Guerino detto il Meschino/Capitolo XVII
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CAPITOLO XVII.
Imprese del Guerino contro i Cinamoni.
Stato il Meschino cinque giorni a campo alla città di Gaconia, Galafar mandò un suo famiglio al Meschino dicendo, che voleva combattere con lui corpo a corpo, e mandò a dirgli che se il Meschino era franco cavaliere come aveva nominanza, non dovesse rifiutare la battaglia. Ciò non faceva per volontà, che egli avesse di combattere, tanto quanto lo faceva che vincendo il Meschino egli metterebbe paura nel campo, e qualche accordo avrebbe avuto dal prete Janni. Ma a lui intervenne come al re Pirro d’India ed al re Alessandro di Macedonia, il qual re Pirro si vergognò che un uomo sì piccolo come Alessandro l’avesse vinto, e per mostra di non esser vinto dalla gente d’Alessandro, combattè corpo a corpo con lui. Alessandro l’uccise, che l’avrebbe lasciato in gran signoria. E così intervenne a costui, come al re Priamo che per vendicar la sua onta, pericolò egli e il reame di Troja. Compiuto il famiglio l’ambasciata di Galafar, tutti i circostanti si levarono dicendo che il Meschino non combattesse, imperocchè Galafar combatteva per disperazione, e che tosto sarebbe vinto per assedio. Ma il Meschino considerava, che la battaglia era cagione di più presta vittoria: perciò rispose al messo, che egli era di somma grazia a combatter con lui, però che l’onor saria tutto suo della vittoria, e aggiunse: «Questa sera, quando la luna si dimostrerà, saremo armati alla battaglia;» e fece far salvo condotto a Galafar, che venisse a combattere sicuramente che altra persona non l’offenderebbe che egli. La cagione del combatter la notte, era per il gran caldo, che faceva di giorno, che non si avrebbe potuto durar la fatica. Mandato via il messo radunò tutti i capitani del campo, e in questa forma li confortò.
«O nobilissimi signori principi cristiani, disse il Meschino, io conosco per due cose la paura di questa battaglia essere in voi, l’una il grand’amore che avete verso di me, l’altra, che l’inimico non vinca, perchè vincendo egli, fate conto d’esser perduti tutti. Ma ditemi, signori, se non fossi io arrivato nei vostri regni, come avreste voi fatto? Credete voi che la possanza di Dio vi manchi? Certo no. Imperocchè Iddio ama sempre la ragione; in primo cacciò Dio la superbia dal cielo, e tanto dispiacquero a Dio gli scellerati modi dell’umana natura, che coperse la terra d’acqua per il diluvio, e solamente quelli dell’arca riservò, perchè essi erano netti di tanti peccati, quanti regnavano nel mondo. E per la superbia di Nembrot venne la division delle lingue, e per il peccato contra natura sommerse ed arse Sodoma e Gomorra, e tutti questi peccati sono entrati in questa generazione de’ Cinamoni, e per questo Dio sarà con noi in nostro ajuto. Non temete, ch’io perda, nè v’assicurate ch’io vinca; benchè io abbia tanta speranza in Dio, per le sopraddette ragioni, che mi darà vittoria». Per queste parole i baroni presero conforto e buona speranza.
