I naufraghi dello Spitzberg/6. L'arcipelago delle Spitzberg
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CAPITOLO VI.
L'arcipelago delle Spitzberg.
Per lungo tempo si è creduto che lo Spitzberg fosse un’isola sola o tutt’al più formata da due isole collegate da un immenso banco di ghiaccio, ma dopo le esplorazioni di Parry, si sa invece che forma un vero arcipelago.
Spitzberg è l’isola maggiore, tutta frastagliata da baie e da fiord che s’inoltrano entro terra per parecchie leghe, con catene di montagne assai elevate, con ghiacciai immensi che di anno in anno aumentano di spessore e che, cosa strana, invece di essere di forma concava come tutti gli altri, sono invece di forma convessa.
È ricca di buoni ancoraggi, specialmente sulle coste occidentali dove si apre il profondo Eis-fiord, riparato da tutti i venti e così vasto da contenere una flotta delle più numerose; e sulle coste settentrionali ove trovasi la baia della Maddalena, cinta da montagne di granito alte 1500 e perfino 1800 piedi. È l’ultimo ancoraggio possibile per le navi di grossa portata e si trova a sole duecento cinquanta leghe dal polo.
Dopo lo Spitzberg vengono la Terra del Nord-est, la più settentrionale e poco conosciuta; l’isola Edge pure di ragguardevole estensione con una baia al sud-ovest, la Terra del Re Carlo, la più orientale di tutte e la meno esplorata; le isole Barentz, del Principe Carlo, di Hope e le Sette Isole.
Quell’arcipelago, che appartiene alla Russia, non è abitato da alcuna creatura umana, però abbondano le renne che vivono allo stato selvaggio, gli orsi bianchi, i trichechi e le foche. Numerosissimi poi sono gli uccelli marini.
L’inverno dura quasi dieci mesi in quelle terre desolate, rendendo il soggiorno penosissimo. Nevicate furiose cadono senza posa per parecchi mesi; pesanti e densi nebbioni coprono costantemente le montagne e immensi banchi di ghiaccio si accumulano attorno alle spiagge.
Anche durante la breve stagione estiva, la vegetazione è quasi nulla. Solamente i licheni spuntano e pochi muschi e poche sassifraghe.
La Torpa avvistato il capo Sud, che è il più meridionale, affrettava la marcia, per poter giungere nell’Eis-fiord prima che i ghiacci lo sbarrassero.
Tompson aveva fatto sciogliere i terzaruoli e spiegare il pappafico, il contropappafico e perfino la controranda, per accelerare la corsa.
Il capo Sud era ormai visibile, anche senza l’aiuto del cannocchiale. S’avanzava sull’oceano come uno sperone di dimensioni gigantesche, coperto di nevi e chiuso fra due campi di ghiaccio che si erano arenati alla sua base. Dietro quell’aguzzo promontorio si vedevano elevarsi delle montagne, le cui vette bianche erano coperte di nebbie e più sotto si vedevano scintillare dei vasti ghiacciai, quei lenti ma eterni vomitatori di ice-bergs.
Il capitano scrutava attentamente il promontorio con un forte cannocchiale, osservando specialmente le scogliere che emergevano fra i due campi di ghiaccio. Pareva che cercasse qualche indizio, del passaggio delle navi del signor Foyn.
Ad un tratto trasalì e abbassò bruscamente l’istrumento.
– Cosa avete, signor Tompson? – chiese Oscar.
– Ho scorto un segnale – rispose il baleniere, con voce commossa.
– Un segnale!
– Sì, professore: guardate ai piedi del promontorio, là dove si apre un piccolo seno sgombro dai ghiacci, un po’ all’ovest.
Oscar afferrò vivamente il cannocchiale che gli veniva sporto, e guardò nella direzione indicata.
– Cosa vedete? – chiese il baleniere.
– Un’asta con due bandiere spiegate ma... quelle bandiere non portano i colori della Svezia e Norvegia.
– Che importa! Forse che fra la confusione d’un naufragio si ha il tempo per la scelta dei colori? I naufraghi avranno trovato sottomano una bandiera inglese ed una americana e l’avranno spiegata.
– È vero, signor Tompson.
– Prepariamo il gran canotto.
I marinai, che avevano pure scorto le due bandiere, che ormai si distinguevano anche senza cannocchiale, s’affrettarono ad allestire l’imbarcazione ed a calarla in mare.
La Torpa si trovava allora a mezzo miglio dal capo Sud e non poteva più avvicinarsi, in causa dei banchi di ghiaccio. Ad un comando del capitano si mise in panna, imbrogliando gran parte delle vele.
