I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XXXVIII
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CAPITOLO XXXVIII.
Una bella sera, Agnese sente un legno fermarsi alla porta. — È ella, senz’altro!— Era ella proprio, colla buona vedova: le accoglienze vicendevoli se le imagini il lettore.
Il mattino seguente, capita Renzo di buon’ora, ignaro dell’accaduto, e senz’altro disegno che di sfogarsi un po’ con Agnese su quel tanto tardare di Lucia. Gli atti ch’ei fece e le cose che disse, al trovarsela in prospetto, si rimettono pure alla imaginazione del lettore. Le dimostrazioni di Lucia a lui furono tali, che non ci vuol molto a renderne conto. “Vi saluto: come state?” diss’ella cogli occhi bassi, e senza scomporsi. Nè crediate che Renzo trovasse quel modo troppo asciutto, e se ne avesse a male. Prese benissimo la cosa pel suo verso; e, come fra gente educata si sa far la tara ai complimenti, così egli capiva benissimo che cosa si dovesse sottintendere a quelle parole. Del resto, era facile accorgersi ch’ella aveva due maniere di porgerle; una per Renzo, e un’altra per tutta la gente ch’ella potesse conoscere.
“Sto bene quando vi vedo,” rispose il giovane, con una frase a stampa, ma che avrebbe inventata egli in quel momento.
“Il nostro povero padre Cristoforo...!” disse Lucia “pregate per l’anima sua: sebbene si può esser quasi sicuri che a quest’ora egli prega per noi lassù.”
“Me l’aspettavo, pur troppo,” disse Renzo. Nè fu questa la sola corda di mesto suono che si toccasse in quel colloquio. Ma che? per qualunque soggetto si passasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come quei cavalli bisbetici, che s’impuntano e si piantano lì, e levano una zampa e poi un’altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie prima di dare un passo, e poi tutto a un tratto pigliano la carriera, e vanno quasi portati dal vento, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevano ore; adesso le ore gli parevano minuti.
La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma vi faceva dentro benissimo: nè Renzo, quando la vide in quel lettuccio, avrebbe mai potuto imaginarsela d’un umore così compagnevole e gaio. Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze non son mica tuttuno. Con Agnese ella aveva già fatta amicizia; con Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente e senza sforzare, quanto appena ci voleva per dar più anima ai suoi moti e alle sue parole.
Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio a prendere i concerti per lo sposalizio. V’andò, e, in una cert’aria di burla rispettosa, “signor curato,” gli disse: “le è poi andato via quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Adesso siamo a tempo; la sposa c’è: e son qui per sentire quando le sia comodo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto.”
Non già che don Abbondio rispondesse di non volere; ma cominciò a tentennare, a tirar fuori certe scuse, a far certe insinuazioni: e perchè mettersi in piazza e far gridare il suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi egualmente altrove; e questo e quest’altro.
“Ho capito,” disse Renzo: “ella ha ancora un po’ di quel mal di capo. Ma senta, senta.” E si fece a descrivere in che stato aveva veduto quel povero don Rodrigo; e che già a quell’ora doveva sicuramente essere andato. “Speriamo,” conchiuse, “che il Signore gli avrà fatto misericordia.”
“Questo non ci ha a che fare,” disse don Abbondio: ”v’ho io detto di no? Non dico di no io; parlo... parlo per buone ragioni. Del resto, vedete, fin che l’uomo ha fiato in corpo... Guardatemi me: sono una conca fessa; sono stato anch’io, più di là che di qua: e son qui; e.... se non mi vengono addosso dei disturbi.... basta...., posso sperare di starci ancora un pochetto. Figuratevi poi certi temperamenti. Ma, come dico, questo non ci ha che far nulla.”
