Giacomo Leopardi/VII. 1817: Progresso letterario

VII. 1817: Progresso letterario

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VII

1817


PROGRESSO LETTERARIO

La traduzione del secondo libro dell’Eneide è preceduta da alcune parole, che si possono chiamare il testamento del giovane Leopardi.

Siamo ancora in pieno purismo.

Udite questo periodo:

Sporti a parte a parte, come abbia io adoperato per venire all’intendimento mio, e le leggi che mi sono parute da osservare, disutil cosa sarebbe ed anzi nocevole che no, avvenga che, se e’ parratti che non indarno io siami faticato, la traduzione istessa tutto ti mostrerà, troppo meglio che non potrei qui far io, e se l’opposito addiverrà, nuocerebbemi che tu sapessi come io conoscendo il modo di ben tradurre Virgilio, l’ho poi tradotto male.

Già è un periodo faticosamente costrutto. Ma, emendato anche, si può citare come modello di pedanteria in un purista. Ci si vedono studi di lingua appena incominciati e frettolosi.

Pure, questo modo di scrivere gli procacciò riputazione in quel tempo che tutto era padre Cesari; e l’Accademia di Scienze ed Arti di Viterbo gli mandò il diploma di socio nella sezione intesa a promuovere gli studi di lingua.

Ma il nuovo socio andò subito innanzi, e i suoi vecchi colleghi rimasero lì. Perché il giovane alcuni mesi dopo rifiuta que[p. 49 modifica]sta scrittura come cosa miserabile e fanciullesca, e qui stesso rifiuta tutto quello che ha scritto innanzi, e la stessa sua versione sentenzia duramente, notando che, dileguatosi il poeta, resta solo il traduttore. Se c’è il testo «a motto a motto, la scelta de’ sinonimi, il collocamento delle parole, la forza del dire, l’armonia espressiva del verso, tutto manca o è cattivo».

Pur gli rimane un figlio, che non può indursi a rifiutar per suo; ma è una velleità e quasi un puntiglio, standogli ancora sul cuore quel riso milanese del «suo inginocchiarsi» e della «chiostra dei denti».

La ferita ancora sanguina.

E quella Odissea così malmenata gli è cara, e promette di migliorarla e di condurla a termine.

Ma non ne fu niente. Digerì la bile e non ci pensò più.

Questa prefazione è dunque il rifiuto di tutte le sue opere. E non è già il rifiuto di uomo che si abbandoni e non abbia più fede in sé. È il rifiuto di chi ha già innanzi a sé un esemplare più perfetto, e si sente passare in una esistenza superiore.

L’uomo si forma a strati come la terra. E non è dato a tutti di salire strato a strato. Giunto lo strato normale del suo organismo, l’uomo non patisce altra forma, e là si ferma e vi si ripete, vi si cristallizza. A Leopardi nel suo diciottesimo anno è transizione quello che ai più è lo strato normale della vita.

Il rifiuto che fa di sé stesso è il presentimento del nuovo essere che si va formando in lui. Non è più l’erudito e il traduttore, è il letterato e il poeta che già in immaginazione si mette accanto a Tasso, a Metastasio, ad Alfieri. Perché questa liquidazione testamentaria delle sue opere finisce con audace presentimento, appena temperato dalla modestia d’obbligo innanzi al pubblico.

Volesse il cielo che a queste riprovate opere tenesse dietro alcuna cosa buona, come al Rinaldo del Tasso, al Giustino del Metastasio, alla Cleopatra dell’Alfieri; che non par da sperarne.

Non gli par da sperarne, pur lo ha pensato, lo dice e lo stampa, e mescola il suo nome tra quei grandi nomi.
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Nella scala della creazione il presentimento rappresenta una gran parte. Ci è nella forma inferiore un addentellato al suo di là, alla forma più elevata, un’immagine abbozzata e un sentimento vago di un essere più compiuto. E non finisce nell’uomo la scala degli esseri, perché anche nell’uomo è il presentimento di un di là a lui superiore, ch’egli vagheggia e abbozza nella sua idea, e chiama l’ideale, una certa idea, non so che più perfetto, che non trova nell’esistenza naturale.

Gli angioli, i demoni, le celesti deità, tutti gli esseri spirituali, dei quali l’immaginazione umana ha popolato l’universo, sono le realità di questo presentimento, tentativi per foggiare o pensare quell’ideale esistenza superiore, che ci è sempre vicina, e ci è sempre lontana. Religione, poesia, filosofia, hanno a base questo invitto presentimento che resiste a tutti gli sforzi del puro umanismo, e cacciato ripullula sempre.

E, in verità, se crediamo che l’uomo sia l’ultima forma della creazione, e che gl’infiniti mondi sieno non altro che lampioncini affissi là per fargli luce, si potrebbe tenere quel presentimento come superstizione di femminuccia. Ma se questo non è possibile crederlo, quel presentimento insito nella nostra natura di uomini non è che l’addentellato a una forma ulteriore, e contiene in sé quest’affermazione, che noi non siamo ultimo, ma intermedio anello nella catena degli esseri.

Appunto perché semplice presentimento, la concezione non può essere attinta nella sua realtà malgrado ogni sforzo d’immaginazione; e se possiamo trovare differenze quantitative, non ci è dato trovare differenze di qualità tra noi e il nostro di là, altro che vaghe e a base umana. La concezione rimane solo, adunque, ideale, una nostra idea, il cui riflesso luce sulla faccia degli esseri da noi foggiati.

