I Marmi/Parte quarta/Il Nobile e il Perduto academici Peregrini
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IL NOBILE E IL PERDUTO
ACADEMICI PEREGRINI
Nobile. Ancóra che nuovamente dai moderni venghino dati in luce e alle stampe molti, anzi infiniti libri, non resta per questo che egli non se ne trovi degli antichi e begli e nuovi d’invenzione.
Perduto. Alla fede! che io credo che pochi ne possino venir fuori che non ce ne sia qualche poco di lume.
Nobile. Io ne ho uno raro certo, ed è nuovo.
Perduto. Di che tratta? oh, come l’avete avuto?
Nobile. E’ son forse tre anni che io mi ritrovai in Genova con un gran gentiluomo chiamato il signor Gregorio Spinola, il quale era signor di Campo, una terra che è posta nel mezzo delle montagne, quando si va da Otri per arrivare in Lombardia, luogo eccellentissimo per la state. Ora egli avenne che un altro signore, pur gentiluomo, andando seco ad un suo castello chiamato Magione, poche miglia lontano da Campo su la strada maestra, egli ci raccontò un caso nuovo e da maravigliarsi. Disse quel signor di Magione che, essendo una mattina sul molo di Genova, egli vi ritrovò un uomo d’un bello aspetto, forse di etá di trenta o poco piú anni, il quale latinamente gli prese a dimandare in qual parte egli potrebbe navigare che fosse paese sterile, diserto, orrido e solitario, per ciò che egli intendeva di fare una vita eremitica. Stupí il signore, udendo e vedendo questo uomo. Volle la sorte che egli avesse ottime lettere, e gli rispose; onde venne in sí fatta cognizione che ’l signore conobbe costui esser di molte lingue e di molte scienze dotato perfettamente: egli aveva l’ebrea, la caldea, la greca, la latina, spagnola, francese e la todesca lingua, che era la sua naturale, famigliarissime e bene l’intendeva; onde molto gli divenne il signore affezionato e, promettendogli di sodisfare al suo desiderio, lo menò seco a casa in Genova, dove conobbe in lui una creanza signorile e un procedere da gran maestro e da principe. E l’andò, pur latinamente, perché italiano non intendeva nulla, con molti ragionamenti tentando di questo particularmente, di che terra egli fosse o figliuol di cui; ma in conto alcuno non ne potette ritrar mai nulla. Dopo alcuni giorni, lo menò seco in fra quelle alpestre montagne al suo castello; dove, non molto lontano, nel folto de’ boschi, v’è una rovina grande d’un monasterio antico, tutto serrato da ellere, castagni, faggi e terribil quercie; del qual solitario eremo non era in piedi altro che un pezzo della cappella grande della chiesa e alquanto di muraglia. Piacque il diserto paese al todesco; onde il signore tosto con fabriche a modo suo lo fece chiudere e accomodare, e gli fece la provisione al suo vivere da buono eremita. Aveva costui alcuni libri di diverse lingue, e, serratosi in quel luogo, con alcuno non aveva comerzio, o praticava, se non quando il signore v’andava, di raro, e seco menava qualche uno; onde, per abreviarla, gli fu rubato una volta un libro in lingua araba, composto da uno almadalle, il quale da mirabili uomini è stato poi ridotto nella nostra lingua.
Perduto. Come si chiama egli cotesto libro o di che tratta?
Nobile. Il titolo è questo: La chiave de’ secreti.
Perduto. Sarebbe egli mai la Clavicula di Salamone?
Nobile. Non so altro; so ben che, leggendone il signor Gregorio Spinola alcuna parte sul principio del libro, che io tenni a mente ogni cosa e le scrissi. Vuoi tu altro, che qua in Fiorenza il libro m’ha dato nelle mani?
Perduto. Cosa da maravigliarsi. Era egli forse nella libraria di San Lorenzo?
Nobile. Egli era dove e’toccava: basta, che io l’ho nelle mani.
Perduto. Or dimmi qualche cosa di questi gran secreti, perché, essendo Perduto, mi potresti forse ritrovare.
Nobile. Le smarrite si ritrovano, ma le perdute no. Ora ascolta la prima parte e il primo secreto: egli t’insegna il modo da saper molte cose avenire, e son queste:
Se, combattendo, tu vincerai o, avendo nimicizie o liti, tu sarai superiore al tuo aversario;
se tu farai vita felice;
se la tua fine fia buona;
se avrai sorte nel tòr donna;
se le tue rendite verranno a buon fine;
se la tua linea durerá molto;
se i tuoi amici, che tu credi che ti sieno amici, son ottimi amici o no;
se racquisterai il perduto;
se il tuo ti fia occupato;
s’un tuo viaggio da fare fia di buona fortuna;
se il tuo stato si manterrá felice;
se d’una tua impresa, sia che cosa si voglia, sarai sortito o no.
Perduto. Egli mi pare un libro della ventura o d’una geomanzia. Ma séguita, perché nel resto conoscerò sei’è cosa da credere o no, perché io credo che in Arabia sieno stati anticamente e in Calicutte de’ cervegli balzani, come i nostri moderni, che si sien dilettati di dir cose grande, ma in effetto le sien poi baie.
