I Fest de Natal/Prefazione

[Prefazione]

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Al Conte Alfonso Porro Schiaffinati I Fest de Natal

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Ho deciso invariabilmente, e almeno per questa volta non voglio far prefazione. Stimo bene di dispensarmene per due motivi: primo, perchè c’è anche troppo dei versi, e non bisogna avvezzare il publico rispettabile alla doppia ghiottoneria della prosa; e poi sono indispettito coll’ingrata patria che l’anno scorso non aggradì abbastanza il mio povero Pill, tanto in prosa che in versi. Malissimo: perchè io, vedete punizione della superbia! m’era fitto in testa che quella necrologia venuta a chiudere l’anno fosse la migliore di quante se ne scrissero in tutta Italia nel 1852: e il peggio è che lo credo ancora: e non posso guarire da questa monomania finchè un’anima pietosa non venga a dirmi: “Guarda, presuntuoso: questo è un cenno necrologico stampato a Roma, o a Napoli, o a Torino, o a Firenze, ecc. nel 52 o nel 53 (vada anche pel 53) e vale meglio del tuo, e come lavoro letterario durerà più a lungo." [p. 8 modifica]

Ma, fosse pur quello il peggiore dei libretti esciti dalla mia fabrica, sono io forse un uomo così dappoco, cioè così scarso di cordiali e attivi nemici, da non ottenere almeno per l’ultima volta un lauto spaccio dell’opuscolo in forza delle loro denigrazioni? Potendolo appena, oh come avrebbero gridato alla miseria della mia produzione! con che gioja e sollecitudine avrebbero interessato tutto il mondo a leggere e verificare la deplorabile decadenza delle mie facoltà! Ma essi non fiatarono nè credettero il caso da farmi fuoco addosso. Ciò prova che quei versi valevano almeno il loro prezzo. Oh, i nemici se ne intendono, e il loro mestiere di nemici lo fanno bene e a tempo opportuno: e io li stimo tanto, che ho pensato di procurarmene dei nuovi colla poesia presente.

Dunque sono gli amici svogliati e accidiosi coi quali io devo pigliarmela, e ai quali voglio dar notizie di casa mia. Figuratevi che varii di costoro, e tutti birboni pieni d’ingegno (io non conosco che brava gente), giunsero all’incredibile enormità di ignorare perfino l’esistenza del mio ultimo capolavoro. E proprio una mattina che io era passato dal mio tipografo a invelenirmi l’anima per la fiaccona della statistica libraria, mi capita l’incontro d’un Tizio che tra il severo e l’affettuoso mi dice: “Ma come va questa storia, che ti ostini da tanti anni a non darci più un verso milanese? è un torto imperdonabile, perchè quello era il tuo vero genere. — Ah mostro sacrilego e scomunicato! sei dunque anche tu di quelli che dopo otto mesi non sanno ancora nulla del Pill? — Che cosa è questo Pill? - È un cane, o [p. 9 modifica]cani che siete tutti: per mia regola, da che paese vieni tu? dalla Siberia, dal Giappone, dall’inferno? Non alzi mai gli occhi agli angoli delle contrade, dove per tanto tempo ho fatto affiggere avvisi sterminati? Non mi sono fatto annunziare tre volte sulla Gazzetta? Non ne parlarono diffusamente varii fogli periodici, fra i quali il Crepuscolo che è il migliore di Lombardia? Ma che sai di crepuscolo tu, così immerso nelle tenebre perpetue da essere ancora al bujo su quel mio bellissimo libretto?”

Cari amici, parliamo un momento da senno. Che non leggiate nessun libro, nemmeno i più inutili, è cosa naturale; e quasi quasi, a dirvelo in confidenza, sono anch’io del vostro parere. Che ignoriate perfino l’apparizione de’ miei, pazienza ancora: ma di ciò, per quanto io lo sospetti, non voglio esser fatto certo da voi medesimi. Dunque veniamo a patti. Quelle rare volte che ci incontriamo per le strade di Milano, a buoni conti per prima cosa congratulatevi del mio ultimo opuscolo, e ditemi che è la cosa più bella e felice che sia escita dalla mia penna. Si può fare di meno per consolare un galantuomo che si pasce e si mantiene grasso di queste piccole vanità? E io in ricambio vi prometto di non farvi la menoma dimanda che vi ponga in pericolo di dovermi dire in che lingua sia il libro, o se tratti piuttosto della luna che dei ravanelli. Oh, me ne guarderò bene, perchè dall’aneddoto che sono per raccontarvi ho imparato a mie spese quanto sieno compromettenti siffatte indiscretezze.

