I Figli dell'Aria/21 - La principessa di Turfan
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CAPITOLO XXI.
La principessa di Turfan.
Se Fedoro e il capitano non erano pronti a trattenerlo, il cosacco aveva già preso lo slancio per fuggire verso lo Sparviero, piantando in asso la vecchia principessa coi suoi montoni, i suoi cammelli, le sue gioie ed il suo monaco.
Diventare lo sposo di quella vecchia centenaria! Ah, per bacco! era troppo grossa la pillola da mandar giù, anche indorata da un titolo principesco e rimbombante.
— Torcerò il collo e farò scoppiare il ventre a quel gaglioffo che ha avuto il coraggio di propormi tale unione! — gridò Rokoff, gettando sguardi feroci sul monaco. — Ma costui è pazzo! Pazzo da legare.
— Non prendetevela così calda, signor Rokoff, — disse il capitano tenendolo sempre per un braccio, onde non gli sfuggisse. — Il mandiki ha creduto in buona fede di proporvi uno splendido affare. E poi, un figlio di Budda che sposa una principessa Calmucca! Vi pare che non sia un grande onore per questa tribù? E che fama acquisterà il povero monaco per aver condotto a termine la faccenda. Diverrà hellung e realizzerà i suoi sogni ambiziosi.
— Che il colera se lo prenda!
— Tu non sei un buon amico, — disse Fedoro. — Faresti felice la principessa ed il monaco.
— Basta o accoppo quella vecchia strega con un pugno!
— Ci mettereste in un serio imbarazzo, — disse il capitano. — E se la principessa si ostinasse ad avervi?
— Proponetegli il vostro macchinista.
— Mi è indispensabile. Guardate come la bella vi guarda!
— Ti sorride, — aggiunse Fedoro.
— Che scoppi! — gridò Rokoff.
Fortunatamente nè il monaco, nè la principessa comprendevano il russo e poi i tam-tam ed i tamburelli facevano un tale fracasso che le grida d’indignazione del cosacco non potevano espandersi.
La processione giungeva, preceduta dai suonatori. I Calmucchi, tenendo le lampade in mano, saltavano come caproni impazziti, cercando di evitare le buche ed i fossati scavati intorno alla piazza.
Il corteo fece tre volte il giro intorno all’altare, inchinandosi dinanzi alla principessa, al monaco e ai figli di Budda, poi si sciolse bruscamente.
Tutti correvano alle loro case o alle loro tende, dove le donne avevano preparate le cene che dovevano prolungarsi fino alle prime ore del mattino.
Anche la tenda della principessa era stata illuminata e si vedevano aggirarsi numerosi servi i quali portavano enormi piatti colmi di pilao, di carni arrostite, di frittelle, di pasticci e di enormi pezzi di cavallo in stufato, il vero piatto forte dei Calmucchi che non si fanno scrupolo alcuno di divorare, quantunque, come buddisti, non dovrebbero cibarsi altro che di vegetali e di latticini, proibendo la vera religione di sacrificare alcun animale agli appetiti del ventre.
— Che sia la cena di nozze? — si chiese Rokoff, vedendo il monaco far cenno al capitano di seguirli nella tenda, dove già la principessa li aveva preceduti. — Vivaddio, non mi lascerò prendere in trappola. —
Il capitano gli si era in quel momento avvicinato e non sorrideva più, anzi si mostrava piuttosto preoccupato.
— Signor Rokoff, — disse con voce un po’ grave, — credo che l’aria cominci ad intorbidirsi e temo che abbiamo commesso una vera minchioneria imbarazzandoci in questa avventura che avremmo potuto evitare facilmente. Quel mandiki comincia a diventare pericoloso.
— Insiste nella sua idea di farmi sposare quella vecchia?
— Più che mai, mio caro tenente e minaccia d’impadronirsi del nostro Sparviero se non accettate.
— Volete che lo faccia scoppiare come una vescica?
— So che ne sareste capace, ma dietro di lui vi è la popolazione di Turfan, un quattro o cinquecento nomadi e tutti armati. Se ci guastano le ali od i piani orizzontali, non potremo più fuggire.