La sera, poi ch’essi avevano cenato, all’ora che si suol andar a dormire, il Meschino fe’ trovar tutte le sue arme, perchè la luna era levata, e mentre che si armava, gli fu fatto sapere, che il suo avversario Galafar era uscito dalla città armato sopra un gran cavallo. Il Meschino subito montò sul suo, e disse ai baroni: «se la fortuna mi fosse contraria, e che io perdessi, non vi movete niente per mio soccorso neppure con un solo armato, chè la sarebbe codardia; ma poi che io fossi vinto, fate assediare la città, d’ogni parte che non possano aver soccorso». Poi si raccomandò a Dio, pregando che gli desse grazia di trovar suo padre, e la sua generazione; e lo pregò che gli desse questa vittoria per sostentamento di tutti i cristiani. E fattosi il segno della santa croce ed imbracciato lo scudo, con l’elmo in testa, e la lancia in mano, andò verso Galafar avendo lasciato da lui un poco discosto mille cavalieri, per temenza di quelli ch’erano nella città, onde non gli facessero oltraggio. Galafar al lume della luna non parlò, ma spronò il cavallo, e si mise la lancia in resta. Guerino sentendo il correre di Galafar, andò verso lui con la lancia su la testa, e dieronsi due colpi terribili, e ruppersi le lancie addosso: ma Galafar rimase alquanto ferito nel petto. E rivolti i cavalli misero mano alle spade; la spada di Galafar era molto grande, come le scimitarre de’ Turchi, e giunti l’uno all’altro, Galafar diede un gran colpo al Meschino, che lo fece tutto stordire. Galafar gli volle correre addosso per dargli un altro colpo, Duello tra Galafar e il Meschino. ma il Meschino gli diede una punta in gola, ed un poco lo ferì. Allora Galafar adirato lo assalì, il Meschino assalì lui; e dieronsi due gran colpi; e Galafar, divise in due parti lo scudo a Guerino, ed egli a Galafar menò un colpo che gli levò un gran pezzo dello scudo, e il cavallo trasportollo. Quando Galafar vide di non lo aver ucciso si volse a Guerino, e menogli un colpo che tagliò il cavallo di Guerino a traverso; il cavallo di Galafar urtò quello di Guerino, e gli uomini, e i cavalli andarono in un monte, quello di Galafar traendo gran copia di calci. Disse Guerino, presto gli provvederò: e volendo montare a cavallo Galafar, subito Guerino, che non fuggisse se montava a cavallo, tagliò una gamba al cavallo, e rimasero tutti e due a piedi, e ricominciarono la battaglia; ma Galafar perdeva molto sangue per la ferita del petto e della gola. Guerino non era ferito per le buone armi ch’egli aveva, niente di meno Galafar menava maggiori colpi, e aveva più forza: ma Guerino era più destro nell’arme. Se Guerino non si fosse guardato da’ suoi colpi certo l’averebbe ucciso, poco sapeva dell’artificio delle armi, ma si fidava tutto nella forza. Guerino combattendo gli disse: «O franco Galafar renditi al prete Janni, e io ti prometto ch’ei ti perdonerà del fallo che tu hai fatto, non dubitare ch’egli è tanto benigno Signore, che se tu gli dimandi perdonanza, benignamente ti perdonerà». Galafar montò in superbia come il villano, e credette che il Meschino dicesse queste parole per paura ch’egli avesse: tanto quanto lo pregava, tanto più s’insuperbiva, perchè non aveva in sè ragione, e gridò verso il Meschino, in arabesco, che non voleva pace con lui nè col suo Signore, ed il Meschino in arabesco gli rispose. Galafar prese a due mani la spada, la menò verso il Meschino, e diedegli sullo scudo. Il Meschino gli menò la spada per traverso, e la fortuna non volle che lo ferisse; ma diede della spada in quella di Galafar, e tagliolla quasi fin a mezzo. Galafar con quel pezzo di spada avanzata diede nel petto al Meschino, e volle andargli addosso, ma il Meschino con la punta lo teneva scostato da lui, ed ei corso verso il suo cavallo, tolse dall’arcione una mazza ferrata, con tre catene di ferro, e ogni catena aveva una pallotta di metallo appiccata. Dice il Meschino, che quando vide questo, ebbe gran temenza di morte. Si raccomandò a Dio con paura, nondimeno si ridusse a buona guardia. Il lume della luna non gli pareva freddo, anzi pareva che avesse la forza del