I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XIII

Capitolo XIII

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Capitolo XII Capitolo XIV

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CAPITOLO XIII.


Lo sventurato vicario stava in quel momento facendo un chilo agro e stentato d’un pranzo mangiato di mala voglia, con un po’ di pane raffermo; e attendeva con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospetto ch’ella dovesse venir così spaventosamente in capo a lui. Qualche benevolo percorse lo stormo a gran galoppo, ed entrò nella casa ad avvertire dell’urgente pericolo. I servi, attirati già dal romore in su la porta, guatavano sgomentati giù pel lungo della via, dalla parte donde il romore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltavan l’avviso, veggiono comparire la vanguardia: in fretta e furia si porta l’avviso al padrone: mentre questi delibera di fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. Appena i servi ne han tanto da chiudere la porta. La sbarrano, l’appuntellano, corrono [p. 26 modifica] a chiuder le finestre, come quando si vede sopravvenire un tempo nero, e s’aspetta la gragnuola da un momento all’altro. L’ululato crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel voto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e rimescolato strepito s’odono scoppiare più forti e spessi i colpi di pietre alla porta.

“Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!”

Il poveretto errava di stanza in stanza, smorto, trambasciato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero modo di farlo scappare. Ma come, e per dove? Ascese al solaio; da un pertugio tra la soffitta e il tetto, guardò ansiosamente nella via, e la vide zeppa di furibondi; udì le voci che lo chiedevano a morte; e più smarrito che mai, si ritrasse a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Quivi rannicchiato ascoltava, ascoltava, se mai l’infesto bollore s’ affievolisse, se il tumulto desse un po’ luogo; ma sentendo invece il mugghio levarsi più feroce e più strepitoso, e spesseggiare i picchii, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava l’orecchie in fretta. Poi come fuori di se, strignendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva [p. 27 modifica] le braccia, pontava la pugna, come se volesse tener ferma la porta.... Del resto, quel che facesse così appuntino non si può sapere, giacchè egli era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che la c’è avvezza.

Renzo questa volta si trovava nel forte del subuglio, non già portatovi dalla piena ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo tutto rimescolarsi: quanto al saccheggio egli non era ben risoluto se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea del macello gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati, all’affermare appassionato di molti, egli fosse persuasissimo che il vicario era la cagione primaria della fame, il gran colpevole, pure, avendo, al primo muoversi della turba, udito a caso qualche motto che indicava lo volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto di aiutare anch’egli una tal opera; e con quest’animo, s’era spinto fin presso quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Altri con ciottoli pestava i chiodi della serratura per iscassinarla; altri, accorsi con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorare più in regola: altri poi con pietre aguzze, con coltelli spuntati, con isferre, con chiodi, coll’ugne, [p. 28 modifica]se altro non vi era, scalcinavano e sgretolavano la muraglia, e s’ingegnavano di smattonare a poco a poco, per fare una breccia. Quelli che non potevano dar mano, facevano animo colle grida; ma nello stesso tempo, colla pressa delle persone impacciavano vie più il lavoro già impacciato dalla gara disordinata dei lavoranti: giacchè, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.

I magistrati che ebbero i primi l’avviso del romore, spedirono tosto a chiedere soccorso di truppa al comandante del castello che allora si diceva di porta Giovia; ed egli spiccò un drappello. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il ragunarsi, e il mettersi in via, e la via, il drappello arrivò che la casa era già cinta di vasto assedio; e fece alto assai lontano da quella, alla estremità della calca. L’ufiziale che lo comandava, non sapeva a che partito appigliarsi. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, senz’armi e oziosa. Alle intimazioni che venivano lor fatte di sbandarsi e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorio; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo [p. 29 modifica]crudele, ma piena di pericolo, cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritati i molti violenti: e del resto egli non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folta, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare innanzi a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stato il meglio; ma riuscirvi era il punto. Chi sapeva se i soldati avrebbero potuto procedere uniti ed ordinati? Che se, invece di romper la folla, vi si fossero essi sparpagliati per entro, si sarebber trovati a discrezione di quella, dopo averla aizzata. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a dritto o a torto, paura. I popolani che si trovavano presso a loro, si contentavano di guardar loro in viso, con un’aria, come dicono i milanesi, di me-ne-rido; quei ch’erano un po’ più lontano, non si contenevano di provocarli con visacci e con grida beffarde; più in là pochi sapevano o si curavano che vi fossero; i guastatori proseguivano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non restavano di animarla colle grida.