– Mi accompagnate, professore? – chiese Tompson.
– Sì, capitano.
Si armarono di carabine, non essendo prudente avventurarsi inermi su quelle coste che potevano essere abitate dagli orsi bianchi, e scesero nel gran canotto in compagnia di sei marinai e d’un timoniere.
Una specie di canale era aperto attraverso i banchi e terminava dinanzi alla piccola cala, la quale appariva sgombra di ghiacci. La scialuppa, abilmente diretta, vi si cacciò dentro e dopo un quarto d’ora giungeva ai piedi delle rocce che si elevavano intorno al bacino.
Le due bandiere, spiegate su un’antenna piantata nella cima di una rupe, non erano lontane che poche diecine di passi. Tompson ed il professore sbarcarono, gettando un lungo sguardo su quella costa. Videro subito che nessun altro segnale vi era e che quelle rupi erano disabitate.
Solamente degli uccelli marini, urie, gabbiani, procellarie e strolaghe, svolazzavano sopra i ghiacci e sopra le spiagge.
Il baleniere ed il suo compagno s’affrettarono a dirigersi verso l’antenna. Era questa un pezzo di pennone di parrocchetto e all’altezza d’un uomo portava delle rozze incisioni, che parevano fatte colla punta d’un coltello.
Tomson si alzò sulle punte de’ piedi e potè leggere le seguenti parole scritte in norvegiano ed in inglese:
«Scavate qui sotto».
– Lo avevo sospettato, diss’egli con voce giuliva.
– Ma che siano stati i naufraghi della Tornea e del Gotheborg? chiese Oscar.
– Ora lo sapremo, professore, rispose Tompson, impugnando un largo e acuminato coltello da caccia.
Spezzò dapprima la crosta di neve gelata, poi si mise a scavare il terreno con lena febbrile, gettando a destra ed a sinistra i ciottoli che strappava. Aveva già fatta una buca profonda trenta centimetri, quando la punta dell’arma incontrò un corpo duro che diede un suono metallico.
– Ci siamo, disse il baleniere.
Allargò la buca e mise le mani su di una scatola di latta, simile a quelle che servono per racchiudervi il tonno. Con un colpo di coltello lacerò a metà il coperchio ed estrasse una carta un po’ umida, piegata in quattro, coperta da alcune linee d’una calligrafia grossa.
Vi gettò sopra avidamente gli sguardi e lesse:
«Da consegnarsi al Sig. W. Foyn, armatore di Vadsö».
E più sotto:
«La squadra N. 2 si è completamente perduta nei paraggi del Capo Sud. La Tornea, investita da un ice-berg, è stata schiacciata la notte del 14 agosto 1875, durante un denso nebbione, ed il Gotheborg è andato a picco il 15 sulle scogliere del capo, trascinatovi da una tempesta tremenda.
«Il capitano Dikson è morto. Ho raccolto i superstiti che ammontano a ventidue marinai e sette fiocinieri e cerco di giungere all'Eis-fiord, colle scialuppe salvate. Vi gettò sopra avidamente gli sguardi e lesse. (Pag. 48). Avremo viveri fino alla fine di settembre, ma manchiamo di vesti e di combustibile e prevedo una catastrofe completa se non veniamo salvati prima dell’inverno. Provvedete o considerateci morti.
«Capo Sud della Spitzberg, 26 agosto 1875».
– Ecco una fortuna che tocca di rado ai naufraghi! – esclamò Tompson, col viso raggiante. Ormai possono considerarsi salvi, perchè io entrerò nell'Eis-fiord dovessi aprirmi il passo attraverso i banchi di ghiaccio.
– Speriamo che la selvaggina non sia a loro mancata.
– Sì, se avranno potuto salvare delle armi da fuoco. A bordo! A bordo!
Scesero precipitosamente le rocce e balzarono nella scialuppa, portando con loro il documento. Dieci minuti dopo si trovavano sulla Torpa ed informavano l’equipaggio della fortunata scoperta.
Nell’apprendere che i loro compagni non erano tutti morti e che si trovavano così vicini, un grido solo irruppe dal petto di quei bravi marinai.
– Salviamo i camerati!
Le vele furono rapidamente sciolte e la Torpa dopo d’aver costeggiato il banco che si estendeva ad ovest del promontorio, si slanciò verso il nord, mantenendosi a circa tre miglia dalla costa dell’isola.