sole, quando è nella sommità tra Cancer, e Leo. Tal botta diede in terra, che cento braccia fece intorno a loro tremare, e fece gran polverio. Il Meschino si gittò innanzi, e credette di dargli sul collo: ei si tirò indietro, e la punta della spada giunse al petto. Allora Galafar prese la mazza, e con furia corse addosso al Meschino, ed ei con la punta lo ritenne, e gli menò un altro colpo, ma non potè sì tosto fuggire, che una delle pallotte lo colpì sulla schiena, sicchè cadde disteso in terra e gridò: ajutami Dio, e drizzossi su, ed ei gli corse addosso per pigliarlo, e se l’avesse preso per la sua fortezza, non era riparo: ma il Meschino gli porse la punta della spada al corpo, per modo, che quando ei si sentì punger non venne più avanti, e lo ferì alquanto. Poi menogli un colpo della spada basso con tutta la forza, e bella grazia gli fece Dio, che un poco di sotto dai ginocchi dove non aveva arme, gli diede, e togliolli tutte due le gambe, ed ei cadè, come un arbore tagliato dal boschiero. Il Meschino disse: «O maledetto cane, la morte che tu meriti Dio te l’ha mandata, ora rimani, poich’io ho la vittoria non ti voglio dare allegrezza di morte». E lasciollo stare in così fatto modo. Ritornò a piedi verso la sua gente, e a una picciola acqua si pose a rinfrescarsi. Le sue genti gli andarono incontra, e credevano che fosse molto ferito, e abbracciavanlo molto piangendo, dimandandogli come stava, ed ei disse tutto il fatto, del che furono molto allegri. Allora molti corsero verso il campo gridando vittoria, dov’era Galafar, e compirono d’ucciderlo, e tagliatagli la testa, portaronla nel campo sopra un tronco. Il Meschino andò al suo padiglione, e gli fu fatto trionfale onore, tutti lodando Dio che gli avesse dato vittoria. La testa di Galafar fu mandata al prete Janni, e per questa vittoria fu fatto per tutti i suoi regni grande allegrezza.
Nel giorno seguente, come fu dì, mise il campo alla città, più strettamente serrandola con forza, e quelli di dentro bestemmiavano i cieli, e la fortuna, non conoscendo che tanto tempo avevano senza ragione regnato. Il Meschino mandò a dir loro, che si accordassero fra tre giorni, e che se non si volessero accordare sarieno tutti morti a fil di spada. Il secondo dì s’accordarono, ed egli perdonò a tutti, salvo che ai principali ch’erano stati cagione del male. Andò al prete Janni a dirgli se voleva, ch’egli entrasse nel regno de’ Cinamoni, il quale rispose, che questa cosa rimetteva a lui. Il Meschino non volle distrugger sì belli paesi, ma mandò per tutto il reame de’ Cinamoni, per quelli che avevano consentito alla ribellione contro il prete Janni e far signor Galafar, e molti fece decollare, ed a tutti quelli che avevano ubbidito per forza perdonò, e mise rettori per tutti quei paesi. Non hanno i Cinamoni altro che cinque città, e pel loro paese vi sono selve, boschi, lagune, montagne, infiniti fiumi d’acque, e abitavano dragoni, serpenti, tigri velenosi, elefanti selvatici, leopardi, leoni, babuini, scimie, e vi sono molte regioni di uccelli, fastidiosi e puzzolenti. Queste genti sono uomini grandi, e gente grossolana, che domano elefanti, e li domano in questo modo. Quando gli elefanti dormono stanno dritti appoggiati a un arbore, i Cinamoni segan l’arbore appresso terra, e non lo segano tutto e quando gli elefanti s’appoggiano, l’arbore casca, e cascano gli elefanti. Poi non si ponno drizzare, perchè non hanno giuntura nelle gambe nè ne’ ginocchi, perciò i Cinamoni drizzano gli elefanti, e poichè li han legati li menano alla loro stanza, e un solo dà da mangiare ad essi, e ogni volta che dà loro da mangiare, li carica di molte bastonate, e fa questo un mese. Poi un altro comincia a venir all’elefante senza fargli male, ma quel di prima fa vista di dargli, e quello caccialo via; e dura un altro mese. L’elefante pone tanto amor al secondo, perchè lo difende che si lascia trascinare da colui come vuole. Il Meschino stette in questa città di Gaconia due mesi, poi ritornò a Dragonda, dove era il prete Janni, e fugli fatto grande onore, e non come capitano, ma come signore.