Un giorno (storia vecchia di almeno quindici anni) [p. 10 modifica]incontro per via un professore di non so che cosa in uno di quelli instituti di educazione dove si insegnano ai ragazzi quindici o venti scienze, nelle quali il più dotto è l’imbiancatore della casa che le ha compendiate col pennello in aforismi su tutti i muri delle scuole. Mi narra di aver letto e reso di publica ragione un discorso per la distribuzione dei premii; e cavandone un esemplare dalla saccoccia, mi prega di aggradirlo, di leggerlo attentamente e sapergliene poi dire il mio parere. Promisi di farlo, e ci lasciammo per direzioni opposte. A quaranta passi di distanza mi fece pervenire un grido di nuova raccomandazione, e io, per non isfiatarmi come lui, mi posi con solennità una mano sul cuore, e andai. Giunto a casa, gettai la dissertazione non mi ricordo più dove, e la dimenticai affatto, perchè io non patisco la curiosità; e credermi poi capace di leggere un componimento academico, e sul tema uggioso della publica istruzione, sarebbe quasi una calunnia.

Dopo qualche tempo vedo di nuovo l’amico, e io smemorato, che avrei potuto salvarmi in una porta, gli vo incontro pel primo colla solita buona ciera. “Hai letto? — Che cosa? — Il mio discorso. — (Ah poveretto me, coraggio!) Diamine, puoi dubitarne? — E che te ne pare? — Senti: io aborro l’adulazione, ma devo confessarti che per quanto mi attendessi da te, hai superato la mia aspettazione: peccato che siano cose lette a fanciulli e a mamme che per solito sono giudici incompetenti: è però bene che a questo abbia rimediato la stampa. — E, dimmi un poco, qual parte dell’orazione ti è piaciuta [p. 11 modifica]meglio? — Oh, non farei torto a nessun brano: la mi è andata tutta egualmente a sangue dalla prima fino all’ultima riga. — Però avrai rilevato con che sottile e velata ironia io abbia satirizzato i moderni sistemi d’insegnamento. — E come l’ho rilevato! io che sono così tenace dei sistemi vecchi: quella seconda parte è stupenda (mi immaginava che l’ironia dovesse venire in fine, dopo esaurita la munizione degli argomenti sodi.) — No, caro: è nella parte prima, e incomincia alle ultime righe della pagina sesta. — Ma sì, intendo bene la prima: ho forse detto la seconda? che balordo! è il mio vizio di proferire una parola per l’altra....” Io sudava freddo sotto a quell’inquisitore instancabile, nè so come la faccenda sarebbe andata a finire, se la providenza che veglia pietosa perfino sui bugiardi, non avesse fatto passare di là una signora di mia conoscenza, alla quale lanciai una così supplichevole occhiata, che deviò dal marciapiedi per venire in mio soccorso. Allora feci la presentazione di lei a lui e di lui a lei: le feci ammirare nel professore un uomo di lettere da non confondersi cogli altri di questo nome: dissi che aveva recentemente publicato una dissertazione che in Francia sarebbe bastata per farlo salire ben alto, ma qui non gli avrebbe fruttato che una moltitudine d’invidiosi: e licenziato l’amico con una di quelle strette di mano che non ammettono replica, mi avviai colla mia benefattrice, e sic me servavit Apollo.

Chi non è autore di libercoli, non può arrivare a comprendere l’importanza che costoro attaccano ai parti della loro mente. Per loro l’universo si concentra in quelle tre [p. 12 modifica]o quattro dozzine di pagine che tutti dovranno divorare e ammirare. Che giornata campale è mai quella della publicazione! È una impresa seria a portare e mandare intorno in una sola mattina presso che cento esemplari a tante conoscenze: perchè essendo l’opuscolo in linea venale un regalo da tre soldi (quando anche non sia da tre centesimi in linea d’ingegno), tutto il merito sta nella grata sorpresa, e nel farvi essere dei primi ad averlo. Guai se si aspettasse fino all’indimani! certamente tutte quelle pratiche sarebbero già corse in folla dal libraio a comperarlo.