Spiccava fra questi, ed era egli stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze ad un sogghigno di compiacenza [p. 30 modifica]diabolica, colle mani levate al disopra d’una canizie vituperosa, agitava nell’aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler egli configgere il vicario alle imposte della sua porta, spirato che fosse.

“Oibò! vergogna!” scappò su Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tanti altri volti che davan segno di gustarle assai, e incoraggiato dal vederne pur altri, sui quali, benchè muti, traspariva lo stesso orrore di che egli era compreso. “Vergogna! Vogliam noi tor l’arte al boia? assassinare un cristiano! Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste iniquità? Ci manderà dei fulmini, e non del pane!”

“Ah cane! ah traditor della patria!” gridò, voltandosi a Renzo con un viso da indemoniato, un di coloro che avean potuto udire fra il trambusto quelle sante parole. “Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da forese: è una spia: dalli, dalli!” Cento voci si spargono all’intorno. “Che è? dov’è? chi è? — Un servitore del vicario — Una spia — Il vicario travestito da forese, che scappa — Dov’è? dov’è? dalli? dalli!”

Renzo ammutolisce, diventa piccin piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo aiutano a rimpiattarsi, e con alte e diverse grida [p. 31 modifica] cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un “largo, largo,” che si udì gridar lì vicino: “largo! è qui l’aiuto: largo, ohe!”

Che era egli? Era una lunga scala a piuoli, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, ed entrarvi per una finestra. Ma per buona ventura, quel mezzo, che avrebbe renduta la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’uno e all’altro capo, qua e la pel lungo della macchina, urtati, scompaginati dalla calca, andavano a onde: quale, colla testa fra due scalini e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo squassato, mugghiava; quale veniva staccato dal carico con uno spintone; la scala abbandonata picchiava teste, spalle, braccia: pensate che cosa dovevano dire coloro di cui erano. Altri sollevano colle mani il peso morto, vi si fanno sotto, lo si recano addosso, gridando “a noi, andiamo!” La macchina fatale procede a balzi a rivolte, per dritto e per isbieco. Ella venne a tempo a distrarre e a sgominare i nemici di Renzo, il quale approfittò della confusione nata nella confusione; e quatto quatto sul principio, poi giuocando di gomita a più non posso, si allontanò da quel posto dove non era buon’aria per lui, [p. 32 modifica] coll’intenzione anche di uscire il più presto che potesse del tumulto, e di andar davvero a trovare o ad aspettare il padre Bonaventura.

Tutto a un tratto, un commovimento cominciato ad una estremità si propaga per la folla, una voce si diffonde, viene avanti di bocca in bocca, di coro in coro: “Ferrer! Ferrer!” Una sorpresa, un favore, un dispetto, una gioia, una collera scoppiano per tutto dove giunge quel nome: chi lo grida, chi vuol soffocarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia.

“È qui Ferrer! — Non è vero, non è vero! — Sì, sì; viva Ferrer; quegli che dà il pane a buon mercato. — No, no! È qui, è qui in carrozza. — Che fa questo che c’entra egli? non vogliamo nessuno! — Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene a prender prigione il vicario. — No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! — sì, sì: Ferrer! Venga Ferrer! in prigione il vicario!”

E tutti alzandosi in punta di piedi, si volgono a guardare da quella parte donde si annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano nè più nè meno che se fossero stati tutti colle piante in terra; ma tanto fa, tutti si alzavano. [p. 33 modifica]

Infatti, all’estremità della folla, dal lato opposto a quello dove stavano i soldati, era giunto in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, facendosi probabilmente coscienza di avere, co’ suoi spropositi e colla sua caparbietà, dato cagione o almeno occasione a quella sommossa, veniva ora a cercar di ammansarla, e di stornare almeno il più terribile ed irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità male acquistata.