Ritornato il Meschino con l’oste a Dragonda, il terzo giorno si radunò il consiglio, e trattossi in quel dì rimeritare il Meschino della vittoria ricevuta, nel qual consiglio ebbe per invidia molti contra di lui, secondo che da’ suoi amici gli fu detto, e vi furono alcuni che dissero: «Signore, costui è forestiero e ogni poco dono gli basta, dategli cavalli, armi e denari, egli è uomo da battaglia, e questo gli piacerà più che altro». Dicevano altri che gli desse dei castelli ch’egli aveva acquistati o un poco di provvisione. Alcuni dicevano che non se gli desse castelli: «Però che a questo piace signoria, ed egli è sì franco cavaliere che si potria far signore di questo paese; dategli una nave carica di molta ricchezza, e potrete sicurar al Soldano che carichi in Alessandria, e vada ricco a casa». Questi lo volevano per invidia mandar via. Alcuni dicevan: «Noi abbiamo bisogno d’un capitano, tengasi per capitano come egli è». Alcuni dicevano: «Dianseli, case, possessioni e bestiami». Allora si levò il prete Janni dicendo: «O carissimi miei figliuoli e fratelli, se fosse un che mettesse su una sua vigna due lavoranti; un la guastasse e l’altro la lavorasse, qual di lor meriterebbe meglio esser pagato?» Risposero: — Quel che fa buon lavoro. — E se non pagasse la fatica a quel che fa bene farebbe gran peccato?» Allora il prete Janni riprese: «O fratelli carissimi, quanti capitani abbiamo avuto contro i Cinamoni e nessuno non gli ha domati se non che Guerino, e ha rinfrancato questo nostro paese con la sua forza, e con il suo ingegno. Quando noi mandammo il capitano innanzi a lui, non fu egli sconfitto e morto con quarantamila nostri cristiani? invece costui ha acquistato mille e duecento elefanti, e dei nemici ha uccisi centomila Cinamoni, e prese le città perdute. Non vi ricordate che faceste apparecchiar tanti carri ed elefanti per caricar il vostro tesoro per fuggire; e questo servo di Dio non ci ha liberati di questa fuga? Io vi dico che a lui conviene la signoria e non a noi, perchè noi la perdevamo, e costui l’ha acquistata; però fatelo signore di mezza l’India, e mezza la terremo noi, e se egli la volesse tutta, egli se l’ha acquistata, e debbe esser sua, chè senza di lui non potevamo regnare. Però sia morta in voi ogni invidia, e ogni avarizia, ed ogni paura di lui, però che ei mi par tanto gentile e da bene, che per noi ci fa, che ci sia signore, perchè egli ama i virtuosi ed ha in odio i cattivi». Gridarono, tutti: «O Santo Padre nostro, come voi avete detto così sia:» e d’accordo mandarono per Guerino, il quale entrò in consiglio.
Levossi dritta tutta la baronia, quando Guerino entrò nel consiglio, ed onorollo come signore. Il prete Janni il prese per la mano, e voleva che sedesse vicino a lui, ma egli non volle, s’inginocchiò a’ suoi piedi, e posesi a sedere al basso. Allora gli fu fatto manifesto quello che tra loro era deliberato. Il Meschino ringraziò il prete Janni e tutta la baronia, e disse: «Signore, ho acquistato molto maggior signoria, che voi non credete, e che voi mi volevate dare, imperocchè io ho acquistata la grazia di Dio, e per la fede ho combattuto i Cinamoni per difendere tanti bellissimi reami dalle mani di così bestial gente. Io non vo cercando nè reami, nè signoria, sol cerco il mio padre». E allora presenti tutti, disse la cagione perchè cercava il mondo, e inginocchiossi innanzi al prete Janni, e pregollo che pregasse Dio nelle sue orazioni per lui, che gli desse grazia di trovare il suo padre e la sua sanguinità, e disse parte delle sue disavventure, e come era stato agli albori del sole, e della luna, e non rimase nessuno che non piangesse per la pietà, che gli venne di lui. Il santo prete Janni si levò, preselo per mano, e menollo dov’eran tutti i tesori. Quel ch’egli vide non si potria credere. Gli mostrò cento forzieri pieni d’oro fino: pensa quanta fu la quantità dell’argento! e non v’era camera, che non avesse arbori d’oro e d’argento, che parevano proprio quel frutto a cui erano assimigliati. Di tutte queste ricchezze gli profferse il prete Janni la metà, il Meschino lo ringraziò, e pregollo che gli desse licenza di partire. E da lui si confessò e comunicossi. E’ vedendo, che si voleva partire, gli volle dare gran compagnia, ma gli disse Guerino, non volere altra compagnia, che le due guide per passar le terre del Soldano di Babilonia, ma che bene vedrebbe volentieri le sue città e il reame d’India minore. Il prete Janni piangendo gli diede licenza, due interpreti, e lettere d’ogni sicurtà, e il Meschino partissi da lui con cento a cavallo, che per tutto il reame gli fecero compagnia. Oh quanti belli paesi, e reami, e città, e castelli vide sotto il potere dal prete Janni!