L’ideale fa la sua apparizione nella gioventù in modo puro, ingenuo e gioioso, perché vediamo allora in quello lo stesso reale, di cui non abbiamo esperienza, e la terra e la vita è tutta un riso.

        Questo è il tempo fuggitivo a cui accenna Leopardi in alcuni versi, troppo breve, e in lui brevissimo, in lui che a sedici anni faceva studi senili. [p. 51 modifica]
Nei suoi comenti e nelle sue traduzioni è appena qua e colà qualche raggio di un’anima ideale. A diciotto anni, quando cominciava in lui a svegliarsi il letterato e il poeta, quel primo ideale, così puro e così gioioso nel giovane, gli apparve con entro una profonda dissonanza, gli apparve contaminato e rattristato da quel suo ambiente domestico e paesano.

Lo scolare allegro e ingegnoso, che dava di gran pugni al fratello Carlo e canzonava il maestro, e foggiava poetici scherzi, divenendo adulto acquistò una formidabile chiarezza del suo stato. Più si allargava il suo orizzonte e s’ingrandivano i suoi ideali, e più sentiva la pressura del piccolo e prosaico ambiente, in cui era nato.

La sua vita fino a questo tempo fu tutta menata a Recanati.

Ascoli è tondo e lungo è Recanati.

Immaginate una strada lunga con alcune vie traverse, e poi monte Morello, il sobborgo, dove tra parecchie case patrizie primeggia casa Leopardi, di antica architettura.

Nei mezzanini è la biblioteca, e la stanza con alcova, dove alcun tempo dormirono i due fratelli. Passarono poi su al primo piano, ove anche oggi si vede la camera di Giacomo. Lì è ancora il suo letticciuolo di legno, e una coltre di color giallo sbiadito, e il cassettone, e il piccolo armadio, e alcune seggiole, e qualche quadro di armenti, memoria di una vita passata fra tanti studi.

Al primo piano e nell’anticamera vedi una statua di soldato armato all’antica e con una lancia irrugginita in mano: ti par d’entrare in un castello feudale. Trovi appresso sale ampie, con mobilio antico indorato e fregiato, e le pareti tappezzate di damasco, con grandi specchi a cornici indorate. Il padre, Monaldo, con quei calzoni corti, e la madre nata marchesa Antici, una famiglia antica di colà, compivano l’illusione. Casa e gente del secolo passato.

Monaldo, uomo coltissimo, autore di parecchie opere dimenticate, alle quali la Civiltà Cattolica aveva profetato l’immortalità, era retrivo e papalino, e si dice anche della setta dei [p. 52 modifica]Sanfedisti, nome nuovo e illustrato in Napoli dal cardinale Ruffo, e opposto al vecchio nome degli avversarii, a’ Carbonari. La libertà era per lui «la prediletta figlia del demonio e la nemica dei popoli». Tagliato all’antica, nemico di novità, tutto cerimoniale ed etichetta: senti colà dentro il nobile e il prete.

Carlo era quasi in tutto il papà. Concepiva allo stesso modo libertà e patria. Sonetteggiava, traduceva in verso. È sua una traduzione dall’inglese e un’altra dal francese, attribuite a Giacomo. Continue dispute tra lui e Giacomo, maggiore di un anno, le cui opinioni intorno alla libertà e alla patria, derivate da’ classici, erano una stonatura in famiglia.

Giacomo, di complessione debolissima, così mal costrutto, richiedeva cure molte e delicate per la sua educazione. Ma fu lasciato fare e parve un prodigio quando a quattordici anni diè pubblico esame di rettorica e filosofia. Non si capì che per formare lo spirto bisogna formare il corpo, e che gli studi troppo precoci ammazzano. Certo, dové più incurvargli il dorso quello starsi giorno e notte piegato a trascrivere, né gli poté far bene allo stomaco, né alla vista. E i suoi mali cominciarono appunto dallo stomaco e dalla vista.

Non è dunque maraviglia che a diciotto anni non era ancora ben formato e pareva un fanciullo, ed era trattato come fanciullo, e prima dal padre. La stessa servitù non gli aveva l’ossequio dovuto, il castaldo gli rispondeva con una cert’aria da fargli capire che non era ancora uomo. I suoi pari, i giovani patrizii, lo chiamavano il misantropo, il filosofo, il gobbo, e quando, pieno il capo di libri, e così distratto ed a capo basso, usciva a passeggiare, i monelli gli davano la baia.

Cresceva adunque Leopardi senza maestri e senza compagni e senza amici, solo e chiuso in sé, incompreso, meschino, tra l’ironia e lo scherno, lui che, leggendo Virgilio, «andava del continuo spasimando, e senza avvedersene, lo recitava cangiando tuono quando il si convenia, e infocandosi, e forse talvolta mandando fuori alcuna lagrima».

Quel suo ambiente domestico e paesano cosa doveva parere a lui, che abitava già in ispirito tra le grandi figure [p. 53 modifica]dell’antichità, e con innanzi alla immaginazione Roma, Milano, Firenze, Giordani, Mai, Alfieri, Parini e Monti? L’ideale gli si mostrò tra le spine, dissonanza completa tra quello e il suo ambiente.

Com’è proprio delle nature delicate e solitarie, il suo stato abituale era una dolce malinconia, che lo disponeva alla tenerezza ed al fantasticare.

Ma presto, in così giovane età, la malinconia si voltò in tristezza, accompagnata e nutrita dalla noia, di cui ebbe un così precoce e un così acuto sentimento. Quel suo stato malaticcio gli tolse lo studio, e non ebbe altro schermo dalla noia che il suo pensiero, e quel pensiero, assiduo, aggravava il suo male.