Nei tumulti popolari v’ha sempre un certo numero d’uomini, che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maladetto gusto del soqquadro, fanno il potere per ispinger le cose al peggio; propongono o promuovono i più dispietati consigli, soffiano nel fuoco ogni volta ch’ei sembra dare un po’ giù: nulla è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse nè modo nè fine. Ma per contrappeso, v’ha pur sempre un certo numero d’altri uomini che, forse con pari ardore e con insistenza pari, s’adoperano all’effetto contrario: taluni portati da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senza altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e dei fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascheduna di queste due parti [p. 34 modifica]opposte, anche quando non v’abbia concerti antecedenti, la conformità dei voleri crea un concerto istantaneo nelle operazioni. Chi fa poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è una mista congerie d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati ad una certa giustizia, come la intendono, un po’ appetitosi di vedere qualche buona scelleratezza, pronti alla ferocia e alla misericordia, all’adorazione e all’esecrazione, secondo che si presenti l’occasione di provare con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ad ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, di applaudire o di urlar dietro a qualcheduno. Viva e muoia, son le parole che caccian fuora più volentieri; e chi è riuscito a persuader loro che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, stromenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a tacere, quando nessuno dia più loro la parola, a desistere, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno [p. 35 modifica]all’altro: che è stato? Siccome però questa massa ha quivi la maggior forza, anzi è la forza stessa, così ognuna delle due parti attive usa ogni ingegno per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime avverse che battagliano per entrare in quel corpaccio, e farlo muovere. Fanno a chi saprà spargere le voci più atte ad eccitare le passioni, a dirigere le mosse a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le novelle che muovano l’indegnazione o l’affievoliscano, eccitino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più alto, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.

Tutte queste chiacchiere si son fatte per venire a dire che, nella lotta fra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione di Antonio Ferrer diede quasi in un istante un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più nè forza, nè scopo di combattere. L’uomo era accetto alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole ai compratori, e per quel suo eroico tener duro contra [p. 36 modifica]ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora vie più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparecchio, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine corrucciata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile quell’annunzio del venir egli a prender prigione il vicario: così il furore contra costui, che si sarebbe sollevato più forte, chi fosse venuto a bravarlo e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, e per dirla alla milanese, con quell’osso in bocca, si acquetava un po’, e lasciava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi.

I partigiani della pace, ripreso fiato, assecondavano Ferrer in cento maniere: quei che gli si trovavano presso, eccitando e rieccitando col loro il publico applauso, e cercando insieme di far ritrarre un po’ la gente, per aprire un passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo scorrere le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori ch’egli potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. ‟Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon [p. 37 modifica]mercato? Son birbi che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Passo a Ferrer!” E crescendo sempre più quelli che parlavano a questo modo, di tanto si andava scemando la baldanza della parte contraria; di sorta che i primi dall’ammonire vennero anche a dar sulle mani a quei che diroccavano tuttavia, a ributtarli, a tor loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavano di riaversi; ma la causa del sangue era perduta; il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furono rispinti: gli altri s’impadronirono della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi mandando dentro una voce a quei di casa, (fessure non ne mancava) gli avvisò esser venuto soccorso, e che facessero star pronto il vicario, “per andar subito.... in prigione: ehm, avete inteso!”

“È quel Ferrer che aiuta a far le gride?” domandò ad un nuovo vicino il nostro Renzo, a cui sovvenne del vidit Ferrer che il dottore gli aveva mostrato in fondo di quella tale, e fattogli sonare all’orecchio. [p. 38 modifica] “Già: il gran cancelliere,” gli fu risposto.

“È un galantuomo, n’è vero?”