Benchè in parte l’invidia fosse in molti, nondimeno per il bel commiato, ch’egli tolse, non rimase alcun che non lagrimasse. Guerino diceva a tutti: «Pregate Dio per me, che mi dia grazia di trovar di che gente son nato, poi che io son due volte battezzato». Da poi che fu partito da Dragonda con questa compagnia, andarono per molti dì passando molti castelli e villaggi, e tutta la gente, per dove passava, veniva per vederlo, per la gran nominanza della guerra, che aveva vinta contra i Cinamoni. E cavalcando molti dì giunse dove il fiume Stapar si divide in due parti, l’una che corre verso il mar della Rena, detto fiume Duro, l’altra chiamato Nilo. Passarono sull’isola Mercon, dove vide quattro belle città, la prima detta Darone, la seconda Esser, la terza Magombo, la quarta Maor. E gran piacere ebbe di vedere tante belle città e castelli, e tutta l’isola piena di ricchi casamenti. Partito che fu di questa regione, ed isola venne nel gran paese detto Alfanili, e vide la città di Coson, e andarono per il Mar Rosso dandosi gran piacere. Di là andando verso Egitto giunsero alla gran montagna chiamata da loro Cimasor che gli Egizii la chiamano Camerata, dove son le porte di ferro, e passa il fiume Nilo per mezzo di queste montagne. Volle il Meschino veder queste porte, e mai non vide le più forti cose. Eravi un muro grandissimo di pietre, dove il fiume passa queste montagne per il mezzo, e capita in Egitto. Questo muro è di larghezza cento braccia, e alto ottanta; d’ogni lato ha una fortezza su la montagna tanto terribilmente forte, che molto si maravigliò; e sopra il monte verso l’India è un muro fortissimo con cinquanta torri, cioè venti di sopra e trenta verso l’Egitto. Il muro grosso ch’è fondato nel fiume, è lungo per traverso duemila braccia, ha bocche grandissime dove passa l’acqua del Nilo, e queste bocche son saracinesche grandi da mandar giusto per modo, che non potria venir l’acqua in Egitto. Dimandò il Meschino: «Serrate le bocche dove si spanderebbe l’acqua del Nilo?» Gli fu risposto, che andrebbe alle montagne del mar Rosso, e parte ne andrebbe nel mar del Sabbione verso ponente di Libia. E tutto l’Egitto, che son settantadue i rami, perirebbe per l’acqua; e quindi lì non piove mai, e due volte all’anno questo fiume bagna tutte le terre loro. Per questa paura d’inondazione danno gran tributo al prete Janni. E qui lasciò la compagnia, salvo che abbisognò di due sole guide, ch’ei menò seco. Per due giornate sempre Porte del fiume Nilo. trovarono altissime montagne, molto bene abitate da domestica gente, poi su per le montagne gente mezza selvatica, che avevano atti più da uomini bestiali, che umani. In sei giorni passò queste montagne, e giunse ad una bellissima, e gran città d’Egitto chiamata Sinassi, e fugli detto che verso Libia, in fine di quelle altissime montagne, era una nazione di gente, chiamata Piccinaglia, che non erano più di mezzo braccio lunghi, sicchè sono assai molto minori, che non sono quelli dei paese dell’India maggiore.