Nobile. Io per me ci presto molta fede: tu udirai. Primamente tu non puoi saper nulla de’ fatti d’altri, perché questa rivelazione di secreti non si distende se non nella propria persona di colui che la fa. Egli bisogna che tu vadia la notte, quando sono quei bei sereni che ’l cielo è pien di stelle, e ti bisogna esser stato tre giorni inanzi senza usare il coito, e andare dodici passi fuori della porta della casa dove tu abiti e súbito alzare gli occhi al cielo e rimirar tanto che tu vegga, come si dice dal popolo, cadere una stella; e, veduto questo, segnare l’ora che quel vapore ha fatto quel moto. Il giorno sequente, a tante ore di dí quante sono state di notte, tu scriverai e segnerai, con penna che non abbia piú scritto e sopra carta non piú usata, il nome di questi profeti, e nessuno ha da sapere quel che tu faccia:
Amos, | Abdia, | Aggio, | Abacuc, |
Baruc, | Daniello, | Davitte, | Ezecchiel, |
Ieremia, Isaia, | Iona e | Ioel. |
Poi, la notte sequente, tu segnerai per ciascun profeta, a quell’ora medesima, una stella per uno sotto il nome, sí come si vede a questo:
Amos | Abdia |
* | * |
E cosí farai sotto ciascuno. L’altro giorno, che sará il secondo dí all’ora solita, tu taglierai tutte queste dodici polize; e la notte sequente, che fia la terza notte, tu ritornerai al medesimo luogo dove tu vedesti cader la stella e in un bossolo, o vasetto, non piú usato, metterai le dodici polize, súbito che tu vedrai cadere un’altra stella. Il terzo dí, scriverai, alla solita ora del giorno, in dodici polize, questo che tu vedrai. Verbigrazia, tu vuoi sapere se tu averai lunga vita: le tre prime polize diranno cosí:
La mia vita fia 30 (o 50 o io non importa) anni felice. |
La mia vita fia molti anni felice. |
La mia vita fia sempre felice. |
Ma non passare il numero degli anni di tuo padre, o vivo o morto ch’egli sia, scrivendo la prima poliza al piú, al meno, come ti piace; poi ne scrivi tre altre che sieno contrarie a quelle, che dichino in questa forma:
La mia vita fia travagliata in questo mondo 15, 50, 4, o 6 anni (come ti piace). |
La mia vita fia sgraziata 60 anni. |
La mia vita fia sempre infelice. |
Tre altre ne farai bianche; e l’altre tre, che fanno dodici, tu vi metterai una stella segnata sopra. La quarta notte, si come tu imbossolasti le prime dei profeti, tu metterai le seconde in un altro vasetto. Il quarto giorno, alla solita ora, tu leggerai sopra questi vasetti, dodici salmi, come la tua mano aprirá il libro del salmista, ciò è a caso, guidato solamente da spirito. La quinta notte, in quell’ora medesima, tu metterai i vasi sopra il libro della Bibbia e pregherai Iddio che disponga la sorte in tuo utile e in onore della sua maestá. Il quinto giorno tu accenderai dodici lumi, come piacerá a te, e gli farai ardere o consumare in cerchio intorno al libro e ai vasi. La sesta notte, in quell’ora medesima solita, tu trarrai de’ vasi, quando caderá una stella, essendo in quel luogo medesimo che fosti l’altre volte, una poliza de’ profeti e una dell’altro vasetto, e, aprendo il libro, le metterai dentro senza leggerle o vederle, e non toccherai l’altre polize altrimenti. I! sesto giorno, a quell’ora debita, tu getterai prima nel fuoco tutte l’altre polize e poi, aprendo il libro, leggerai la poliza del profeta, e, vedendo quell’altra, se la fia scritta felice, succederá ottimamente, se infelice, il simile, ciò è infelicitá; se la fia bianca, aprirai il libro del profeta che hai per sorte cavato fuori, e ai dodici versi, dove ti verrá a sorte aperto, leggerai e quivi troverrai la sodisfazione dell’animo tuo; se fia dubio il verso, non fia né in utile tuo né in danno; se venisse una di quelle dove la stella è segnata, la notte tu la terrai sotto la testa dormendo, e in visione intenderai quanto tu desideri. E, cosí come con questo primo modo s’intende un di questi secreti, in simile si fa a tutti; benché nel libro a uno per uno e’ son tutti distesi, e vi sono l’interpetrazioni de’ sogni e la dichiarazione di tutti i dodici versi de’profeti, interpetrati ciascuno in dodici modi, con l’autoritá di dodici antichi sapienti.
Perduto. Questa è una lunga cosa; ma non è difficile a fare: egli ve ne debbe esser molte.
Nobile. Degli augurii, delle mutazioni de’ tempi, insino sopra i tuoni vi sono significati, sopra i lampi, e quasi tutti i moti del cielo ampiamente dilucidati.
Perduto. Sarebbevi mai alcun rimedio per questa resipola che io ho in questa gamba?