— Capirete bene che io non ho alcuna voglia di diventare principe di Turfan e tanto meno il marito di quella vecchia scopa vestita da donna.
— Non domando tanto da voi, — disse il capitano. — Non sono così pazzo da consigliarvi ad accettare.
— Che cosa volete infine da me?
— Che teniate a bada il monaco e anche la principessa, almeno fino dopo la cena. Ah se potessimo ubbriacare l’uno e l’altra!
— Non avete quel famoso liquore dei monaci del monte Athos?
— La splendida idea! — esclamò il capitano. — Accompagnate la principessa, mentre io vado a prendere delle bottiglie per loro e per noi. —
Il mandiki che non li perdeva di vista, sospettando qualche trama, vedendo che il futuro principe di Turfan rimaneva, anzi, che s’avvicinava alla vecchia col sorriso sulle labbra, non si occupò di sapere dove si recava il capitano. A lui bastava che rimanesse il cosacco e non interruppe la conversazione che aveva cominciata con Fedoro sul numero dei montoni e dei cammelli e sulle ricchezze che possedeva la vecchia strega.
Quando entrarono nella tenda, trovarono quattro capi della tribù, certe figure gigantesche, colle cinture riboccanti di pistoloni e di certe specie di corte scimitarre somiglianti alle tarwar dei montanari dell’Imalaya, e d’aspetto ben poco rassicurante.
La principessa aveva preso posto sul divanetto, mentre i servi avevano coperto il tappeto, che occupava parte della tenda, di giganteschi piatti ricolmi di cibi.
Vedendo comparire Rokoff, lo guardò sorridendo e gli fece un grazioso inchino.
Il cosacco, che non voleva scatenare una tempesta, specialmente con quei quattro figuri, rispose con un altro sorriso, anzi fece di più, giunse perfino a mandare un bacio, sulle punte delle dita, alla futura moglie! Se Fedoro non scoppiò in un’omerica risata fu un vero miracolo e dovette soffocarla con una tazza di kumis che per caso si trovava a portata della sua mano.
Stavano per cominciare la cena, quando entrò il capitano portando un cesto pieno di bottiglie di ginepro, whisky, gin, brandy e anche alcune di quel famoso liquore del monte Athos, che Fedoro e Rokoff avevano esperimentato dopo la celebre pesca delle trote.
Ne mise una dinanzi a ciascun commensale, tenendo in serbo quelle dei monaci, per dare più tardi l’ultimo colpo.
Quantunque avesse pranzato poche ore prima, il mandiki si era messo a divorare come una belva a digiuno da una settimana, gagliardamente imitato dai quattro capi e anche dalla principessa, la quale, fra un boccone e l’altro, guardava sempre Rokoff che le faceva gli occhi dolci, pur mandandola, in cuor suo, a raggiungere presto i suoi cinque mariti ed il diavolo.
Il mandiki, che aveva vantato la squisitezza delle bottiglie dei figli di Budda, si era attaccato alla sua con tanta avidità da asciugarla completamente in pochi minuti. Anche la principessa aveva cominciato a baciare la sua con tale frequenza da sperare che si ubbriacasse presto senza attendere il liquore del monte Athos.
I suoi occhietti neri a poco a poco si animavano, il suo naso adunco come il becco d’un pappagallo si coloriva meglio, diventando color cioccolata e si era messa a chiacchierare con vivacità, rivolgendosi più spesso verso Rokoff il quale, si capisce, non la comprendeva affatto non conoscendo il Calmucco.
Immaginandosi però che gli indirizzasse delle gentilezze, rispondeva coi più amabili sorrisi e con inchini infiniti.
Il capitano intanto sorvegliava l’effetto che produceva il whisky sui quattro capi, che erano i più pericolosi con tutte quelle armi che avevano indosso. Vedendo che avevano maravigliosamente resistito a quella prima prova, sturò due bottiglie di ginepro, poi provò il brandy con grande consolazione del mandiki il quale beveva come una spugna.