Dopo un po’ d’altro dialogo nè più nè meno concludente, Renzo strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua brigata, fece la sua relazione e terminò con dire: “son venuto via, che ne era pieno, e per non risicare di perder la pazienza e di parlar male. In certi momenti, pareva proprio quello dell’altra volta; proprio quella mutria, quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un po’, mi tornava in campo con qualche parola in latino. Vedo che la vuol essere un’altra lunghiera: è meglio fare addirittura quel che dice egli, andare a maritarsi dove abbiamo da vivere.”
“Sapete che cosa faremo?” disse la vedova: “voglio che andiamo noi altre donne a a fare una prova anche noi, e vedere se ci troviamo un po’ più il bandolo. Così avrò anch’io il gusto di conoscerlo quest’uomo, se è proprio come dite. Dopo pranzo, voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso così subito. Adesso, signor sposo, menateci un po’ a spasso noi altre due intanto che Agnese è in faccende: chè a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia di vedere un po’ alla distesa queste montagne, questo lago di cui ho a tanto inteso parlare; e il poco che ne ho già veduto mi pare una gran bella cosa.”
Renzo le condusse di primo tratto alla casa del suo ospite, dove fu un’altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel dì, ma ogni dì, se potesse, verrebbe a pranzare colla brigata.
Passeggiato, pranzato, Renzo sì partì subitamente, senza dire dove andasse. Le donne rimasero un pezzetto a confabulare, a concertarsi sul modo di pigliar don Abbondio; e finalmente andarono all’assalto.
— Son qui loro, — diss’egli tra se; ma fece buon viso: grandi rallegramenti con Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera. Le fece sedere; poi si gettò nel gran discorso della peste: volle sentire da Lucia come l’aveva passata in que’ guai: il lazzeretto porse opportunità di far parlare anche quella che le era stata compagna; poi, come era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca; poi dei gran mi rallegro con Agnese, che n’era uscita netta. La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane stavano alla vedetta, se mai venisse il bel tratto di far parola dell’essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma che volete? Don Abbondio non ci sentiva da quell’orecchia. Guarda che dicesse di no; ma eccolo di nuovo a quel suo tergiversare e volteggiare e andar di palo in frasca. “Bisognerebbe,” diceva, “poter far levare quella catturaccia. Ella, signora, che è da Milano, conoscerà più o meno il filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di peso: chè con questi mezzi si sana ogni piaga. Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacchè codesti giovani, e qui la nostra Agnese hanno già intenzione di spatriarsi (e io non so che dire: la patria è dove si sta bene), mi pare che si potrebbe far tutto là, dove non c’è bando che tenga. Non vedo proprio l’ora di saperlo conchiuso questo parentado, ma lo vorrei conchiuso bene, tranquillamente. Dico il vero: qui, con quella cattura viva, a spiattellar dall’altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio. Veda lei; vedete a voi.”
Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribattere quelle ragioni; don Abbondio a riprodurle sott’altra forma: s’era sempre da capo. Quand’ecco entra Renzo, con un andar risoluto, e con una notizia in faccia, e dice: “è arrivato il signor marchese ***.”
“Che vuol dir questo? Arrivato dove?” domanda don Abbondio, levandosi.
“È arrivato nel suo palazzo, che era quello di don Rodrigo; perchè questo signor marchese è l’erede per fidecommisso, come dicono; sicchè non c’è più dubbio. Per me, ne sarei contento se potessi sapere che quel pover’uomo fosse morto bene. A buon a conto, finora ho detto per lui de’ paternostri, adesso, gli dirò dei De profundis. E questo signor marchese è un bravissim’uomo.”
“Sicuro,” disse don Abbondio: “l’ho sentito nominare, più d’una volta per un bravo signore davvero, per un uomo della stampa vecchia. Ma che sia proprio vero...?”
“Al sagrestano gli crede?”
“Perchè?”
“Perchè egli l’ha veduto co’ suoi occhi. Io sono stato solamente lì nel contorno, e, a dir la verità, vi sono andato appunto perchè ho pensato: qualche cosa là si dovrebbe sapere. E più d’uno e di due mi hanno contato la cosa. Ho poi scontrato Ambrogio, che veniva proprio di lassù, e che lo ha veduto, come dico, far da padrone. Lo vuol sentire, Ambrogio? L’ho fatto aspettar qui fuori apposta.”