Nobile. Ancóra che tu ti facci beffe delle mie parole, non vo’ restar di dirti il rimedio, ché egli v’è perfettissimo: il fummo del legno del pino, con il tenervi sotto acceso un pezzetto di tavola, e movendola in qua e lá, che ’l calore e fummo la tocchi, in quattro o cinque volte tutto quell’umor venenoso si disecca. Prova questa: e se la non ti riesce (benché tu puoi provare ancor l’altra), non credere il restante.
Perduto. Almeno vi fosse egli ancóra un secreto per il mio fanciullo, che è caduto sopra il fuoco e tutto guastosi il viso, e i medici con il mettervi sopra mille impiastri l’hanno peggio che storpiato!
Nobile. Non vorrei che tu credeste con queste tue ciancie ridur sí mirabil libro per un recitario; ma a questo caso v’è il rimedio ancóra, secreto bellissimo: una parte d’olio dolce d’oliva e un’altra di vin bianco buono, tanto dell’uno quanto dell’altro, e, la mitá manco, tôr mèle e infonderle al fuoco in nuovo vaso; della quale infusione ne viene uno unguento mirabile, e con quello sottilmente ungilo, ché subito cesserá il dolore e in pochi giorni fía libero.
Perduto. Evvi nulla particularmente da conoscere l’uomo?
Nobile. Cose mirabili.
Perduto. Or ditemene alquante.
Nobile. Io mi farò dal capo. Chi ha gran circuito di capo, può procedere da due cagioni: una, ha per gran materia concorsa nel generarlo, con la debolezza della virtú che genera; onde tal uomo in simil caso non può aver perfezione, perciò che, essendo la virtú debile, non può far le debite operazioni; onde viene a rimanere un pezzo di carne con due occhi, perché la natura non può regolare sí fatti disordini. La seconda cagione della grandezza del capo è la moltitudine della natura, ma acompagnata con la virtú generativa forte; e tal capo è di buona complessione di sua natura, perché l’anima signoreggia con le sue virtú in tal capo e fagli produrre molte opere perfette e singulari. Il segno a conoscer la grandezza del capo per moltitudine di materia con fortezza di virtú generativa da quella che è con debilitá, si è che la testa grande ben figurata, secondo la debita figura del capo, procede, tal grandezza, dalla virtú generativa forte che ha potuto figurare e formare tal capo debitamente.
Perduto. Come debbe egli esser questa figura di capo? Datemene notizia piú minuta, secondo il vostro libro.
Nobile. La figura conveniente del capo debbe essere in questo modo: che l’abbia due (per dargli un vocabulo latino) eminenze, una dalla parte dinanzi e l’altra dietro, e le parti delle tempie sien piane: questa è ottima figura.
Perduto. Credo veramente che ci sia da fare assai a conoscere i capi, se non si veggano gli effetti. Benché un uomo si muta e rimuta e tramuta cento volte il giorno, vogliamo noi dire che chi avesse il capo tutto d’un pezzo stessi meglio? Perché c’è tanti pezzi comessi che s’aprono e serrano che è una morte; e in questi moti credo che l’uomo si muti.
Nobile. Le comettiture del capo non son fatte per quel che tu di’; e chi avesse un capo che tutto l’osso fosse d’un pezzo, sarebbe uomo di poco giudizio e manco ragione e peggio che bestia.
Perduto. Dite su, adunque, di questi pezzi: intanto, s’io volessi diventar medico, cerusico, imparerò qualche cosa.
Nobile. Tu mi dai sempre la baia; ma per questo non resterò di dirti tutto quel che mi dimanderai. La prima cagione che ’l nostro capo ha piú comettiture è perché si possino votare, uscir fuori, esalare le fumositá che salgono alla testa per conservazion di quell’osso; perché la natura non avrebbe potuto far comodamente una cosa di rara composizione che fusse dura, com’è debitamente l’osso del capo, il quale è un difensor e governator di tutta la sustanzia del cervello. Veramente quel craneo, cosí chiamato, ha cinque comettiture e viene a cometterle insieme e tesserle, e per quelle sottilissimamente esalano le fumositá: una è detta coronale, un’altra sagittale, la terza è detta landa dai greci: queste tre son le vere; buon per colui che ha queste comissure che esalino, perché gli sono utili.
Perduto. Qualche volta egli è bene spezzar la testa a uno, acciò che si esali i fummi; a’ pazzi la sarebbe ottima cosa; ma le femine, essendo da meno che gli uomini, non si debbano potere esalare, è vero?
Nobile. La femina ha le comessure piú strette...
Perduto. Distinguete.
Nobile.... e piú piccole, talmente che le fumositá non hanno tanto esito. E poi, la donna è di piú umida e fredda complessione; onde la genera nella testa spiriti molto grossi e torbidi, che male si posson purgare: ecco che per questa cagione la non può arrivare alla perfezione dell’uomo.
Perduto. Disegnami un capo proporzionato, acciò possa conoscere le parti buone e le cattive.
Nobile. Le figure del capo son molte, o ver possono esser molte: la prima è che egli non abbia alcuna eminenzia nella parte dinanzi, ma si bene nella parte di dietro; la seconda, che non abbia eminenza nella parte posteriore, ma si nell’anteriore; la terza, che la sia tutta rotonda; la quarta ci va la distanzia delle tempie. Che gente son quelle a cavallo e a piedi, che vengono in qua?
