I naufragatori dell'Oregon/25. Wan-Baer sorpreso

25. Wan-Baer sorpreso

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24. La morte di O'Paddy Conclusione


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CAPITOLO XXV.

Wan-Baer sorpreso.


Tre giorni dopo gli avvenimenti narrati, i naufraghi dell’Oregon s’imbarcarono su uno dei più grandi e dei più solidi prahos di Kara-Olo per recarsi a Kupang, la capitale della colonia olandese di Timor.

Il capo dei Dayachi-laut, Malù e un equipaggio di venti uomini li accompagnavano.

Ormai più nulla tratteneva gli uomini bianchi fra le foreste del Borneo; avevano invece fretta di raggiungere quella lontana isola per sorprendere quel furfante di Wan-Baer, quel cattivo cugino di Amely e del piccolo Dik.

Il praho, lasciata la foce del Koti, mise la prua verso il sud lanciandosi nello stretto di Macassar, formato dalla costa orientale del Borneo e da quella occidentale delle Celebes.

È questo un ampio braccio di mare che misura una larghezza di centosettantacinque a duecentoventicinque chilometri ed una larghezza di cinquecentosessanta, braccio di mare però assai pericoloso, poichè sovente vi scoppiano dei tifoni così formidabili che le navi non possono resistere alla furia del vento e all’impeto tremendo delle ondate.

Fortunatamente il tempo si manteneva buono ed il praho, colle sue immense vele spiegate, procedeva rapido come uno steamer, essendo il vento favorevolissimo.

Undici giorni dopo i naufraghi approdavano a Macassar, dovendo Kara-Olo rifornirsi d’acqua e di viveri, prima di intraprendere la traversata di quel grande spazio d’acqua chiamato mare di Giava impropriamente, ma che si potrebbe chiamare mare della Sonda, compreso fra le coste meridionali di Celebes e quelle settentrionali delle isole Flores, Sumbava, Lomblen ed Ombuai.

Macassar è una delle principali città dell’arcipelago della Sonda, appartenente agli Olandesi, i quali la chiamano invece Rotterdam. [p. 215 modifica]

Sorge sulla penisola meridionale della grande isola di Celebes, sulla costa occidentale, in fondo ad una pittoresca baia difesa da tre isolette, presso ad una immensa pianura.

Componesi di vari quartieri abitati da indigeni, da Bughisi, da Malesi e da Cinesi, ma uno, quello chiamato Wlaardingen, cinto tutto da un alto muro che forma un grande parallelogramma e che è solcato da sei o sette vie spaziose, è riservato agli Europei e particolarmente agli Olandesi.

È un quartiere elegante, pittoresco, pulitissimo, con belle case di pietra, basse tutte, ma comode, ariose, dipinte di bianco, adorne di graziose colonnette e tutte abbellite da gruppi d’alberi, che proiettano una fresca ombra. A questa cittadella europea vi è annesso il Kampong-Baru, che è un piccolo villaggio situato un po’ verso tramontana, dove trovasi il palazzo governativo e dove vedonsi bellissime ville, un ospedale e varii grandi edificii.

Un forte, quello di Rotterdam, difende la città e tiene in freno i trentacinque mila abitanti che la popolano, i quali sono turbolenti, essendo composti delle razze più bellicose della Malesia.

Del resto è una città commerciale di primo ordine, che esporta riso, garofani, noci moscate, sagù, cotone, gusci di testuggine e soprattutto quel prezioso olio di Macassar che gli indigeni estraggono da una specie di burro vegetale di colore oscuro e di odore rancido.

Il praho di Kara-Olo si fermò solamente il tempo necessario per rinnovare le sue provviste d’acqua e di viveri, poi riprese la rotta verso il sud, avventurandosi sul mare della Sonda.

Sette giorni dopo, durante i quali il vento si era mantenuto fresco, verso la mezzanotte l’equipaggio del praho segnalava un punto luminoso che talor s’alzava in forma di colonna. Era il cratere fiammeggiante del Lovotivo, un grande vulcano sempre in attività, che sorge nell’isola Flores.