Ma poi, quali disinganni, e quali scottature all’amor proprio! Si va due mesi dopo in casa tale, e trovate là su di un tavolino il vostro opuscolo vergine, intonso: vi ringraziano tanto, fanno le presuntive felicitazioni sul nuovo lavoro che già deve essere, come al solito, bellissimo: deplorano quei benedetti affari che impedirono fin ora di occuparsene: ma ai primi giorni di quiete lo leggeranno col massimo piacere. Trovo in piazza il signor tal altro che, per essere venuto due volte a farmi visita a Monza, è diventato amico anche del Pill: e mi fa le sue condoglianze per la di lui morte. Ho capito! costui non è ancora giunto alla pagina della risurrezione: o forse, leggendo il primo verso l’è mort el pover Pill, credette che si trattasse d’una circolare di decesso, disse: “Povera bestia!” e non andò più innanzi.

Ma sentitene un’altra sola che è la più fiera che mi sia accaduta, almeno fin’ora: perchè non si sa mai di che morte s’abbia a finire. Un amico... sono sempre gli amici che le [p. 13 modifica]fanno più grosse; e qui si tratta proprio d’uno dei migliori, direi quasi il mio Pilade da circa un quarto di secolo. Una sera, in dicembre dell’anno scorso, mi capita dalla campagna mentre stavo ritoccando le ultime prove di stampa. Mi offro di leggergli quei versi, egli accetta di buon grado; leggo: mi fa sulle prime qualche osservazione perchè è uomo di gusto difficile: e poi a poco a poco cessa affatto d’interrompermi: io proseguo con più cuore e lena, persuaso che tutto gli piaccia, e prevedo un successo strepitoso ai miei versi. Ma quel silenzio era soverchio, e mi pareva quasi affettato: pur troppo era naturalissimo: alzo gli occhi... e vedo chiusi i suoi: s’era addormentato! “Dorme l’assassino (io pensava, seguitando imperturbabilmente a leggere), e questo bell’effetto l’ottenni io in meno d’un quarto d’ora coi prodotti del mio genio: che senza avvedermene avessi inventato un potente narcotico? Altro che magnetismo animale! Ma chi più animale tra noi due? io che vo a cercare col lanternino siffatti elogi, o lui che me li prodiga con tanta facilità e prontezza? Ah, per satanasso! quanto non pagherei ad aver qui una pistola carica a polvere, che vorrei sparargliela rasente all’orecchio e dargli una lezione di veglia! in quel modo che ai bracchi mal educati si usa a tirare qualche schioppettatina nel di dietro perchè imparino a stare attenti sulla caccia. Però, ho io il diritto di andare in collera? nella sua crudele eloquenza quale cosa più innocente, spontanea e inconscia di sè stessa d’una buona dormitina quando si ascolta una lettura nojosa?„ E, oh gara sublime di amicizia! Pilade dormiva placidamente alla voce [p. 14 modifica]cullatrice di Oreste: e Oreste, svaporato il furore, consumò il sacrificio leggendo fino all’ultimo verso, per non isvegliarlo con una brusca fermata, e farlo trovare mortificato del suo brutto complimento.

Ma in che labirinto di fanfaluche vo io ingarbugliandomi? State un po’ a vedere che nel render ragione del perchè mi rifiuto a dare la solita prefazioncella, mi troverò fatta senza accorgermene una prefazionaccia delle più strambe! Non vorrei rassomigliare a quel distratto della comedia, che levatosi da letto una mattina coll’intenzione di restare in casa tutto il giorno, si tenne in veste da camera, mutande e pantofole; ma poi, escito per qualche affare in quella foggia, rispondeva per le contrade a quanti se ne meravigliavano: “è perchè oggi non mi movo di casa.”