Quell’acquavite vecchissima e di prima qualità, fu come un colpo di mazza anche pei capi.
— Cominciano a sentirlo, — mormorò il capitano all’orecchio di Fedoro.
— Ed il sonno li prende, — rispose questi. — Che bevitori però, questi selvaggi!
— Guardate se fuori non vi è nessuno.
— Ci saranno i servi.
— Ho regalato anche a loro delle bottiglie perchè si ubbriachino. —
Fedoro si alzò colla scusa di respirare una boccata d’aria fresca e rientrò quasi subito, dicendo:
— I servi russano presso i fuochi.
— E gli altri?
— Sono tutti nelle loro case e nelle loro tende.
— Avanti il liquore del monte Athos. —
Sturò quattro bottiglie, riempì le ciotole d’argento e le offrì ai Calmucchi dicendo al mandiki:
— Questo è il liquore che offre il mio amico dalla barba rossa ed è il migliore che si beva nella luna e nel paradiso di Budda. —
Il monaco, che già barcollava, afferrò una ciotola e la porse alla principessa, traducendole come meglio potè le parole del capitano, poi tracannò la propria d’un colpo solo.
— Questo è il nettare dell’immortalità, — barbugliò. — Si beveva sotto Gengiskan per rendere i guerrieri più formidabili.
— Aspetta un po’, vedrai come diventerai terribile, — mormorò Rokoff. — Sarai ben bravo se domani ti sveglierai. —
I capi vedendo la principessa bere l’avevano imitata, quantunque non potessero più tenersi seduti, non avendo la resistenza del mandiki.
Avevano appena vuotato le ciotole che si videro, uno dietro l’altro, accasciarsi e quindi stramazzare col corpo innanzi ed il viso in mezzo ai tondi ancora semi-pieni di pasticci e di carne.
La principessa, dopo un lungo sospiro ed un’ultima occhiata al cosacco si era rovesciata sul divanetto, cadendo addosso al mandiki il quale pareva che non sapesse più in quale mondo vivesse.
Rokoff, Fedoro e il capitano si erano alzati, estraendo le rivoltelle.
— Fuggiamo, — disse il cosacco. — Cara sposa, non mi vedrai mai più. Ti lascio i montoni, i cammelli e anche il secolo che ti pesa sulle spalle. —
Stavano per slanciarsi fuori, quando videro il monaco alzarsi e fare, brancolando, qualche passo innanzi.
— Fug...gono... all’ar...mi... ca...pi...! servi...! — gridò facendo sforzi disperati per attraversare la tenda.
— Non l’hai ancora finita? — urlò Rokoff, furibondo. — Prendi! —
Il suo pugno piombò col rumore d’una mazza, sulla faccia paffuta del mandiki.
Il Calmucco cadde in mezzo ai piatti e alle salse, colle gambe levate, facendo tremare perfino il suolo.
I tre aeronauti, sbarazzatisi di quell’importuno, balzarono fuori della tenda, passando sul corpo dei servi ubbriachi e si precipitarono verso il luogo ove avevano lasciato lo Sparviero.
Qualcuno se n’era accorto, poichè tutto d’un tratto si udì rimbombare un gong, poi un secondo, quindi un terzo.
— Presto! — gridò il capitano, precipitando la corsa. — Vengono! —
Degli uomini uscivano dalle tende che erano ancora illuminate! Vedendo quei tre fuggire si misero ad inseguirli, urlando a piena gola.
Lo Sparviero era però vicino e la macchina era pronta a funzionare, avendo il capitano avvertito il macchinista.
I tre fuggiaschi con un solo salto varcarono la balaustrata, mentre lo sconosciuto che si era armato d’un winchester a ripetizione apriva un magnifico fuoco accelerato contro i Calmucchi che accorrevano da tutte le parti, vociando minacciosamente.
— Via! — gridò il capitano che bruciava le cariche della sua rivoltella.
Lo Sparviero agitò le sue immense ali correndo addosso ai Calmucchi per prendere lo slancio, poi cominciò ad innalzarsi fra alcuni spari.
