulla sponda occidentale del porto.
Il secondo canale nasce alle spalle dell’albergo dei Poveri in Carbonara, e passandogli tra le fondamenta, scende sotto la piazza dell’Annunziata, sotto quella delle Fontane, sotto la porta dei Vacca e va a scaricarsi in mare sotto il magazzino dei Salumi.
Il terzo, nel quale siamo ora avventurati noi, sulle orme del Guercio, dall’alto di via Gambaro, all’ingresso di via Nuova; di là per le viscere di piazza del Ferro, dei Macelli, di Soziglia, di via degli Orefici, di piazza de’ Banchi (tutti luoghi ne’ quali non raccoglie oro per fermo) va a sgabellare la sua mercanzia sotto il palazzo della Dogana.
Il quarto e il quinto, a dir vero, non la durano a lungo divisi. Scendono da via Assarotti e da via Palestro; si vedono, s’amano e si maritano clandestinamente sotto gli archi dell’Acquasola. Di qui, rasentando le case di via San Giuseppe (più conosciuta sotto il vernacolo nome di Crosa del Diavolo) la felicissima coppia scorre sotto il braccio sporgente dell’ospedale di Pammatone, e difilata per Portoria, Rivo torbido, i Lanaiuoli, i Servi e la piazza della Marina, va a nutrire con paterna cura i suoi figli adottivi, che sono (il lettor genovese l’ha già indovinato) i mùggini punto schifiltosi del cosiddetto Seno di Giano: un seno accecato, pur troppo, dal bisogno di una strada a mare, che ha pur sottratto all’amore dei Genovesi l’indimenticabile scoglio Campana.
Genova sotterranea possiede anche la sua storia, se non chiara per avventura come quella della sua sovrastante sorella, certo meno oscura di quello che si potrebbe argomentare dai suoi foschi rigiri. Negli annali di questa storia tenebrosa un’impresa che andava tentando il Guercio con parecchi suoi degnissimi aiuti, non era nuova nè strana, e gli scrittori delle cose nostre ricordano le scoverte fatte, nei secoli scorsi, di audaci furfanti, i quali per lavorare più sicuramente avevano messo dimora nelle chiaviche, e taluni, allogati per l’appunto sotto la piazza della Nunziata, dormivano alla guisa dei marinai su ranci sospesi alla vôlta. Inoltre i contrabbandieri, i frodatori delle gabelle, ebbero sempre per le chiaviche una tenerezza particolare. Parecchi dei loro anditi furono chiusi ai tempi dei nostri vecchi; quello, ad esempio, che di sotto alla piazza di Sarzano metteva al monastero di San Silvestro. E non è molto che un altro (e non certamente l’ultimo) ne fu scoperto ed asserragliato, il quale da un certo luogo della città andava a far capo nel Portofranco.
Se poi da questa geldra c’innalziamo allo stuolo degli illustri orditori di congiure, troviamo più nobili ragioni di celebrità per queste vie nascoste di Genova. Per una di esse il Raggi intese a penetrare dalle sue case nel palazzo Ducale, volendo mutar con ardito tentativo il reggimento della cosa pubblica. Per un’altra, ancora in parte conservata, il conte di Lavagna introdusse il nerbo dei suoi partigiani in città, ai danni del fortunato Andrea Doria. Infine, che diremo di più? Genova sotterranea aspetta tuttavia un cronista volenteroso; la mèsse è abbondante ed intatta.
E intatta e abbondante era quella che il Guercio si riprometteva da certi suoi scavi sotto la via degli Orefici. La sua pensata era questa: sforacchiare il terreno sotto una delle case che fiancheggiano la via, e, la mercè di un buco verticale nel pavimento, penetrare in una ricca bottega d’orefice: quindi in una notte, senza tema dei vigili, al coperto dalle sentinelle (excubiarum securus), far repulisti nella custodia e nelle bacheche del mercatante.
I suoi manovali erano da parecchi giorni all’opera, sotto la vigilanza dell’Architetto; che così era chiamato per celia il compare che aveva misurate le distanze e disegnato il luogo dove occorreva aprire la breccia. E quel luogo era appunto al confluente di un cunicolo laterale colla chiavica maggiore. Il cunicolo, che era stretto e quasi impraticabile, rispondeva ad un vicolo sovrastante, e rasentava le fondamenta della insidiata bottega. Ci si lavorava a disagio, e bisognava darsi il cambio; ma il lavoro andava innanzi pur sempre, e in capo a cinque o sei giorni l’impresa poteva essere condotta a buon fine.