All’alba il praho si trovava presso le coste dell’isola. Questa terra, ancora oggidì è poco conosciuta, quantunque sia così prossima a Timor.

Si sa che ha una superficie di circa mille leghe quadrate, una lunghezza di duecento miglia e una larghezza di quaranta o cinquanta, che è fertilissima, ma ben pochi hanno potuto visitarla, nè gli Olandesi, nè i Portoghesi che vi hanno qualche stabilimento, mai si sono occupati di farla meglio esplorare. È popolata dai Bughisi, i quali respinsero sempre con accanimento le truppe coloniali olandesi, [p. 216 modifica] sicchè si possono considerare ancora come indipendenti. Sussiste però ancora un villaggio abitato da indigeni cristiani, quello di Larentura, unico avanzo dell’antica dominazione portoghese.

Il praho costeggiò l’isola fino alla punta estrema orientale, s’inoltrò nello stretto aperto fra Flores e l’isola dipendente da Lomblom, soggetta ad alcuni rajah indipendenti, e cinque giorni più tardi gettava l’àncora a Kupang, la capitale del possedimento olandese di Timor.

– Finalmente!... – esclamò Held, respirando liberamente. – Ora possiamo dire d’essere veramente in salvo.

– Non ancora, signore – disse il soldato. – Abbiamo da fare i conti col furfante numero due, il quale potrebbe essere più pericoloso di O’Paddy.

– Quando io ed Amely gli ricorderemo tutte le sue infamie, non oserà resistere.

– I furfanti di tale specie, signor Held, sono capaci di tutto, e vi consiglierei di chiedere l’aiuto delle autorità olandesi per farlo arrestare.

– Amely non lo vuole, Lando.

– Sempre generosa, la signorina.

– Quel Wan-Baer è suo cugino.

– Ma è un cugino che starebbe bene appeso ad un pennone di contra-pappafico con una solida corda al collo.

– Sono del vostro parere, ma Amely non vuole fare uno scandalo.

– Allora agiremo da noi e se quel signore, osa fare resistenza, parola da soldato che lo prendo pel colletto e lo mando a tenere compagnia ai suoi complici. Quelli almeno giuocavano la vita, ma questo signor cugino si è appropriata l’eredità standosene a casa. Cospettaccio!... Accomodavano una cinquantina di milioni, a quel volpone!...

– Restituirà fino all’ultimo centesimo, Lando.

– Lo spero, signor Held. Quando andremo a fare visita a quel signore?

– Questa sera istessa.

– Comincia già a fare oscuro.

– Aspetto che Kara-Olo abbia terminato di far ammainare le vele.

– Ci accompagnano i Dayachi? [p. 217 modifica] [p. 219 modifica]– Sì.

– Benissimo, se sarà necessario ci presteranno man forte e quegli uomini lì non ischerzano. È lontana la casa di quel Wan-Baer?...

– A venti minuti dalla città, sul margine delle immense piantagioni che appartenevano al defunto zio di Amely e di Dik.

– Signore – disse in quel momento Kara-Olo, avvicinandosi – io ed i miei uomini siamo pronti.

– Andiamo, Amely; vieni, Dik – disse Held.

– Ho il cuore che mi batte, signor Held – disse la ragazza. – Non avrei voluto dovermi incontrare con quell’indegno cugino.

– Ed io non vedo l’istante di vederlo per dargli del ladro – gridò il ragazzo.

– Dik, è nostro cugino.

– No, è un ladro, sorella.

Lasciarono il praho e scesero sulla gettata. Kara-Olo e dieci Dayachi li seguivano a breve distanza, dispersi a gruppi di due o tre, per non attirare l’attenzione degli abitanti.