“Altro che galantuomo! è quegli che aveva messo il pane a buon mercato; e non hanno voluto; e ora viene a prender prigione il vicario, che non ha fatte le cose giuste.”

Non occorre dire che Renzo fu tosto per Ferrer. Volle andargli incontro subito: la cosa non era facile; ma con certe sue pettate e gomitate da alpigiano egli riuscì a farsi luogo, e a portarsi in prima fila, proprio di fianco alla carrozza.

Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegli incagli inevitabili e frequenti in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’una, ora all’altra finestrina degli sportelli, una faccia tutta umile, tutta piacevole, tutta amorosa, una faccia che aveva tenuta sempre in serbo per quando mai si trovasse al cospetto di don Filippo IV; ma fu costretto di spenderla anche in questa occasione. Parlava pure: ma il clamore e il ronzìo di tante voci, i viva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi intendere le sue parole. Si aiutava egli adunque col gesto, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che [p. 39 modifica]le mani, separandosi tosto, distribuivano a dritta e a sinistra in rendimento di grazie alla pubblica benevolenza; ora spianandole e movendole lentamente fuori delle finestrine, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando un po’ ne aveva ottenuto, i più vicini udivano e ripetevano le sue parole: “pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di passo di grazia.” Sopraffatto poi e come affogato dal rombo di tante voci, dalla vista di tante facce stivate, di tanti occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sè e sè: — por mi vida, que de gente!

“Viva Ferrer! Non abbia paura. Ella è un galantumo. Pane, pane!”

“Sì; pane, pane,” rispondeva Ferrer: “abbondanza; lo prometto io,” e poneva la destra sul cuore. “Un po’ di passo,” aggiungeva poi con tutta la sua voce: “vengo a prenderlo prigione, per dargli il giusto castigo:” e soggiungeva sommessamente: “si està culpable.” Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: “adelante, Pedro, si puedes.

Il cocchiere sorrideva anch’egli alla [p. 40 modifica]moltitudine, con grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per domandare agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritraessero un po’ sui lati. “Di grazia,” diceva egli pure, “i miei signori; un po’ di luogo, un tantinetto: appena appena da poter passare.”

Intanto i benevoli più attivi si adoperavano per fare lo sgombro domandato così gentilmente: alcuni dinanzi ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere di palme sui petti, con certe spinte soavi: “là, là, un po’ di luogo, signori.” Altri facevano lo stesso maneggio ai lati della carrozza, perch’ella potesse scorrere senza arrotar piedi, nè infranger mostacci; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge di Antonio Ferrer.

Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per così dire, dalla speranza di torre un uomo alle angosce mortali, Renzo, dico, pose da canto ogni pensiero di andarsene; e risolvette di dar mano a Ferrer, e di non [p. 41 modifica]abbandonarlo, fin che non si fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, diè dentro con gli altri a far largo; e non era certo dei meno operanti. Il largo si fece; “venite pure avanti,” diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o precorrendo, a far luogo più innanzi. “Adelante, presto, con juicio,” gli disse pure il padrone, e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava alla ventura al pubblico, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quei che vedeva adoperarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale in verità li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo dei suoi segretarii. Al giovane montanaro, invaghito di quella buona grazia, pareva quasi di aver fatto amicizia con Antonio Ferrer.

La carrozza, avviata una volta, seguito poi, più o meno lentamente, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un trar di mano: ma in riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto anche a chi non avesse avuta la sacrosanta pressa di Ferrer. La gente si moveva, dinanzi, di dietro, a dritta, a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno ad una [p. 42 modifica]nave che procede nel forte della tempesta. Più acuto, più discordato, più storditivo di quello della tempesta era il frastuono. Ferrer guardando or da un lato, or dall’altro, atteggiandosi e gestendo tuttavia, cercava d’intendere qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno: voleva fare alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici, ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora incontrata in tanti anni di gran-cancellierato. Di tempo in tempo però, qualche parola, qualche frase anche, ripetuta da un crocchio sul suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettio d’un fuoco artifiziato. Egli, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora gridando a buon conto le parole che sapeva dover essere più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anch’egli tutta la strada. “Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà castigato.... si està culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Assi es... così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscano la fame. Ox! ox! guardaos: non si facciano male, signori. Pedro, adelante, [p. 43 modifica]con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di passo per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Che?” domandava poi ad uno che si era gettato mezza la persona dentro lo sportello, ad urlargli qualche suo consiglio o petizione o applauso che fosse. Ma costui, senza poter pure ricevere il “chè?”, era stato strappato indietro da uno che lo vedeva al punto di rimanere arrotato. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si lasciava intendere qua e là, ma era tosto compresso, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di quei buoni ausiliarii.