“Sentiamo,” disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano. Questi confermò la cosa di punto in punto, v’aggiunse altri particolari, sciolse tutti i dubbii; e poi se ne andò.
“Ah! è morto dunque! è proprio andato!” sclamò don Abbondio. “Vedete, figliuoli, se la Providenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! chè non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa pestilenza; ma l’è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, disposti; bisognava dire che chi era destinato a far loro le esequie, si trovava ancora in seminario, a fare i latinucci. E in un batter d’occhio sono spariti, a cento alla volta. Non lo vedremo più andare attorno con que’ tagliacantoni dietro, con quell’albagìa, con quella puzza, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, egli non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quelle imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.”
“Io gli ho perdonato di cuore,” disse Renzo.
“E fai bene: è tuo dovere,” rispose don Abbondio: “ma si può anche ringraziare il cielo, che ce ne abbia liberati. Ora, venendo a noi, io vi torno a dire: fate voi quel che credete. Se volete ch’io vi mariti io, son qui; se vi torna più comodo altrimenti, fate voi. Quanto alla cattura, vedo anch’io che, non ci essendo adesso più nessuno che vi tenga di mira e voglia farvi del male, non è cosa da pigliarsene gran fastidio: massime che c’è stato di mezzo quel decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante. E poi la peste! la peste! ha dato di penna a di gran cose la peste! Sicchè, se volete.... oggi è giovedì.... domenica vi dico in chiesa; perchè quel che si è potuto fare altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e poi ho la consolazione di maritarvi io.”
“Ella sa che eravamo venuti appunto per questo,” disse Renzo.
“Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua eminenza.”
“Chi è sua eminenza?” domandò Agnese.
“Sua eminenza,” rispose don Abbondio, “è il nostro signor cardinale arcivescovo, che Dio conservi.”
“Oh, in questo mi scusi,” replicò Agnese: “chè, sebbene io sia una povera ignorante, le posso certificare che non gli si dice così; perchè, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo a lei, a uno di quei signori preti mi tirò da parte, e m’insegnò come si doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria illustrissima, e monsignore.”
“E adesso, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato dell’eminenza: capite mo? Perchè il papa, che Dio lo conservi anche lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia questo titolo. E sapete perchè sarà venuto a questa risoluzione? Perchè l’illustrissimo, che era per loro e per certi principi, adesso vedete anche voi, che cosa è diventato, a quanti si dà: e come se lo succiano su volentieri! E che volevate fare? Toglierlo a tutti? Richiami, rancori, guai, dispetti, e per soprappiù continuar come prima. Dunque il papa ha trovato un bonissimo ripiego. A poco a poco poi si comincerà a dar dell’eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli abati, poi i prevosti: perchè gli uomini son fatti così; sempre vogliono andare innanzi, sempre innanzi: poi i canonici...”
“E i curati?” disse la vedova.
“No no,” riprese don Abbondio: “i curati a tirar la carretta: non abbiate paura che gli avvezzino male i curati, del reverendo, fino alla fine del mondo. Piuttosto, non mi stupirei che i cavalieri, i quali sono assuefatti a sentirsi dar dell’illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un bel giorno volessero dell’eminenza anche loro. E se la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa che si troverà allora, penserà qualche altra cosa pei cardinali. Orsù, torniamo al fatto nostro: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete che cosa ho pensato per servirvi meglio? Intanto domanderemo la dispensa per le altre due volte. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia a dar dispense, se la va da per tutto come qui. Per domenica ne ho già..... uno..... due..... tre; senza contarvi voi: e ne può capitare qualche altro. E poi in seguito, vedrete; c’è entrato il fuoco; non resterà uno scompagnato. Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire adesso; chè questa era la volta che trovava anch’ella il compratore. E a Milano, signora, mi figuro che a sarà lo stesso.”