Perduto.È il bargello, che mena un prigione legato sopra un cavallo: non lo vedete? Dite qualche cosa del suo capo.
Nobile. Pessimi segni ha nel vólto il poverino: poca barba, curta e larga fronte e reo colore; sotto il cielo non è il peggiore.
Perduto. Or seguitate il vostro ragionamento.
Nobile. La quinta, che gli sia elevato, la sesta, che sia piú lungo dalle orecchie inanzi che di dietro; la settima, che nella sua rotonditá le. tempie sieno schiacciate, un poco piane. Diciamo, adunque, che, essendo fatto il capo dell’uomo per servire a operazioni nobilissime del corpo, come sono intendere, imaginare, pensare, ricordare, ha bisognato che tal figura sia fatta con quelle operazioni che si possano produrre a tali effetti. Ecco che bisogna che vi sieno due concavitá, una dinanzi e una di dietro, con una via mezza tra l’una e l’altra, per la quale abbino da passare gli spiriti dall’una all’altra concavitá: adunque, fu bisogno di componere il capo che non fusse tutto ritondo, ma mescolato con alquanto di piano. Essendo per questo la memoria posta nella concavitá del capo dietro e la imaginazione e il conoscere in quella concavitá dinanzi, quell’uomo che dietro non avrá quel concavo, manca fortemente di memoria, e, non l’avendo dinanzi, patisce di giudizio e d’intelletto.
Perduto. Chi mancasse di tutte due?
Nobile. Avrebbe dello scimonito; e quella del mezzo starebbe male.
Perduto. Sta saldo: queste son cose che mi dilettano poco. Sarebbevi egli per sorte sopra cotesto tuo libro qualche bella piacevolezza?
Nobile. Infinite e belle.
Perduto. Il saggio d’una ne vorrei.
Nobile. La prima che m’è venuta a memoria è questa. Egli fu un greco molto ricco, e buon compagno sopra tutto, e aveva una particular virtú in sé, e questo era che sempre fu nimico de’ buffoni.
Perduto. Benedetto sia egli! alla barba de’ molti de’ nostri, che non sanno viver senza la compagnia di coteste bestie! che Domenedio dia lor tanto da fare che i buffoni eschin lor di mente, sí come si sono scordati i virtuosi per istar troppo bene! Che fece di piacevole cotesto greco?
Nobile. Egli di state sempre desinava a porta aperta, e quanti virtuosi venivan lá, tutti pasceva. Avenne che la state, che si mangia in terreno, poco inanzi che si mettesse in tavola, e’ venne un buffone e si cominciò a trattenere con gli altri di casa e dir delle novelle, delle ciancie e altre cose da suo pari; onde tutti gli fecero carezze. Eccoti il signore; e non si tosto arrivato in casa, questo buffone se gli fa incontro con sue baie. Il greco, che era astuto e sagace signore, prese quelle sue stoltizie per buone e care e con un dirgli: — Tu sia il ben venuto; quanto tempo è che io t’aspetto! Io voglio che tu stia qua in capo di tavola; e per una volta io ti vo’ far godere. — E quivi gli fece vedere il pasto tutto preparato in tavola, fecegli assaggiare un vino prezioso e con un modo garbatissimo prese a dire: — Signori, voi sapete la nostra usanza, che, inanzi che nessun di noi si metta a tavola, si fa tre salti all’insú per poter meglio desinare e tre lanci per la piana; e chi vince all’insú ha il secondo luogo della tavola, e chi per lo lungo sta in capo di quella: e io sarò stamattina il primo. — E, fatti tre salti in aere, vinse; dopo lui, saltò il buffone, e tutti gli altri. — Or su — disse il conte — egli mi tocca il secondo luogo. — E qui prese la corsa per lo lungo della stanza e fece tre saltetti, tanto che egli arrivò fuor della porta mezzo braccio. Il buffone súbito prese la corsa, per guadagnarsi il primo luogo, e con tre salti quanto potette saltò; onde egli usci fuori piú di due braccia. Il greco, che s’era fermato dentro all’uscio, mostrando di vedere chi piú saltava, quando lo vide fuori, diede di mano alla porta e lo serrò fuori, tuttavia dicendo: — Va, ché noi te la diamo vinta. — Onde il buffone s’accorse d’essere stato uccellato. Il signore, postosi a tavola, mangiò quella mattina con le porte chiuse, cosa che mai piú a’ suoi giorni non gli era accaduta.
Perduto. Oh la fu bella! Ma piú bella sarebbe ella stata se il buffone avesse detto: — Signore, io son di razza di gambero, che salto indietro e non inanzi; e chi cavalcasse, bisognerebbe che facesse pensiero d’andare indietro e non inanzi, spronasse quanto egli volesse. —
Nobile. Pur che non avesse poi tolto un bastone e detto come disse il piovano Arlotto: «Io ti farò veder che tu andrai come una nave, non che un cavallo restio e un gambero».
Perduto. Che altre cose vi son dentro di bello? Io vorrei trovare uno che mi dicesse qualche cosa nuova.