Gli altri che, come abbiam detto, stavano quivi colle medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di sgombro. Prega, esorta, minaccia; pigia, incalca, rimpinza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder prossimo il fine desiderato; erano essi riusciti a divider quivi la calca in due, e poi a rinzeppare addietro le due calche, tanto che tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era uno spazierello vuoto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato [p. 44 modifica]colla carrozza, potè collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano ad un tempo ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a soprattenerne una colle sue poderose spalle, si trovò anche in buon luogo per vedere.

Ferrer mise un gran respiro, allo scorgere quella piazzetta libera e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri erano presso che sconficcati fuor de’ pilastri: le imposte scheggiate, ammaccate, forzate e scombaciate nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio scontorto, piegato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, le teneva insieme. Un benevolo s’era posto a quel pertugio, a gridare che si aprisse; un altro accorse a spalancare lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando colla destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e pose piede sul predellino.

La folla, dall’una parte e dall’altra, stava tutta sollevata per vedere: mille facce, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale le creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, girò uno sguardo all’intorno, salutò con un inchino la moltitudine, come da una bigoncia; [p. 45 modifica]e posta la manca mano al petto, gridò: “pane e giustizia;” e franco, ritto, togato, discese, fra le acclamazioni che ne andavano alle stelle.

Quei di dentro intanto avevano aperta la porta, o per meglio dire, avevano finito di strappare il catenaccio insieme cogli anelli già traballanti. Fecero spiraglio, per dare l’entrata al desideratissimo ospite, ponendo però una gran cura a ragguagliar l’apertura allo spazio che poteva occupare la sua persona. “Presto, presto,” diceva egli; “aprite bene, ch’io entri: e voi, da bravi, ritenete la gente; non mi lasciate venire addosso..... per amor del cielo! Preparate un po’ di passaggio per adesso adesso..... Ehi! ehi! signori, un momento,” diceva poi ancora a quei di dentro: “adagio con quell’imposta, lasciatemi passare: eh! le mie coste, raccomando le coste. Chiudete ora: no, eh! eh! la toga, la toga!” Ella sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte, se Ferrer non ne avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda d’una biscia, che si rimbuca inseguita.

Le imposte risospinte e rabbattute alla meglio, venivano intanto appuntellate per di dentro con istanghe. Al di fuori, quei che si [p. 46 modifica]erano costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia, e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro Domeneddio che lo facesse far presto.

“Presto, presto” diceva anch’egli di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran posti attorno, ansanti, gridanti: “sia benedetto! ah, eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!”

“Presto, presto,” ripeteva Ferrer: “dov’è quest’uomo benedetto?”

Il vicario scendeva le scale, mezzo tirato e mezzo portato da altri suoi, bianco come un panno curato. Quando vide il suo aiuto, trasse un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle guance: e si affrettò alla volta di Ferrer, dicendo: “sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscire di qui? Da per tutto è gente che mi vuol morto.”

Venga con migo, usted, e stia di buon animo: qui fuori è la mia carrozza; presto, presto.” Lo prese per mano e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto in cuor suo: — aqui està el busillis! Dios nos valga!