“Proprio: la s’imagini che, solamente nella mia parrocchia, domenica passata, cinquanta matrimonii.”
“Se lo dico; il mondo non vuol finire. E a lei, signora, non ha cominciato a volarle attorno qualche moscone?”
“No, no; io non ci penso, nè ci voglio a pensare.”
“Sì, sì; che vorrà ella esser la sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese....”
“Uf! ella ha voglia di ridere,” disse questa.
“Sicuro che ho voglia di ridere: e mi pare che sia ora finalmente. Ne abbiamo passate delle brutte, neh? i miei giovani; delle brutte ne abbiamo passate: questi quattro dì che ci abbiamo a stare ancora, si può sperare che vogliano essere un po’ men tristi. Ma! fortunati voi, che, non accadendo disgrazie, avete un pezzo ancora da parlare dei guai andati! Io povero vecchio.... I birbi possono morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est morbus.”
“Adesso mo,” disse Renzo, “parli pur latino fin che vuole, che non mi fa niente.”
“Tu l’hai ancora col latino, tu: bene bene, t’aggiusterò io: quando mi verrai innanzi con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Eh?”
“Ah! che so io quel che dico,” ripigliò Renzo: “non è mica quel latino lì che mi fa paura: quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della messa: anche loro lì bisogna che leggano quel che è sul libro. Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a tradimento, nel buono d’un discorso. Per esempio, adesso mo che siamo qui, che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, qui proprio, in quel cantone, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva delle altre cose, e che so io, me lo tragga un po’ in volgare adesso.”
Taci lì buffone, taci lì: non rimescolar queste cose; chè, se dovessimo ora fare i conti, non so chi avrebbe a avere. Io ho perdonato tutto: non ne parliamo più: ma me ne avete fatti dei tiri. Di te non mi fa stupore, che sei un malandrinaccio; ma dico quest’acqua cheta, questa santarella, che si sarebbe creduto far peccato a guardarsene. Ma già, so io chi l’aveva ammaestrata, so io, so io.” Così dicendo, appuntava e vibrava verso Agnese l’indice che prima aveva tenuto rivolto a Lucia: nè si potrebbe significare con che bonarietà, con che piacevolezza facesse quei rimproveri. Quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferire tutto il resto di quella conversazione, ch’egli prolungò, ritenendo più d’una volta la brigata pronta a partire, e fermandola poi ancora un pochetto in su l’uscio da via, sempre a parlar di bubbole.
Il dì seguente, gli capitò una visita quanto inaspettata tanto gradita; il signor marchese di cui s’era parlato: un uomo tra la virilità, e la vecchiezza, il cui aspetto era come un suggello di ciò che la fama diceva di lui: aperto, benevolo, placido, umile, dignitoso, e qualche cosa che indicava una mestizia rassegnata.
“Vengo,” diss’egli, “a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.”
“O che degnazione d’entrambi!”
“Quando fui a prender congedo da quest’uomo incomparabile, il quale mi onora della sua amicizia, mi parlò egli di due giovani promessi sposi di codesta parrocchia, che hanno avuto a soffrire per causa di quel poveretto di don Rodrigo. Monsignore desidera di averne notizia. Son vivi? E le a loro cose sono elle aggiustate?”
“Aggiustato ogni cosa. Anzi, io m’era proposto di scriverne a sua eminenza; ma ora che ho l’onore....”
“Si trovan essi qui?”
“Qui; e il più presto che si potrà, saranno marito e moglie.”
“E io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche d’insegnarmi il modo più convenevole. In questa calamità, io ho perduto i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho fatte tre eredità considerabili. Del superfluo ne avevo anche prima: sicchè ella vede che il darmi una occasione d’impiegarne, e massime una come questa, è rendermi veramente a un servigio.”