Il vento che aveva cambiata direzione, soffiando dal sud-ovest, favoriva la corsa della nave, la quale si avanzava con una velocità media di sei nodi all’ora. Anche il mare a poco a poco si era calmato, ma lungo le coste l’ondulazione si manteneva ancor viva, disgregando i ghiacci che si erano formati dinanzi ai promotorii ed ai piccoli fiords. Alcuni ice-bergs ondeggiavano al largo tendendo a serrarsi contro le spiagge, ma non erano ancora così tanti da riuscire pericolosi e la Torpa poteva facilmente evitarli, ora che il nebbione erasi completamente dileguato.
Tompson intanto non cessava di esaminare la costa con un buon cannocchiale, sperando di scoprire altri segnali od i rottami di una o dell’altra nave. Si era stabilito nella botte dell’ice-master in compagnia di Oscar per poter, da quell’altezza, meglio dominare le spiagge, ma nulla appariva.
Quelle coste, già coperte di neve, erano deserte. Perfino gli uccelli erano rari e si vedevano appollaiati tristamente sulla punta delle rocce, senza mandare le loro festose ed assordanti grida.
Quella parte dell’isola pareva la più selvaggia, la più desolata. Le sponde scendevano dovunque a picco, rendendo l’approdo quasi impossibile; i fiords erano stretti, tortuosi, di aspetto tetro e seminati di tali rocce che impedivano l’accesso non solo alle navi ma anche alle scialuppe; i promontorii alti, dirupati, terminanti in punte aguzze che parevano fatte appositamente per sventrare le navi. In lontananza invece, ben dentro la terra, si vedevano ergersi alte montagne tagliate pure a picco, rivestite di ghiacci e di nevi eterne e nelle loro vallate scintillavano immensi ghiacciai.
Verso le sei di sera un brusco salto di vento arrestò la Torpa. Tornava a soffiare il vento polare spingendo innanzi a sè nuvoloni gravidi di neve e fosche cortine di nebbia.
Tompson però non volle cercare un ancoraggio sotto la costa e comandò di avanzare correndo bordate, manovra faticosa, ma che i marinai, ansiosi di accorrere in aiuto dei loro camerati, non rifiutarono, quantunque la notte promettesse di essere tutt’altro che buona.
Alle 10 di sera il nebbione tornava a calare sull’oceano, mentre il freddo aumentava rapidamente. Alcuni fiocchi di neve cominciavano già a cadere.
Tompson, che era diventato inquieto, si era messo alla ribolla del timone. Non voleva lasciare ad altri, in quei momenti, la direzione della nave. L’aveva condotta fino a quel punto con fortuna insperata, sfidando i ghiacci, le nebbie e le onde, e voleva compire l’opera, spingendola al sicuro nell’Eis-fiord.
Aveva raccorciato le bordate, per paura di andare a urtare contro i frangenti che potevano trovarsi in vicinanza di quelle spiagge a loro poco note, e tendeva costantemente gli orecchi per raccogliere i fragori della risacca.
A mezzanotte nevicava copiosamente ed il mare cominciava a diventare cattivo. La tolda, le murate, gli attrezzi s’imbiancavano rapidamente ed il freddo era diventato così acuto, che la spuma delle onde gelava sul ponte e attorno agli ombrinali di sfogo.
Al largo si udivano i ghiacci a cozzarsi gli uni contro gli altri con sorde detonazioni, e si udivano a capitombolare con grande fracasso. Pareva che una grande flottiglia scendesse dal nord, navigando parallelamente alle coste delle Spitzberg.
Tompson continuava a stringere le bordate: si trovava stretto fra due pericoli e voleva evitarli. All’est aveva la costa forse senza rifugi e irta forse di scogliere, e all’ovest la flottiglia dei ghiacci. Se urtava contro l’una o contro l’altra, la Torpa era perduta.
Verso le tre del mattino avvenne un urto che arrestò bruscamente la nave. Pareva che lo sperone avesse urtato contro qualche banco, che i marinai di guardia non avevano potuto scorgere.
Quella fermata durò però pochi secondi. La Torpa, spinta innanzi dal vento, tornò a urtare sfondando col suo acuto sperone altri ostacoli, poi riprese la corsa. Pareva però che filasse fra due flottiglie di ghiacci, poichè attraverso alla nebbia si vedevano apparire a babordo ed a tribordo degli sprazzi di luce biancastra.
Ad un tratto avvenne un secondo cozzo e questa volta così violento, che tutta la membratura della nave scricchiolò lugubramente.
Quasi nel medesimo istante si udì l’ice-master a gridare:
– La via è sbarrata!... Vira a babordo e imbroglia o andremo a fracassarci!...