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tro per via un professore di non so che cosa in uno di quelli instituti di educazione dove si insegnano ai ragazzi quindici o venti scienze, nelle quali il più dotto è l’imbiancatore della casa che le ha compendiate col pennello in aforismi su tutti i muri delle scuole. Mi narra di aver letto e reso di publica ragione un discorso per la distribuzione dei premii; e cavandone un esemplare dalla saccoccia, mi prega di aggradirlo, di leggerlo attentamente e sapergliene poi dire il mio parere. Promisi di farlo, e ci lasciammo per direzioni opposte. A quaranta passi di distanza mi fece pervenire un grido di nuova raccomandazione, e io, per non isfiatarmi come lui, mi posi con solennità una mano sul cuore, e andai. Giunto a casa, gettai la dissertazione non mi ricordo più dove, e la dimenticai affatto, perchè io non patisco la curiosità; e credermi poi capace di leggere un componimento academico, e sul tema uggioso della publica istruzione, sarebbe quasi una calunnia.

Dopo qualche tempo vedo di nuovo l’amico, e io smemorato, che avrei potuto salvarmi in una porta, gli vo incontro pel primo colla solita buona ciera. “Hai letto? — Che cosa? — Il mio discorso. — (Ah poveretto me, coraggio!) Diamine, puoi dubitarne? — E che te ne pare? — Senti: io aborro l’adulazione, ma devo confessarti che per quanto mi attendessi da te, hai superato la mia aspettazione: peccato che siano cose lette a fanciulli e a mamme che per solito sono giudici incompetenti: è però bene che a questo abbia rimediato la stampa. — E, dimmi un poco, qual parte dell’orazione ti è piaciuta me-