Il Guercio, che abbiamo lasciato sul primo tratto del sotterraneo, giunse facilmente sotto la latitudine dei Macelli di Soziglia. Qui, occorrendo la parte piana della città, egli incominciò a diguazzare nel pantano; ma vuolsi notare che, pratico dei luoghi, egli aveva avuta la precauzione di cavarsi le scarpe e i calzoni, per guadare lo Stige. Qua e là per le ruvide pareti scorrazzavano topi dalle lunghe basette e dalle lunghissime code, parecchi dei quali, mal potendo aggrapparsi alle scabrezze dei muri, davano tonfi romorosi nella poltiglia, facendogli schizzare larghe e frequenti pillacchere sul viso. Buio aveva dinanzi a sè, e buio alle spalle; la luce della sua lanterna rischiarava un breve tratto dintorno, e le ragnatele, pendenti dalla bassa volta in larghi festoni, non davano comodità dì riverbero. Egli pareva un punto luminoso, un fuoco fatuo, che errasse frammezzo alle tenebre.
Come fu giunto sotto Soziglia, dove il canale si piega leggermente verso gli Orefici, si fermò, trasse fuori uno zufolo e mise un fischio sottile, ripetuto tre volte. Tre fischi gli risposero tosto; uditi i quali, il Guercio si rimise la via tra le gambe. Due minuti dopo, egli era dinanzi, alla luce d’un falò, la cui fiamma lambiva ed affumicava la volta umidiccia, e intorno a cui stavano accoccolati i suoi cinque compagni, veri ceffi da galera che non istaremo a descrivervi.
- Finalmente! - gridò uno di costoro. - Noi ti facevamo già in catorbia.
- E perchè mo’? - chiese il Guercio, in quella che spegneva la lanterna e se la riponeva in tasca. - In catorbia ci vanno i ladri, e non la brava gente come noi.
- Capisco; - soggiunse l’altro, - ma quei del pennacchio fanno errore così spesso!
- La prima causa dell’errore sono quei tali che hanno fatta la legge; - sentenziò il Guercio, sedendosi accanto ai compagni e levando la pipa di bocca al più vicino per mettersela tra i denti egli stesso. - Quando comanderò io, farò un codice nuovo che dica: sono ladri tutti quelli che hanno quattrini. Infatti, io ragiono così: se hanno denari, in qualche luogo li hanno presi: ora chi prende ruba; dunque....
- Benone! - interruppe un altro. - Tu parli come il mio avvocato, che, se gli davano retta i signori del berrettone, non andavo a passar tre anni nel collegio di Oneglia. Ma già, quei signori non badano mai a quello che dice un galantuomo, e legano sempre l’asino dove vuole il Fisco.
- O non lo sai, imbecille, che lupo non mangia lupo? Ma basta! tornando al discorso che non avevo ancora incominciato, domani a sera si fa il colpo.
- Impossibile! - gridò l’Architetto, o, per dir meglio, quel che i compagni chiamavano con quel nome. - In quella maledetta buca non ci si può lavorare più di due per volta, i vorranno almeno sei giorni....
- E chi ti parla della buca? - ripigliò il Guercio. - Parlo dell’altro colpo, di quello che v’ho detto una settimana fa, pel quale, da ladri che sembriamo, diventeremo carabinieri.
- Ah sì, ottimamente! - esclamò uno dei cinque. - E in cambio di lasciarci ammanettare, ammanetteremo.
- No, Bellavista, non ci saranno manette da mettere.
- E che diamine ci sarà dunque da fare? - dimandò il Bellavista. - Io non so che facciano altro, quei del pennacchio.
- Perchè tu li conosci soltanto da quello che hanno fatto a te; - rispose il Guercio tra le risa della brigata; - ma essi, te lo so dir io, fanno altro ed altro, che ti bisognerà imparare, prima di metterti all’opera.
- Sentiamo dunque! - disse il Bellavista.