“Il cielo la benedica! Perchè non sono tutti come lei i...? Basta; io la ringrazio anch’io di cuore per questi miei figliuoli. E giacchè vossignoria illustrissima mi dà tanto animo, signor sì che ho uno spediente da suggerirle, il quale forse non le dispiacerà. Sappia dunque che questa buona gente son risoluti d’andare ad accasarsi altrove, e di vendere quel poco che hanno al sole qui: una vignetta il giovane, di nove o dieci pertiche, salvo il vero, ma abbandonata, imboschita affatto: bisogna far conto dello spazio, nient’altro; di più una casetta egli, e un’altra la sposa: due topaie, veda. Un signore come vossignoria non può sapere come la vada pei poveri, quando sono a quello di dover disfarsi del loro. Finisce sempre ad andare in bocca di qualche furbo, che, se dà il caso, farà da un pezzo l’amore a quel luoghetto, e quando sa che l’altro ha bisogno di vendere, si ritira, fa lo svogliato; bisogna corrergli dietro e darglielo per un pezzo di pane: massime poi in circostanze come queste. Il signor marchese ha già veduto dove vada a parare il mio discorso. La carità più fiorita che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli da questa stretta, comperando quel poco fatto loro. Io, a dir vero, ci ho dentro il mio interesse, il mio guadagno, che vengo ad acquistare nella mia parrocchia un compadrone come il signor a marchese; ma vossignoria deciderà secondo che le parrà: io ho parlato per obedire.”
Il marchese lodò assai il suggerimento, ne rendette grazie, pregò don Abbondio di voler essere arbitro del prezzo, e d’imporlo esorbitante, e colmò la maraviglia di lui, col proporgli che si andasse tosto insieme a casa della sposa, dove sarebbe probabilmente anche lo sposo.
Per via, don Abbondio, tutto gongolante come potete imaginare, ne pensò e ne disse un’altra. “Giacchè vossignoria illustrissima è tanto inclinata a far del bene a questa gente, ci sarebbe un altro servigio da render loro. Il giovane ha addosso una cattura; una specie di bando, per qualche scappuccio che ha fatto in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s’è trovato dentro, senza malizia, da ignorante, come un sorcio nella trappola: niente di serio, veda: ragazzate, cervellinaggini: di fare un male proprio è incapace: e posso dirlo; chè l’ho battezzato io, e l’ho veduto venir su: e poi, se vossignoria vuol pigliarsi spasso, come sovente ne hanno i signori a udir questa povera gente ragionar su alla carlona, potrà fargli contare la storia a lui, e sentirà. Adesso, trattandosi di cose vecchie, nessuno gli dà molestia; e, come ho detto, egli pensa di andarsene fuori stato; ma, col tempo, o tornando qui o altro, non si sa mai, lei m’insegna ch’è sempre meglio trovarsi netto. Il signor marchese, in Milano, conta, come è dovere, e per quel gran cavaliere, e per quel grand’uomo che è... No, no, mi lasci dire; chè la verità vuole avere il suo luogo. Una raccomandazione, una parola d’un par suo è più che non bisogna, per ottenere una buona assolutoria.”
“Non c’è impegni forti contro codesto giovane?”
“Oibò, oibò; non crederei. Gli hanno fatto fuoco addosso al primo momento; ma ora credo che non ci sia più altro che la semplice formalità.”
“Così essendo, la cosa sarà facile; e la piglio volentieri sopra di me.”
“E poi non vorrà che si dica ch’è un grand’uomo. Lo dico, e lo voglio dire; a suo dispetto lo voglio dire. E se io tacessi anche, già non servirebbe a nulla, perchè parlano tutti: e vox populi, vox Dei.”