No che, pensandoci bene, non gli rassomiglio. Questa non è prefazione, e non può esserlo: perchè sono ciarle affatto estranee alla presente poesia sul Natale: e ve ne avverto io per non lasciarne ai critici la scoperta. La vera prefazione, se mai alcuno si ricorda ancora di una mia promessa, doveva specialmente versare sui motivi che mi indussero da qualche tempo a questo modo di verseggiare senza freno di metro. Oh che lampi nuovi di filosofia e di estetica musicale avrei fatto balenare in quel proemio che non voglio far più! Vi avrei perfino spiegato come il mio ultimo e migliore maestro di poesia sia stato il campanile di San Giovanni in Monza. Sì: in quel modo che i concerti di campane a ruota suggerirono ai poeti italiani la terza, la sesta e l’ottava rima colle loro cadenze attese a tempo [p. 15 modifica]fisso; così i concerti a sbalzo con quel loro tempestare insistente, senza posa, dirotto, con quell’armonia babelica, o babele armonica, diedero vita alla forma ditirambica, libera, con versi lunghi e brevi, appajati, divisi, con rime alterne, vicine, lontane, a due, a tre, a quattro, a salti, a gruppi, a richiami. Chi non ha sentito queste otto stupende campane agitarsi tutte insieme furiosamente a stormo nelle solennità, non può imaginarsi l’effetto che rendono all’anima: da lontano dolci, graziose, festive, esilaranti: da vicino minacciose, opprimenti, terribili fino a darvi le vertigini. Le acute sembrano Eumenidi sibilanti il solvet sæclum in favilla; le gravi pajono urlare con voce di tuono il mane techel, phares di Daniele. Hanno qualche cosa di strapotente, di enorme, di michelangiolesco: e non sarebbero proporzionate che alla gran Basilica Vaticana, d’onde emanano le voci da udirsi per urbem et per orbem. Oh se volessero appena per un mese suonare incessantemente giorno e notte a mio benefizio! Anderei a star di casa là sotto: e coll’accompagnamento di quel fragore spaventoso mi sentirei capace di fare tre o quattro mila versi sul Giudizio universale e sul finimondo. Forse escirei da quella prova sordo o frenetico in compagnia di mezza la città: ma che importano queste piccole contingenze in confronto alla creazione di un capolavoro dell’arte?

Pensate adesso se coll’orecchio rieducato così da dodici anni, io possa ancora scrivere a ruota e riadattarmi alla smilza sestina, o alla monotona e posata ottava, come quando riceveva le inspirazioni dalle campane metodiche e [p. 16 modifica]flemmatiche del Carmine, di San Marco, di San Simpliciano. Sarebbe come pretendere che la nostra gioventù danzante rinunciasse alla vorticosa galoppe per il contegnoso minuetto del secolo passato.

Altronde, la poesia a sbalzo, benchè non nuova nella forma, è destinata ad avere adesso il suo massimo sviluppo, perchè cónsona ai bisogni dell’epoca: la quale, come fa allargare le contrade divenute insufficienti a tanta circolazione di popolo e di grossi veicoli; così esige che indeterminatamente si allarghino i periodi al più libero muoversi del pensiero sciolto, pieno, non trattenuto da una rima inevitabile, nè impicciolito dallo strettojo d’una strofa. In questo modo si dice ciò che si vuole, e come si vuole: si è più padroni della propria lingua; l’autore è più completamente sè stesso. E poi (altro bisogno dell’epoca) si risparmia sul tempo: e il tempo è prezioso in questa vita così occupata e così breve. A chi reggerebbe ora la coscienza di consumare sei mesi per cento ottave, quando in due settimane si possono scrivere mille versi a sbalzo? E poi...

Ma appunto perchè il tempo è prezioso, non vo più avanti. Sarei ben matto a spiegare in prosa la teorica dei versi a gente sazia di versi e di prose. Nè ho cuore di proseguire nemmeno per gli amici, perchè essendo già un quarto d’ora che parlo, ho paura che si addormentino tutti.

Dunque, buon Natale, e buon capo d’anno a tutti quanti: ma biglietti di visita, a nessuno. Le mie carte di visita sono là dal librajo: tutto il mondo è invitato adesso e sempre a volersene procurare.