- Incomincio. Domani a sera, verso le nove, si va (alla spicciolata, s’intende) in casa Ceretti, qui presso a via Luccoli. Il Ceretti tu devi conoscerlo, tu Architetto, che sei stato muratore.
- Se lo conosco! È mastro Nicola, di Molassana, quegli che ha trovato due pentole di genovine in un ripostiglio di muro che stava rompendo, e non ne ha detto nulla al principale....
- Sì, lui, per l’appunto.
- Ci ha da esser denari a palate, in casa sua! - proseguì il Bellavista.
- Certo; - disse il Guercio, - ma per questa volta bisognerà sputarne la voglia. In casa del Ceretti ci si va per la mascherata, e nient’altro.
- O come? - dimandò l’Architetto. - Mastro Nicola ci tiene il sacco!
- Non egli, che è in villa, ma il suo figliuolo. Io non so nulla e non ho cercato di saper nulla; ma mi sembra di avere indovinato che questo giovanotto l’abbia a morte con un suo pigionale, certo Salvini, Salvetti o che so io, e lo voglia colle nostre mani, vestire da angelo.... mi capite? fargliene una da coltellate. Domani a sera scoppia la rivoluzione....
- Parli sul serio? - interruppe il Bellavista, mentre gli altri inarcavano le ciglia.
- Sicuro; ma questo non risguarda noi altri. In questi pasticci non c’è nulla da guadagnare. Ora questo Salvetti, Salvini, od altro che sia, è un uomo che pesca nel torbido, e domani a sera sta fuori di casa. Noi, col pennacchio in testa e la divisa a coda di rondine, andiamo in casa, dove c’è una ragazza sola con un servitore, ci spacciamo per carabinieri mandati a fare una perquisizione, rovistiamo nella camera del nostro uomo, e portiamo via certi documenti che devono trovarsi in una cassettina d’ebano; la qual cassettina è in un cassettone a destra entrando, nella seconda cassetta, in un angolo a sinistra. Vedete che conosco il fatto mio. La Giustizia è bene ragguagliata, non fo per dire. Ci becchiamo la cassettina: salutiamo la signora chiedendole scusa del disturbo, scendiamo al primo piano, ci vestiamo da capo dei nostri panni, e ce ne andiamo pe’ fatti nostri. Il colpo non è male architettato. Che ne dici tu, Architetto?
- Io dico, - rispose l’Architetto, - che a questa fabbrica mancano le chiavi.
- O come?
- Mancano, ti dico, e te lo provo. Noi, stando a quel che ci hai posto in chiaro, lavoriamo per la gloria.
- Ah, capisco! - disse il Guercio ridendo. - Io avevo dimenticato l’essenziale. Accanto alla gloria c’è una lasagna bianca, di quelle che si fabbricano in via San Lorenzo.
- Mille lire?
- Sì, certo, mille lire; e notate, - soggiunse il Guercio, volgendosi alla brigata, - che le guadagniamo senza risico, a mo’ di passatempo, in mezz’ora di mascherata.
- Sta bene, sta bene; - ripigliò l’Architetto. - Ma quando la si vede, questa lasagna bianca?
- Nell’atto di consegnare la cassettina; non sei contento?
- Ah, meno male, questo si chiama ragionare. E adesso facciamo un pochino di divisione. Tu, come capo....
- Mi contenterò di cinquecento lire; - disse il Guercio. L’esorbitanza delle sue pretensioni gli fece buon servizio2, perchè gli altri diedero tutti nella pania.
- Ah, Guercio! - gridarono in coro. - Tu non sei ragionevole!
- Orbene, quattrocento, e crepi l’avarizia! Io sono un buon diavolo, e voglio farvi vedere che non tengo al danaro.
- No, no! - ripigliarono parecchi. - È troppo.
- Sta bene, - soggiunse il Bellavista, - che tu sia il manipolatore del negozio; ma quattrocento lire....
- No, no; - incalzarono gli altri, - tu vuoi troppo per la tua porzione. Perchè non dire recisamente: voglio tenermi la somma intiera?
- Ma io.... - si provò a dire candidamente il Guercio. Non sono il capo, io?
- Zitto, là! - gridò l’Architetto, dando sulla voce a lui e agli altri che volevano rimbeccarlo. - Lasciate che io pure metta fuori la mia. Se parlate tutti in una volta non riusciremo mai ad intenderci.