Trovarono appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, pensatelo: io mi credo che anche quelle nude e scabre pareti, e le impannate e i deschetti e le stoviglie si maravigliassero di ricevere fra loro un ospite così straordinario. Animò egli la conversazione, parlando del cardinale e delle altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicata misura. In breve venne alla proposta. Don Abbondio pregato da lui di pronunziare il prezzo, si fece innanzi; e, dopo un po’ d’atti e di scuse, e che non era sua farina, e che non potrebbe altro che andare a tentone, e che parlava per obedienza, e che se ne rimetteva, proferì, al parer suo, uno sproposito. Il compratore disse che, per la parte sua, egli era contentissimo, e, come se avesse franteso, ripetè il doppio; non volle sentire di rettificazioni, e troncò e conchiuse ogni discorso convitando la brigata a pranzo pel dì dopo le nozze, al suo palazzo, dove si farebbe l’istrumento in regola.
— Ah! — diceva poi tra sè don Abbondio, tornato a casa: — se la peste facesse sempre e da per tutto le cose a questo modo, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una a ogni generazione; e si potrebbe stare a patti di fare una malattia. —
Venne la dispensa, venne l’assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono con sicurezza trionfale proprio a quella chiesa, dove proprio per bocca di don Abbondio furono sposi. Un altro trionfo e ben più singolare fu, il dì appresso, l’andata a quel palazzotto; e vi lascio considerare che cose dovessero passar loro per la mente in salir quell’erta, all’entrare per quella porta; e che discorsi dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo all’allegria, or l’uno or l’altro menzionò più d’una volta, che, per compier la festa, vi mancava il povero padre Cristoforo. Ma per lui, dicevano poi, “sta meglio di noi sicuramente.”
Il signore fe’ loro gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi con Agnese e con la cittadina; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle assistere a un po’ di quel primo convito, e aiutò anzi a servire. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stato cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come ora si direbbe; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. Ne aveva abbastanza per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d’un dottore, il quale non fu l’Azzecca-garbugli. Questi, voglio dire la sua spoglia, era ed è tuttavia a Canterelli. E per chi non è di quelle parti, capisco anch’io che qui ci vuole una spiegazione.
Al di sopra di Lecco forse un mezzo miglio, e quasi in sul fianco dell’altro paese chiamato Castello, è un sito detto Canterelli, dove s’incrocicchiano due strade; e all’un canto del crocicchio, si vede un rialto, come un poggetto artificiale, con una croce in cima; il quale non è altro che un gran mucchio di morti in quel contagio. La tradizione, per verità, dice semplicemente i morti del contagio; ma debb’esser quello senz’altro, che fu l’ultimo e il più micidiale di cui resti memoria. E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, per sè dicon sempre troppo poco.
Nel ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po’ incomodato dal peso dei soldi che portava via. Ma l’uomo, come sapete, aveva fatte ben altre male vite. Non parlo del travaglio della mente, che non era picciolo, a pensar del modo migliore di farli fruttare. A vedere i progetti che passavano per quella mente, le fantasie, i dibattimenti; a sentire i pro e i contro, per l’agricoltura e per l’industria, egli era come se vi si fossero incontrate due accademie del secolo passato. E l’affare per lui era ben più pressante e più impacciato; perchè, essendo egli un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c’è di scegliere?: l’uno e l’altro, in buon’ora; chè i mezzi, in sostanza, sono i medesimi; e son due cose come le gambe, che due vanno meglio d’una sola.
Non si pensò più che a fare i fagotti, e a mettersi in viaggio, casa Tramaglino per la nuova patria, e la vedova per Milano. Le lagrime, i ringraziamenti, le promesse di andarsi a trovare furon molte. Non meno tenera, dalle lagrime in poi, fu la separazione di Renzo e della famiglia dall’ospite amico: nè crediate che con don Abbondio le cose passassero freddamente. I tre poveretti avevano sempre conservato certo attaccamento rispettoso al loro curato; e questi, in fondo, aveva sempre voluto lor bene. Sono quei benedetti affari che imbrogliano gli affetti.