Kupang, come dicemmo, è la capitale del possedimento olandese di Timor, mentre quella del possedimento portoghese è Dilli, essendo quest’isola in possesso di queste due nazioni europee.

La città olandese è la più bella e la più importante, mentre l’altra è in continua decadenza e quasi spopolata in causa delle febbri maligne, prodotte dalle paludi.

Il luogo ove sorge Kupang è piacevolissimo, tutto cinto di giardini, di ortaglie coltivate con grande cura e di filari d’alberi. Le sua casette sono tutte in pietra, basse, ma linde, civettuole, bianche.

Ha una popolazione di circa tremila abitanti, composta per la maggior parte d’indigeni, ben fatti, gagliardi coi capelli lanosi, che usano tingerseli di rosso, la pelle nerastra o abbronzata ed il naso schiacciato, usando comprimerselo fino da quando sono piccini. Vi sono però anche parecchi Olandesi, dei meticci onesti ed industriosi, pochi Malesi e pochi Chinesi.

I naufraghi, guidati da Held e seguiti sempre dai Dayachi, attraversarono la città già immersa nelle tenebre e s’inoltrarono in mezzo a dei campi coltivati, dove crescevano rigogliose piante di caffè, di cacao, d’indaco, di cannella e alti fusti di mais già maturo.

– Queste opulenti piantagioni sono tue – disse Held ad Amely. [p. 220 modifica]

– Voi adunque avete visitato più volte mio zio?... – chiese la ragazza.

– Sì, ed in compagnia di tuo padre, quando eravamo di guarnigione a Flores, e anche tre anni or sono, quando feci un viaggio a Batavia, venni a visitarlo.

– Allora qualcuno vi conoscerà qui?...

– Spero che Xinthal, un portoghese che era intendente di tuo zio, si ricorderà di me. Ecco lassù la casa.

Dei punti luminosi apparivano sul pendìo d’una collina. Aguzzando gli sguardi, si distingueva confusamente un grande fabbricato sormontato da una torricella.

– Affrettiamoci – disse Held. – Lo sorprenderemo mentre starà cenando.

– Gli faremo fare una pessima indigestione – disse il siciliano.

Affrettarono la marcia salendo la collina e in dieci minuti giungevano dinanzi ad un giardino che si estendeva intorno ad un vasto fabbricato.

Agli abbaiamenti d’un cane incatenato, un uomo uscì, ma vedendosi dinanzi quel gruppo armato, indietreggiò vivamente.

– Avete paura, signor Xinthal? – chiese Held.

L’intendente, udendo quella voce, s’arrestò, poi disse con voce rotta:

– Possibile!... M’inganno io?...

– No, signor Xinthal.

– Ma voi siete il signor Held!

– In persona e vi conduco i legittimi eredi del defunto vostro padrone, Amely e Dik Wan-Torphof.

– Amely... Dik... Wan-Torphof!... Avete detto?... No, v’ingannate... non è possibile... sono morti nel naufragio dell’Oregon!

– Ve lo ha detto Wan-Baer?

– Ma sì, signor Held.

– È qui adunque, quell’uomo?...

– Sì, da undici giorni.

– Siamo ben felici che vi sia.

– Vado ad avvertirlo, signor Held.

– No!... Rimanete!... – disse l’olandese con tono imperioso. – Così vogliono Amely e Dik Wan-Torphof, vostri padroni.

Poi rivolgendosi verso i Dayachi, disse a loro: [p. 221 modifica]

– Tu, Kara-Olo, seguici e voi altri circondate la casa e impedite la fuga a tutti. Venite, amici.

Mentre i Dayachi, guidati da Malù, s’affrettavano a obbedire, l’olandese, seguìto dal soldato, dal capo, da Amely e da Dik, entravano nell’abitazione preceduti dall’intendente.

– Il signor Wan-Baer è in questa sala – disse quest’ultimo, arrestandosi dinanzi ad una porta.

– Fermatevi qui – disse l’olandese ad Amely ed a Dik. – Quell’uomo può essere armato e lasciarsi trasportare a qualche tentativo disperato.