— Eccoli corbellati — esclamò Rokoff, mentre il trenoaereo fuggiva con una velocità di quaranta miglia all’ora.
— Io spero che quel briccone di monaco, dopo una simile avventura, non resterà nemmeno mandiki. Ah! Voleva innalzarsi sulle mie spalle e sul mio matrimonio! Sposala tu quella vecchia strega! Formerete una coppia unica al mondo. —
Turfan scompariva rapidamente; non si vedevano che pochi punti luminosi che diventavano, di momento in momento, sempre meno visibili.
— Dove andiamo, capitano? — chiese Fedoro.
— Verso il lago Bagratsch-kul, — rispose il comandante.
— A pescare delle altre trote?
— Non sono più necessarie. Lo attraverseremo verso la sua estremità orientale poi ci slanceremo sopra le sabbie dello Sciamo meridionale per raggiungere le frontiere del Tibet. Comincio ad averne abbastanza della Mongolìa.
— Ed io pure, — disse Rokoff. — Speriamo che non trovi anche là qualche principessa che s’innamori della mia barba rossa.
— Ci guarderemo dall’accostare i Tibetani, molto più pericolosi dei Calmucchi, non vedendo volentieri gli stranieri sul loro territorio. Se volete andare a riposarvi, fatelo pure; veglierò io assieme al macchinista.
— Non vi fermerete in qualche luogo? — chiese Fedoro.
— Domani, quando avremo raggiunto il deserto.
— Allora possiamo tenervi compagnia, — disse Rokoff.
Lo Sparviero filava colla velocità d’un uccello, costeggiando l’acquitrino che si estende al sud di Turfan e muovendo verso la piccola catena dei Chacche-tag.
Alla mezzanotte gli aeronauti si libravano sopra Toksun, piccola fortezza mongola, occupata da un presidio cinese per frenare le tribù nomadi del deserto che esercitano su vasta scala, il brigantaggio contro le carovane degli zingari.
All’alba il lago di Bagratsch-kul era già in vista e le sue acque salate assai scintillavano, come bronzo ardente, ai primi raggi del sole.
È un bel bacino, di forma molto allungata, formato dal Chaidagol e che ha, a poca distanza, delle cittadelle molto importanti e popolose, assai frequentate dalle carovane. Al pari di tanti altri, del Tibet specialmente, è tenuto in molta venerazione e nelle sue acque vengono gettate le ceneri dei defunti, credendo gli abitanti che giungano più presto nel paradiso di Budda.
Lo Sparviero rasentò per alcune miglia le rive orientali, poi continuò la sua corsa verso la piccola catena dei Kuruk-tag, entrando poco dopo il mezzodì nello Sciamo occidentale, molto più sabbioso, più brullo e più pericoloso di quello orientale, in causa dei venti impetuosi che soffiano dagli elevati altipiani del vicino Tibet.
Non è però arido quanto il Sahara, avendo dei laghi di estensione considerevole, come il Lob-nor che si trova ad un’altezza di settecentonovanta metri sul livello del mare ed il Tustik-dum, ed anche un fiume di largo corso che lo attraversa dal sud al nord, il Darja, senza contarne altri minori.
Sabbie se ne vedevano dappertutto e sempre irrequiete. I venti del Tibet le sollevavano in ondate e cortine e talvolta in colonne immense, roteando su sè stesse e le cui cime toccavano di frequente anche lo Sparviero, quantunque questo si mantenesse ad una altezza di quattrocento metri.
— Come è brutto questo deserto, — disse Rokoff, che lo guardava con una certa curiosità.
— Non è allegro di certo, — rispose il capitano, che gli stava vicino, tracciando delle piccole croci rosse su una carta geografica. — In tre giorni e anche meno lo attraverseremo e ci slanceremo sugli immensi altipiani del Tibet.
— E mi pare che non faccia nemmeno caldo qui.
— Ci troviamo a milleduecento metri sul livello del mare.
— Ditemi, capitano, è vero che sulle rive dei fiumi che attraversano lo Sciamo si trova molto oro?