Chi domandasse se non vi fu anche del dolore in distaccarsi dal paese natìo, da quelle montagne; certo che ve n’ebbe: chè del dolore, ce n’è, sto per dire, un po’ da per tutto. Convien però credere che non fosse molto forte, giacchè avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grandi inciampi, don Rodrigo e il bando, erano tolti. Ma già da qualche tempo erano avvezzi tutti e tre a risguardar come loro il paese a cui andavano. Renzo l’aveva fatto parer buono alle donne, raccontando le agevolezze che vi trovavano gli operai, e cento cose del bel vivere che vi si faceva. Del resto avevan tutti passato dei momenti ben amari in quello a cui volgevano le spalle; e le memorie triste finiscono sempre a guastare nella mente i luoghi che le richiamano. E se quei luoghi sono i natii, c’è forse in tali memorie qualche cosa di più aspro e pugnente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della nutrice, cerca con avidità e con fiducia la poppa che lo ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la nutrice, per divezzarlo, la intigne d’assenzio, il bambino ritrae il labbro, poi torna a provare, ma finalmente ne rifugge; piangendo sì, ma ne rifugge.
Che direte mo ora, udendo che, appena giunti, e allogati nel nuovo paese, Renzo vi trovò dei disgusti begli e preparati? Miserie; ma basta così poco a disturbare uno stato felice! Ecco in breve la cosa.
Il parlare che quivi s’era fatto di Lucia, buon tempo prima ch’ella vi arrivasse; il sapere che Renzo le aveva tanto penato dietro, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per ogni cosa sua, avevano fatta nascere una certa curiosità di veder la giovane, e una certa aspettazione della sua bellezza. Ora sapete com’è l’aspettazione: imaginosa, corriva, sicura; alla prova poi, difficile, sdegnosa: non trova mai il suo conto, perchè, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa pagare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevano forse che ella dovesse aver le chiome proprio d’oro, e le guance proprio di rosa, e due occhi l’uno più bello dell’altro, e che so io? cominciarono a levar, le spalle, ad arricciare il naso e a dire: “è ella questa? Dopo tanto tempo, dopo tanto parlare, s’aspettava altra cosa! Che è poi? Una contadina come tante altre. Eh! per di queste e delle meglio, ce n’è da per tutto.” Venendo poi ai particolari, notavano chi un difetto chi un altro: nè mancarono di quelli che la trovavano tutta brutta.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo queste cose; così non c’era gran male fin lì. Chi lo fece il male, chi allargò lo sdruscito, furono certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete?, gliene seppe amaro assai. Cominciò a ruminarvi sopra, a farne di gran piati, e con chi gliene parlava, e più a lungo nel suo sè. — E che cosa ne importa a voi? E chi vi ha detto di aspettare? Sono io mai venuto a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi, v’ho io mai risposto altro, se non ch’ell’era una buona giovane? È una contadina! V’ho io detto mai che vi avrei menato qui una principessa? Vi dispiace? Non la guardate. Ne avete delle belle donne: guardate quelle. —
E vedete un po’ come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato d’un uomo per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, conforme al primo disegno, l’avrebbe fatta poco bene. A forza d’esser disgustato, era ormai divenuto disgustoso. Era sgarbato con tutti, perchè ognuno poteva essere un dei critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il galateo; ma sapete quante belle cose si ponno fare senza offender le regole della buona creanza: fino a sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni suo tratto; in tutto trovava anch’egli da criticare: basti che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito, subito egli diceva: “eh già, in questo paese!” Vi dico ch’egli era già venuto in tasca a un certo numero di persone, anche a di quelle che prima gli volevano bene; e col tempo, d’una cosa in altra, si sarebbe trovato, per così dire, in istato di ostilità con tutta quasi la popolazione, senza poter forse egli stesso assegnare la prima cagione, conoscer la radice d’un tanto male.