Nobile. Nuova è impossibil quasi, se giá di molte composizioni antiche non se ne facesse una novissima.
Perduto. In che modo?
Nobile. Come sarebbe a dire: io ti voglio mostrare mezza dozzina di re grandissimi amici della virtú e de’ virtuosi gran benefattori, e poi ti vo’ far vedere il rovescio, ciò è altretanti signori nimici della virtú e che hanno in odio i virtuosi.
Perduto. Lascia stare cotesti, che son piú di mille, non che mezza dozzina, e fammi conoscer quegli che sono amici de’ virtuosi o, per dir meglio, furono; perciò che forse forse, dico, i nostri signori principi e reverendissimi (si parla di coloro che sono), che voglion tanti titoli nelle soprascritte di «illustrissimo», di «eccellentissimo», di «reverendissimo», di «liberalissimo», di «cortesissimo» e di «virtuosissimo», potrebbon imparare a esser amatori de’ virtuosi.
Nobile. Credo che io perderò tempo, perché son cornacchie di campanile e non escon per suon di parole, e son formicon di sorbo troppo pratichi: bussa pur quanto tu vuoi, ché non escon altrimenti per bussare; bisogna o saetta a quelle o fuoco a quegli altri. Cosí a una gran parte de’ nostri gran maestri bisognerebbe un morbo a cavallo a cavallo che gli rifrustasse o una guerretta soda soda e salda che gli lasciasse grulli grulli; e io, trovandogli poi sopra una strada mezzi aghiadati o a un uscio a chieder per Dio, m’avessi a far le croci, con un maravigliarmi: — È possibile che questo sia messer tale? è questo il tal signore? Oh poveretto! s’egli avesse atteso a imparar la virtú, almanco si potrebbe pascer con la sua mano e non con quella d’altri. — E per caritá gli vorrei dar la mitá de’ soldi che io avesse, senza rinfacciargli o dirgli: — Poveretto, se tu avessi ora i dinari che tu hai spesi in vacche, ganimedi, ruffiani, buffoni, parassiti e cani, non avresti bisogno del pan d’altri — ma direi solo: — Togli; Dio ti doni buona ventura, e ti ritorni nel tuo primo stato; ma insieme con quello ti sia cortese di cervello sano e di buono intelletto, acciò che tu sappi regger te e far bene a chi merita. — E me ne andrei in lá, dolendomi di non lo poter sovenire in quel modo che egli, giá ricco e potente, poteva sovenir me.
Perduto. Ascolta, Nobil Peregrino: se cotesti tali udissero e, piú, che le parole, che tu di’, l’avessero inanzi scritte, ma io dirò ancor meglio, se si compungessino in lor medesimi cotesti ricconi, la compunzione dureria tanto loro quanto il tempo del lègger le parole; sí come fa la parola di Dio, che esce di bocca del predicatore a’ tristi, che, mentre che gli odono il suon della voce, conoscono il loro errore, passato quello, la cosa va in oblio. Ma dimmi un poco di quei re che amaron tanto la virtú e lascia costoro nella loro ignoranza.
Nobile. Io ritrovai giá due gran capitani a ragionamento insieme, uno de’ quali era smontato da cavallo (perché era ricco, però cavalcava) e l’altro povero che se n’andava a piedi. Dolevasi il povero d’esser male aventurato e affermava che chi ha da poter fare senza la mercé d’altri, se non sempre, almanco i due terzi delle volte, si fa beffe di chi patisce, ha bisogno o è in necessitá, e chi è sempre avezzo a star pasciuto non crederá mai che gli altri abbin fame. Udite, adunque, quel che disser costoro, per lasciar questo libro antico antico da parte e venir alquanto inanzi.
Se Quinto Curzio non m’inganna, egli dice che Alessandro Magno, che fu figliuolo del re Filippo di Macedonia, non meritò tanto quel nome di Magno per aver le migliaia d’uomini nell’esercito quanto ne fu degno ancóra perché egli ebbe piú filosofi nel suo consiglio che principe della sua e nostra etá: non prese mai pugna di guerra che prima per i suoi savi non fosse in sua presenza ben bene esaminata la cagione, l’ordine e che via doveva tenére in quella. E, in veritá, era il dovere, conciosia che quella cosa si debbe sperar che vadia per buona via e abbi prospero successo alla quale inanzi v’è proceduto maturo e ottimo consiglio. È bella cosa a veder l’ambiguitá di tutti coloro che hanno scritto del Magno Alessandro, cosí greci come latini, che non si sono saputi risolvere qual fusse nella sua persona maggiore o la ferocitá che egli teneva nel ferire i nimici o la umanitá che egli aveva nell’accettare i consigli. Furon molti quei filosofi che stavano con Alessandro; ma Aristotile, Anasarco e Onasicrate erano quei che gli potevan comandare e da quelli accettava il vero consiglio: ed era ben fatto, ed è, pigliar consiglio da molti savi e ristringer poi la cosa nel parer di pochi. Deh, odi che gran cosa era quella di sí gran principe, che egli, non contento di tenér tanti savi appresso di sé, andava del continuo a visitar gli altri savi uomini che non stavano seco altrimenti e faceva lor servitú e onoravagli. Dice che una volta gli fu detto: — A che proposito fate voi tanta servitú a questi filosofi? — Ed egli rispose (risposta propria da un Alessandro Magno): — I principi che si fanno servi de’ sapienti uomini imparano a esser padroni di tutto il mondo. —
Perduto. Oh che brava risposta! oh che detto da tenerlo del continuo a memoria!
