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166 i marmi - parte quarta


di Troia, e fu molto amico de’ sapienti uomini. Aveva costui seco un gran poeta chiamato Euripide, il quale in quei tempi non teneva manco nome nella sua poesia che si tenesse della grandezza della corona Archelao per esser re di Macedonia. Ancóra oggi (oh che virtú mirabile de’ cieli!), noi abbiamo piú affezione e portiamo piú riverenza e onore a chi ha fatto belli e buoni libri che a chi ha avuti gran regni e gran tesori! Fu grande la fede che ebbe Archelao in questo Euripide, perché non disponeva cosa alcuna del suo regno se prima non se ne consigliava con lui.

Perduto. Cotesto poeta non doveva esser della razza della piú parte de’ nostri, che sono, grazia di Dio, per la prima cosa ignoranti e bestie, superbi, gonfiati, prosontuosi, temerarii e insolentissimi.

Nobile. Ora, cosí come oggi regna l’invidia fra’ tristi e non fra’ buoni, cosí regnava allora: l’ignorante cavalier cortigiano, l’ignorantissimo maestro di casa, il castrone camerieri, il bufolo alzaportiera, l’asino tesorieri, il gentiluomo in opinione della corte asino, e gli altri satelliti, assetati d’una inestinguibil sete, bestie veramente da due piedi, rinegavano il mondo che questo poeta la facesse sí bene; onde ne crepavano d’ira e sdegno. Una sera Euripide restò a favellar con il re d’alcune istorie de’ tempi passati, e gli convenne di notte ritornarsene alla sua abitazione; talmente che i suoi nimici lo fecero dai cani non solamente amazzare, ma devorare mezzo: cosí, sbranato, con le osse rimase in terra. Il re, quando udí questo, fu sí fattamente dolente che egli si fece rader la barba, tagliar i capelli e mutò vestimenti, e sopra tutte le cose gli fece grandissimo onore nelle essequie; non contento di questo, egli fece de’ suoi nimici vendetta e crudelissima giustizia. Dopo queste cose, disse un cavalier greco un giorno al re Archelao: — Tutto il regno si maraviglia che per sí poca cosa la vostra corona abbia fatto sí gran cose e sparso tante lagrime. — Il re súbito gli rispose in simil forma: — Io udi’ giá dire a mio padre una volta che i principi non dovevan pianger mai, come principi, se non per cinque cagioni. —