- Sì, parla tu! parli l’Architetto!
- Benone! - ripigliò questi, contento del trionfo ottenuto. Ditemi ora, non par giusto a voi che il Guercio, come capo e come manipolatore del negozio, abbia qualcosa di più?
- Certamente! - entrò a dire il Bellavista. - E mi pare che centocinquanta lire....
- No; facciamo la somma rotonda; mettiamo dugento.
- E vada anche per dugento! - disse il Guercio, coll’aria di un uomo che fa un grande sacrifizio. - Io non voglio romper l’amicizia per questa miseria. Dugento lire a me, e centocinquanta al maresciallo!
- Che maresciallo? chi è questo maresciallo? - chiesero i compagni stupefatti.
- Oh bella! non capite che un drappello di carabinieri ha da averci il suo comandante? O come andremmo noi a fare una perquisizione, senza maresciallo?
- Ha ragione, perdiana! - dissero gli altri, guardandosi in faccia.
- Ha ragione, sicuro! - aggiunse il Bellavista. - Ma chi sarà il maresciallo?
- Non io certamente, col mio occhio traditore; nè tu Bellavista, che sei mingherlino come una lucertola.
- Mettiamo dunque l’Architetto! - gridò uno della brigata. - Mettiamolo lui, che sembra il figliuolo della Madonna del Gazzo.
- Sì, sì, l’Architetto! - risposero tutti, ridendo a crepapelle.
- Sarò io, chetatevi, sarò io! - disse gravemente l’eletto.
- Ma badate! il maresciallo vuol doppia razione. Datemi dunque dugento lire; se no, cedo l’onore ad altri. Io sono stanco di gloria, e se non viene la paga doppia, mi contento del grado di semplice carabiniere.
- Il diavolo si porti l’Architetto! Vuol quello che vuole.
- Ma.... io non vi cerco! Siete voi altri che volete innalzarmi, non io. Mi volete grande e grosso? Pagatemi. Non vi par che io ragioni a modo?
- Come un libro stracciato; - soggiunse il Bellavista.
- Abbiti dunque le dugento lire; seicento che rimangono salve dalle vostre unghie, le spartiremo tra noi quattro.
- E lagnati ancora, manigoldo! Vi buscate centocinquanta lire a testa, e non siete contenti? Che cosa vorreste ancora? Se io le avessi ogni giorno, e lavorando un’ora sola, mi parrebbe d’esser più ricco dei Parodi, e vorrei che passando da’ Banchi tutti mi facessero largo e si cavassero il cappello, come quando passa qualche ladro dei grossi....
- Hai ragione! hai ragione! finiscila dunque! - interruppero i colleghi.
- E adesso che ci siamo intesi, - soggiunse il Bellavista, - beviamone un bicchiere alla salute del maresciallo. -
La proposta fu accolta all’unanimità. Uno della brigata diè di piglio alla damigiana che stava lì presso, e versò il vino nei bicchieri, che corsero in giro parecchie volte, tra gli evviva più sperticati e più strani al collega Architetto.
Il Guercio se la rideva sotto i baffi, perchè, non mettendo in conto l’orologio e la catenella del suo tenore col tremolo, quella sera guadagnava milleduecento lire senza molta fatica.
L’Architetto, dal canto suo, se si faceva pagare per due, sapeva bere all’occorrenza per quattro. E così fece quella sera; se pure non è più giusto il dire che bevve per sei. Tanto per quella sera il lavoro era interrotto, e non si doveva ripigliare se non la mattina, allorquando il frastuono della via soprastante avrebbe soffocato il rumore monotono e traditore dei loro picconi. E il nostro Architetto, reso eloquente dal vino, raccontò candidamente ai colleghi che il sogno della sua vita era stato mai sempre di essere carabiniere, anzi carabiniere a cavallo. E d’essere carabiniere e di trottare in corrispondenza da una stazione all’altra, sognò veramente un’ora dopo, quando il vino, facendo il suo effetto, lo ebbe dato per morto in braccio a Morfeo.
Forse in quell’ora medesima, un vero carabiniere, disteso nel suo letticciuolo, sognava di aver vinto una quaderna al lotto, e di non portar più il pennacchio rosso e cilestro.
Ahimè! Nessuno è contento del suo stato, in questa valle di lagrime!