La porta s’apre; Ferrer si mette fuori il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, [p. 47 modifica]incollato alla toga salvatrice, come un fanciullino alla gonna della mamma. Quei che avevano mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un sollevar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si accoscia in un angolo. Ferrer sale di poi; lo sportello si chiude. La moltitudine intravvide, seppe, indovinò quel che era accaduto; e mandò un fragore confuso d’applausi e d’imprecazioni.

La parte del viaggio che rimaneva da farsi poteva parere la più difficile e la più rischiosa. Ma il voto publico era abbastanza spiegato per lasciare andar prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quei che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’erano tanto ingegnati a preparare e a mantenere una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza potè, questa seconda volta, scorrere un po’ più spedita, e con un andamento continuo. A proporzione ch’ella andava innanzi, le due turbe contenute sui lati, si ricadevano addosso e si rimischiavano dietro a quella.

Ferrer, appena seduto, s’era chinato per ammonire il vicario, che si tenesse ben rincantucciato nel fondo, e non si lasciasse vedere, per amore del cielo; ma non fu mestieri [p. 48 modifica]dell’avvertimento. Egli all’opposto, doveva mostrarsi, per occupare e attirare a sè tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un’aringa, la più continua nel tempo, e la più sconnessa nel senso che fosse mai; interrompendola però a ogni tanto con qualche parolina spagnuola, che in fretta in fretta si volgeva a susurrar nell’orecchio del suo acquattato compagno. “Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, mille grazie. No, no; non iscapperà! Por ablandarlos. È troppo giusto; si esaminerà, si vedrà. Anch’io voglio bene a loro signori. Un castigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e castigo agli affamatori. Si tirino da canto, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà castigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà, male, la passerà male.... si està culpable. Sì, sì, li faremo arar dritto i fornai, Viva il re e i buoni milanesi, e i suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi afuera.

Avevano in fatti attraversata la maggiore spessezza, e già erano presso ad uscire del tutto [p. 49 modifica]nel largo. Quivi Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, quei soldati spagnuoli, che però in sull’ultimo non erano stati affatto inutili, giacchè sostenuti e diretti da qualche borghese, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il varco libero all’ultima uscita. All’arrivare della carrozza, fecero essi ala, e presentaron l’arme al gran cancelliere, il quale rendette anche qui un inchino a destra, un inchino a sinistra; e all’ufiziale, che venne più presso a presentargli il saluto, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: “beso a usted las manos:” parole che l’ufiziale pigliò per quel che volevano dir realmente, cioè: mi avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si strinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arme togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la fantasia rivolta a citazioni, e del resto sarebbero state parole al vento: perchè l’ufiziale non sapeva di latino.

A Pedro, nel passare tra quelle due file di micheletti, tra quei moschetti così rispettosamente elevati, tornò in petto il cuore antico. Rinvenne affatto dallo sbalordimento; si ricordò chi egli era, e chi conduceva; e gridando [p. 50 modifica]“ohe! ohe!” senz’aggiunta di altre cerimonie, alla gente, ormai rada abbastanza per potere essere trattata a quel modo, e sferzando i cavalli, fe’ loro prender la corsa verso il castello.

“Levantese, levantese; estàmos afuera,” disse Ferrer al vicario: il quale, rassicurato dal cessar dalle grida, e dal rapido moto del cocchio, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, si alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo, e rallegrato della salvezza; “ah!” sclamò, facendo scorrere la palma sul suo cocuzzolo calvo, que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto le lune a rovescio per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dira el conde duque, che s’adombra se una foglia fa più strepito del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un così gran fracasso? E sarà poi finito? Dios, lo sabe.”

“Ah! per me, non voglio più impacciarmene,” diceva il vicario: “me ne lavo le mani; rassegno il mio posto nelle mani di vostra eccellenza, e vado a vivere in una grotta, su una montagna, a far l’eremita, lontano lontano da questa gente bestiale.” [p. 51 modifica]

Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad,” rispose gravemente il gran cancelliere.

“Sua maestà non vorrà la mia morte,” replicava il vicario: “in una grotta, in una grotta; lontano da costoro.”

Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo d’avere accompagnato il pover uomo in castello, non fa più menzione dei fatti suoi.