Nobile. Al tempo di questo gran signore viveva Diogene, il qual non, né per promesse né per prieghi, mai volle andar seco; anzi gli disse che si voleva acquistare il nome di Magno fuggendo il mondo da buon filosofo, secondo che egli se l’acquistava facendosi signor del mondo, e che non era la peggior cosa che perder la propria libertá.
Perduto. Chi avesse ora qui inanzi il teschio d’Alessandro e quel di Diogene (questo vorrei che considerassino coloro che sono assassinatori della virtú), non saperebbe discernere qual de’ due capi disprezzo il mondo o qual lo signoreggiò. Séguita.
Nobile. Alessandro, udite le parole del gran filosofo, voltatosi a tutti, gridò con gran voce e disse: — Io vi giuro, per lo dio Marte, che s’io non fusse il re Alessandro, che io vorrei esser Diogene filosofo; e questo dico perché, al parer mio, oggi non credo che sia altra felicitá sopra la terra equale a questa: un re Alessandro che comandi a tutti e un Diogene che comandi a un Alessandro. — Ora questo magno re, sí come teneva particulare affezione a’ filosofi, particolarmente leggeva ancóra piú un libro che un altro: la sera, quando andava a dormire, si vedeva la sua spada e il libro d’Omero dove tratta della distruzion di Troia, il quale sempre aveva in mano nel tempo conveniente. Filippo suo padre, quando gli nacque Alessandro, mandò molti doni al tempio, e scrisse una epistola ad Aristotile, dove son dentro queste o simil parole: «Io ho rendute molte grazie agli dei e gli ho presentati assai per avermi dato un figliolo; ma piú ne rendo loro ancóra perché me l’hanno dato in tempo che vive sí eccellente filosofo come sei tu; per che spero che tu me lo alleverai in tal maniera che si potrá dire che sia mia figlio e tu suo padre».
Perduto. Altri re che Alessandro dove sono?
Nobile. Tolomeo ottavo, re degli egizii, fu molto amico de’ savi, cosí de’ caldei come de’ greci: ebbe per familiare Stilpon Megarese, filosofo mirabile; e non solamente lo teneva a mangiare alla sua tavola, ma gli dava ber con la sua coppa. Onde, una volta, porgendogli il re il vino nella coppa, dopo che egli ebbe bevuto alquanto, vi fu un cavalieri egizio che disse al re: — Io penso, signore, che mai vi caviate la sete per lasciar da bere assai a Stilpone e Stilpone non se la sazii anch’egli col desiderar che ve ne lasciate un buon dato. — Tu di’ il vero — disse il re — ché io non credo che gli faccia profitto quel che sopravanza del mio bere, a Stilpone; ma credo ben che ti farebbe buon prò, se tu ti cibassi del sopravanzo della filosofia che egli ha di piú di quello che ha di bisogno. —
Perduto. Cotesti uomini rispondevano ottimamente, perché favellavano del continuo con savi, con letterati e gran filosofi: va, di’ che una parte, per non dir tutti, de’ nostri magnati sappi rispondere quando un savio uomo favella loro!; o lo mandano da un altro o fanno dargli risposta, o presso che io non lo dissi! Basta che sappino i punti della gola, la creanza delle femine e le ragioni dell’avarizia; del resto, basta loro dormire e farsi beffe di chi sa qualche cosa. Al terzo re; di’ via.
Nobile. Antigono.
Perduto. Cotesto si diede in preda a molte cose che non stavan bene, cred’io.
Nobile. Si, ma egli fu molto amico de’ savi, per ciò che aveva preso la strada d’Alessandro in questa parte, il palazzo del quale era una scuola di tutti i filosofi del mondo. Da questo esempio si può imparare quanto faccin bene i signori a tenér sapienti nelle lor corti, perché i lor familiari e i lor sudditi imparano le cose mirabili e degne. Ma, oimè! dove sono oggi gli Alessandri? dal cardinale Ipolito in fuori, e certi pochi altri che io non voglio nominare perché non credessino che io adulassi, dove sono? Fate che io gli vegga. Ma, peggio, dove sono i precettori grandi che son dati ai figliuoli de’ principi?
Perduto. Alla vita che tengano i lor padri, e hanno tenuto, troppo è egli un semplice pedantaccio; perché vogliono alcuni signori che i lor figliuoli imparino a giucar bene, a crapular meglio e lussuriar del continuo e non lèggere o praticar filosofi o sapienti uomini altrimenti.
Nobile. Questo Antigono ebbe grande amicizia ancóra con due filosofi che al suo tempo fiorirono, Amenedeo e Abione, de’ quali Abione era il piú dotto e in estremo poverissimo. Oh che etá era quella! Nessuno filosofo costumava di lègger publicamente filosofia, che tenessi faccende per un carlino; i piú savi filosofi dell’academia d’Atene eran quegli che manco avevano.