Ma si direbbe che la peste avesse preso l’impegno di racconciar tutte le malefatte di costui. Aveva essa portato via il padrone d’un altro filatoio situato quasi in sulle porte di Bergamo; e l’erede, un giovane scapigliato, che in tutto quell’edificio non trovava che vi fosse nulla di divertente, era deliberato, anzi desideroso di vendere anche a mezzo prezzo; ma voleva i danari l’uno in su l’altro, per poterli impiegar subito in consumazioni improduttive. Venuta la cosa agli orecchi di Bortolo, corse egli a vedere; trattò: patti più grassi non si sarebbero potuti sperare; ma quella condizione dei pronti contanti guastava tutto, perchè il suo peculio, composto lentamente di risparmii, era ancor lontano da arrivare alla somma. Tenne l’amico così in mezza parola, se ne tornò in fretta, comunicò l’affare al cugino e gli propose di farlo in società. Un così bel partito troncò le dubitazioni economiche di Renzo, che si risolvette tosto per l’industria, e disse di sì. S’andò insieme; e si conchiuse l’accordo. Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro, Lucia, che non era quivi aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a sapere che s’era detto da più d’uno: “avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta?” L’epiteto faceva passare il sostantivo.
E anche del disgusto ch’egli aveva provato nell’altro paese, gli restò un utile ammaestramento. Prima d’allora era stato un po’ avventatello nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticare la donna d’altri, e ogni cosa. Allora capì che le parole fanno un effetto nelle bocche, e un altro nelle orecchie; e prese un po’ più d’abitudine di ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle.
Non vi deste però ad intendere che non vi fosse qualche fastidiuccio anche qui. L’uomo, (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova ch’egli aveva un gusto un po’ strano in lato di similitudini; ma comportategli anche questa, che avrebbe a esser l’ultima) l’uomo, fin che sta a questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben assettati al di fuori, piani, a livello; e si figura che debba essere un giacervi soave. Ma se riesce a cambiare; appena s’è allogato nel nuovo, comincia, premendo, a sentire, qui uno stecco che punta in su, lì una durezza: siamo in somma, a un di presso alla storia di prima. E per questo, soggiugne egli, dovremmo pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. La è tirata un po’ cogli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione. Per altro, continua egli ancora, dolori e impigli della qualità e della forza di quelli che abbiamo narrati, pon ve n’ebbe più per la nostra buona gente: fu da quel punto in poi una vita delle più placide, delle più felici, delle più invidiabili; talchè, se ve l’avessi a contare, vi seccherebbe a morte.
I negozii andavano benone: in sul principio ci fu un po’ d’incaglio, per la scarsezza dei lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni dei pochi ch’erano rimasti. Furono publicati ordini che limitavano i prezzi dell’opere: a malgrado di questo aiuto, le cose si ravviarono; perchè alla fine bisogna bene che le si ravviino. Arrivò da Venezia un altro ordine un po’ più discreto: esenzione, per anni dieci, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero ad abitare in quello stato. Pei nostri fu una nuova cuccagna.
Prima che compiesse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura, e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo di adempiere quella sua magnanima promessa, ella fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne venne poi col tempo non so quanti altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli attorno l’un dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in volto de’ baciozzi, che vi lasciavano il bianco per qualche tempo. E furono tutti inclinati a far bene; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c’era questa birberia, dovevano almeno approfittarne anch’essi.
Il bello era sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che vi aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ garbugli: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non bere più del bisogno: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è attorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non affibbiarmi una campanella al piede, prima d’aver pensato che ne possa nascere.” E cento altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sè, ma non ne era appagata; le pareva, così in confuso che vi mancasse qualche cosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di meditarvi ogni volta, “e io,” diss’ella un giorno al suo moralista, “che cosa ho io d’avere imparato? Io non sono a andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercarmi me. Quando non voleste dire,” aggiunse ella, soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a a voi.”
Renzo, alla prima, rimase impacciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conchiusero che i guai vengono bensì sovente per cagione che uno vi dia; ma che la condotta più cauta e più innocente non assicura da quelli; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, ci è sembrata così giusta, che abbiamo pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale se v’ha dato qualche diletto, vogliatene bene all’anonimo e anche un po’ al suo racconciatore. Ma se in quella vece fossimo riusciti a noiarvi, siate certi che non abbiam fatto a posta.
fine del terzo ed ultimo tomo.