Poi aprì la porta ed entrò in una sala ammobigliata con gusto squisito ed illuminata splendidamente. Wan-Baer stava comodamente seduto dinanzi ad una tavola riccamente imbandita e mangiava col miglior appetito che immaginare si possa, coll’appetito d’un uomo che ha la coscienza tranquilla ed una cinquantina di milioni in tasca.

– Buona sera, signor Wan-Baer – disse Held, scoprendosi il capo. – Pare che l’aria di Timor vi faccia molto bene.

Udendo quella voce beffarda, il negoziante ed armatore di Manilla aveva lasciato cadere il bicchiere colmo di vino delizioso, che stava per accostare alle labbra. Si alzò di scatto, la sua faccia rossa impallidì orribilmente ed indietreggiò fino alla parete, fissando sull’ex-ufficiale due occhi smarriti.

– Un’apparizione!... – balbettò coi denti stretti e con profondo terrore.

– No, signor Wan-Baer, solamente i vivi ritornano.

– E per torcervi il collo – aggiunse il siciliano.

– Sogno io?... – balbettò il miserabile, appoggiandosi alla parete. – Xin...thal... aiu...to!...

– È inutile che chiamiate aiuto, signor Wan-Baer – proseguì l’ex-ufficiale. – I nostri uomini hanno circondato la casa e vi avverto che sono quei selvaggi del Borneo, che i nostri compatrioti di Pontianak chiamano koppens-kueller e che sono pronti a tagliare delle teste.

– Compresa la vostra – disse Landò.

– Ma dunque... l’Oregon?...

– Non è andato a picco, malgrado la speronata del vostro complice.

– Ah!... Voi sapete questo?... [p. 222 modifica]

– E sappiamo altro ancora, signor Wan-Baer.

– Ma... O’Paddy?...

– Morto.

– Ed il malese?...

– Morto anche lui.

– Ma... siete il diavolo voi?...

– No, signore.

– E...

– Vi accontento subito: Amely... Dik!... Entrate...

La ragazza ed il piccolo Dik comparvero. Wan-Baer vacillò come se le forze gli venissero meno e mandò un rauco suono.

– Mi conoscete, cugino? – chiese Amely, avanzandosi verso di lui.

– E conoscete me, ladro? – chiese Dik.

A quell’ingiuria lanciatagli in viso da quel ragazzo, Wan-Baer si raddrizzò urlando:

– Vi uccido!...

Colla rapidità del lampo aveva estratta una rivoltella che teneva in tasca, ma il siciliano, che si aspettava un brutto giuoco, balzò innanzi e afferratolo pel polso, glielo tenagliò con tale forza da fargli cadere l’arma.

Poi, sollevando l’armatore fra le robuste braccia, corse alla finestra gridando:

– Ehi!... Malù!... Ecco una testa per la collezione di Sulinari.

Amely con un gesto lo trattenne, dicendo:

– Lasciatelo, Lando, vi prego.

– Tuoni!... Gli avrebbe fatto così bene questo capitombolo. Speriamo che sia per un’altra volta.

Wan-Baer, pallido come un cencio lavato, si era appoggiato alla tavola, dicendo con voce strozzata:

– Uccidetemi adunque.

– Uscite – gli disse Amely, indicandogli la porta. – Vi facciamo dono della vita perchè siete nostro parente, ma domani mattina cercate di trovarvi lontano da Kupang, se vi è cara l’esistenza.

– Vattene, ladro!... – gridò Dik.

L’armatore attraversò la sala vacillando come un ubriaco ed infilò la porta. Il soldato lo raggiunse e battendogli sulla spalla gli disse: [p. 223 modifica]

– Aspettate che vi accompagni, signore. I Dayachi potrebbero regalare al nostro amico Sulinari la vostra testa, e vi confesso che farebbe una bella figura nella collezione del kampong.