Perduto. Oggi chi ha roba e danari è tenuto savio e chi ha lettere e virtú, che sia povero, è tenuto una bestia, un matto, uno sciocco, un insensato. Io lo dirò pure: chi è povero si vadi a riporre, perché fia da infiniti ricchi ignoranti tenuto un asino.
Nobile. Chi manco teneva veniva ad aver piú; onde non si gloriavano di tenére assai traffichi, ma di saper molta filosofia. Nota questo bel caso: essendo giunto Abione agli anni della decrepitá s’infermò a morte; onde il re Antigono lo mandò a visitar per il suo proprio figliuolo e gli mandò gran somma di danari, facendo asapergli che dovesse accettare il presente cosí lietamente come gli era stato mandato. Il buon filosofo sprezzò il tesoro e lo rimandò, dicendo al giovane: — Direte al re vostro padre che io lo ringrazio del grande accarezzarmi che egli in vita m’ha fatto e del presente che ora egli mi fa in morte; ma, poi che settantacinque anni io ho trionfato nudo senza alcun peso, che di grazia non mi voglia caricare ora nella morte né d’oro né di roba, perché mal volentieri passerei questo pelago che va da questa all’altra vita: e digli che da qui inanzi non soccorra in morte mai piú alcuno d’oro o d’argento, ma che l’aiuti d’un maturo discorso e buon consiglio, per ciò che l’oro fa lasciar questa vita mal volentieri e il consiglio fa abracciar quell’altra di buona voglia. —
Perduto. Oh bene, oh bene!
Nobile. Archelao fu un altro re, che, oltre che egli stette fra’ padiglioni e genti d’arme, discese dal sangue di quel re Menelao, antico re di Grecia, che si trovò, cred’io, alla distruzion di Troia, e fu molto amico de’ sapienti uomini. Aveva costui seco un gran poeta chiamato Euripide, il quale in quei tempi non teneva manco nome nella sua poesia che si tenesse della grandezza della corona Archelao per esser re di Macedonia. Ancóra oggi (oh che virtú mirabile de’ cieli!), noi abbiamo piú affezione e portiamo piú riverenza e onore a chi ha fatto belli e buoni libri che a chi ha avuti gran regni e gran tesori! Fu grande la fede che ebbe Archelao in questo Euripide, perché non disponeva cosa alcuna del suo regno se prima non se ne consigliava con lui.
Perduto. Cotesto poeta non doveva esser della razza della piú parte de’ nostri, che sono, grazia di Dio, per la prima cosa ignoranti e bestie, superbi, gonfiati, prosontuosi, temerarii e insolentissimi.
Nobile. Ora, cosí come oggi regna l’invidia fra’ tristi e non fra’ buoni, cosí regnava allora: l’ignorante cavalier cortigiano, l’ignorantissimo maestro di casa, il castrone camerieri, il bufolo alzaportiera, l’asino tesorieri, il gentiluomo in opinione della corte asino, e gli altri satelliti, assetati d’una inestinguibil sete, bestie veramente da due piedi, rinegavano il mondo che questo poeta la facesse sí bene; onde ne crepavano d’ira e sdegno. Una sera Euripide restò a favellar con il re d’alcune istorie de’ tempi passati, e gli convenne di notte ritornarsene alla sua abitazione; talmente che i suoi nimici lo fecero dai cani non solamente amazzare, ma devorare mezzo: cosí, sbranato, con le osse rimase in terra. Il re, quando udí questo, fu sí fattamente dolente che egli si fece rader la barba, tagliar i capelli e mutò vestimenti, e sopra tutte le cose gli fece grandissimo onore nelle essequie; non contento di questo, egli fece de’ suoi nimici vendetta e crudelissima giustizia. Dopo queste cose, disse un cavalier greco un giorno al re Archelao: — Tutto il regno si maraviglia che per sí poca cosa la vostra corona abbia fatto sí gran cose e sparso tante lagrime. — Il re súbito gli rispose in simil forma: — Io udi’ giá dire a mio padre una volta che i principi non dovevan pianger mai, come principi, se non per cinque cagioni. —
Perduto. Io le dirò anch’io: per caricar di gran pagamenti e di gabelle i suoi sudditi; per aver violato l’onor delle fanciulle del suo stato; per cacciar fuor della patria i virtuosi ingegni e non gli dar da mantenersi fuori; per occupare ingiustamente a uno il suo per darlo a un altro; e per dar cattivo e doloroso essempio del fatto suo: per aver questi cinque peccati, doverebbe piangere un signore. Vogliamo noi dire che se ne trovi a’ nostri tempi alcuno?
Nobile. Non lo so; so ben che si riderebbon di te, se t’udissero, e che queste che io dir voglio son altre cinque: — La prima cosa che debbe far piangere un principe — disse il re — è la perdita della sua republica, conciosia che ’l buon principe si debbe scordar tutte le ingiurie che gli son fatte alla persona, e, per vendicar la minima che sia fatta alla republica, debbe, non che piangere, ma espor la propria persona... —
Perduto. Ce ne son pochi che lo faccin, messere.