— Tutta l’Asia centrale e specialmente la Cina ha miniere ricchissime, forse più che l’America e l’Australia.
— E non si lavorano?
— Voi dimenticate che la Mongolìa appartiene all’impero cinese.
— E che cosa volete dire con ciò? — chiese Rokoff.
— Che il governo imperiale proibisce severamente ai suoi sudditi di lavorare sia le miniere d’oro, che d’argento e di mercurio.
— E per quali motivi?
— Per non togliere braccia all’agricoltura e anche per evitare disordini. Ogni minatore sorpreso a cercar l’oro, qui come in Cina, senz’altro viene decapitato.
— Oh! gli stupidi! Eppure la Cina non è molto ricca in fatto di monete d’oro e d’argento.
— Lo so e anche l’Imperatore ricaverebbe immensi vantaggi se levasse la sciocca proibizione. Ciò non impedisce però che nella Mongolìa, la quale è prodigiosamente ricca di miniere, talune vengono lavorate di nascosto.
I minatori per far ciò devono riunirsi in bande numerose e bene armate, onde tener testa alle truppe che il governo non esita a mandare contro di loro per catturarli e decapitarli. Si può anzi dire che buona parte delle ribellioni interne avvengono precisamente per la lavorazione delle miniere, essendo i minatori costretti ad inalberare il vessillo della rivolta. Sono per lo più banditi, bene armati, che non s’accontentano solamente di frugare le viscere della terra, saccheggiando anche le vicine regioni per provvedersi gratuitamente dei viveri necessari.
— All’incirca come i primi minatori Californiani e Australiani, — disse Fedoro. — Anche essi, prima della proclamazione della famosa legge di Lynch, derubavano tutti.
— Peggio ancora, — disse il capitano. — Non sono molti anni, precisamente in queste regioni, un Cinese, e ve ne sono molti che sono dotati d’una capacità straordinaria per trovare i giacimenti auriferi, regolandosi, a quanto si assicura, sulla conformazione delle montagne e sulle piante che vi crescono, scopriva una ricchissima miniera. Sparsasi la voce, in pochi giorni diecimila banditi si radunavano per sfruttarla. Mentre però la metà di quei minatori passavano al crogiuolo i quarzi che contenevano oro in abbondanza incredibile, l’altra metà devastava i dintorni saccheggiando mezzo regno d’Uniot, che allora era tributario della Cina. Per due anni lavorarono estraendo tali ricchezze, che l’oro in tutta la Cina diminuì la metà del suo valore.
— Che miniera! — esclamò Rokoff. — Saranno diventati tutti ricchissimi costoro.
— No, finirono invece tutti male, — disse il capitano, — e in causa dei loro continui saccheggi e dei loro disordini. Il loro numero era così aumentato, che il re d’Uniot non osava assalirli, malgrado i reclami dei suoi sudditi e anche della Cina; ma un giorno costoro ebbero l’imprudenza di fermare la regina mentre stava attraversando una vallata per recarsi a pregare sulla tomba dei suoi avi e di depredarla di tutte le gioie che aveva indosso.
— Si vede che non erano ancora contenti dell’oro che estraevano, — disse Rokoff.
— E fu la loro rovina, perchè il re, indignato, mosse contro di loro, aiutato da buon nerbo di cavalleria tartara e ne fece un orribile macello. Essendo alcuni riusciti a fuggire e riparare entro la miniera, i tartari turarono tutte le uscite e poi li affumicarono. Per alcuni giorni si udirono le urla e i gemiti di quei disgraziati, che erano racchiusi in parecchie migliaia, poi a poco a poco si spensero, finchè il silenzio regnò assoluto.
— L’oro non aveva portato fortuna a quei minatori.
— Nemmeno ai pochi che erano caduti vivi nelle mani dei vincitori; furono fatti tutti acciecare per ordine del re. E ora, se volete, signor Rokoff, andate a lavorare le ricche miniere dell’impero cinese. Per parte mia vi rinuncio, preferendo conservare i miei occhi e anche la testa. —