Nobile. — ... La seconda cagione, perché deve piangere, è quando egli fia tócco nell’onore, perciò che, non si dolendo a caldi occhi il principe quando è offeso nel sangue e nell’onore, può in vita andarsi a sotterrare. La terza lagrima che debbe uscir dell’occhio del signore, è per vedere coloro che poco hanno da sostentarsi e assai da stentarsi; e, per la mia fede, che chi non piange la miseria de’ suoi sudditi, che son posti in calamitá poveri e mendichi, si può dirgli che egli senza profitto alcuno viva sopra della terra. Debbe pianger ancóra il buon principe la prosperitá, la gloria e la felicitá che tengano i tiranni, ché veramente quel principe che non gli dispiace la tirannia de’ cattivi è indegno d’esser amato e servito da’ buoni. Ultimamente debbe il buon principe pianger molto la morte de’ savi uomini, perché non ha nel suo dominio perdita alcuna il signore che sia equale a quella, perdendo un de’ sapienti del suo consiglio e della suo republica. — Queste furono adunque le parole che fece il re per risposta a quel cavalieri, non so s’io lo debbo dire, ignorante o poco accorto. Certo certo che furon sempre i savi uomini in grande stima fra i greci e fra’ romani potenti: gli scrittori antichi ne hanno tenuto, di questo, buon conto; e fra l’altre da notare è questa. Giá è noto al mondo chi fusse Scipione Uticense e della gran gloria che ebbe Roma di lui e il secolo presente ne ha e nello avenire n’avrá sempre, non tanto per la vinta d’Africa quanto per il gran valore della sua persona. Le son due cose che si debbon tenére in gran pregio, l’esser virtuoso e aventurato: molti furon gloriosi per la virtú della lancia e della spada, che di poi per la cattiva vita cancellaron sí fatti onori. Coloro che scrissero l’istorie romane dicono che ’l primo che scrivesse in eroico verso della latina lingua fu il poeta Ennio. Per mostrarvi come fu reputato da’ grandi, dice che Scipione, quando egli morí, ordinò nel suo testamento che nel colmo del suo sepulcro gli fosse posta la statua d’Ennio poeta: ed è gran cosa che volesse piú tosto onorare la sua sepoltura e ornare con tanto povero uomo che dintornarla di bandiere o stendardi famosi che guadagnasse in Africa. Ma ascolta quest’altra. Nel tempo di Pirro re degli epiroti fiorí un gran filosofo chiamato Cinno, e dicon che fu la misura di tutte l’eloquenze del mondo, perciò che ebbe un numero suave nel favellare, e nel concludere fu profondo con le sentenze. Serviva questo Cinno, stando in casa di Pirro re, a tre cose: il primo ufizio suo era il dir cose piacevoli, trame di facezie, novelle e motti che dilettassino alla mensa del re; conciosia che nelle cose di burle egli aveva una grandissima buona grazia.
Perduto. Deh, vedi a quel che serviva un sí fatto uomo!
Nobile. La seconda sua faccenda era scriver l’istorie, sí come colui che era eccellentissimo in stile da tanta impresa ed era ottimo testimonio per affermar la veritá. Il terzo servizio che egli faceva in corte era l’andare imbascidore a tutte le cose d’importanza del re; e in questi negozii era acutissimo e molto aventurato nello spedir delle faccende: egli trovava alle cose tante vie, tanti mezzi, e sapeva sí ben persuadere che mai nelle cose che egli terminò ebbe vergogna; insino ai patti della guerra o faceva tregue larghissime per il suo signore o finiva in pace perpetua. Pirro, favellando una volta in suo lode, disse queste parole: — Io rendo grazie infinite e immortali agli dei, o Cinno, per tre cagioni: una, perché mi hanno fatto re e non servo, che al mio giudizio è uno de’ gran beni che possino avere i mortali, poi che si comanda a tutti e nessuno vuole esser ubidito da noi; l’altra cosa, perché io ringrazio gli dei, è stata che m’hanno dato un generoso cuore e un animo generosissimo; la terza e l’ultima grazia che io riconosco da loro è che m’hanno dato te per compagno a regger la mia republica, terminare le faccende della guerra e darmi, con le parole tue dottissime, utile e onore. E s’è veduto che io ho acquistato per la tua sapienza tal cittá che la mia lancia non bastava a difenderla. — Or vegghino una gran turba de’ moderni príncipi quanto si possono apressare alle pedate degli antichi signori e se i virtuosi son da loro amati, trattenuti, mantenuti, aiutati o favoriti: a me pare che se ne sia spento il seme, da alcune poche piante in fuori: la cosa sta male.
Perduto. Voi sapresti meglio far de’ libri vecchi un’opera nuova che non ha fatto auel compositor vecchio a dir cose nuove.
Nobile. Ora non si dirá altro di nuovo né di vecchio: noi siamo stati tutta notte a questi freschi Marmi, però fia il dovere ritirarsene a casa.
Perduto. Avete ragione: io per me sarei stato a cicaleccio tutta questa notte, sí mi dilettavano le vostre invenzioni.
Nobile. Mi raccomando; a Dio.