Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
vii. 1817 - progresso letterario | 49 |
sta scrittura come cosa miserabile e fanciullesca, e qui stesso rifiuta tutto quello che ha scritto innanzi, e la stessa sua versione sentenzia duramente, notando che, dileguatosi il poeta, resta solo il traduttore. Se c’è il testo «a motto a motto, la scelta de’ sinonimi, il collocamento delle parole, la forza del dire, l’armonia espressiva del verso, tutto manca o è cattivo».
Pur gli rimane un figlio, che non può indursi a rifiutar per suo; ma è una velleità e quasi un puntiglio, standogli ancora sul cuore quel riso milanese del «suo inginocchiarsi» e della «chiostra dei denti».
La ferita ancora sanguina.
E quella Odissea così malmenata gli è cara, e promette di migliorarla e di condurla a termine.
Ma non ne fu niente. Digerì la bile e non ci pensò più.
Questa prefazione è dunque il rifiuto di tutte le sue opere. E non è già il rifiuto di uomo che si abbandoni e non abbia più fede in sé. È il rifiuto di chi ha già innanzi a sé un esemplare più perfetto, e si sente passare in una esistenza superiore.
L’uomo si forma a strati come la terra. E non è dato a tutti di salire strato a strato. Giunto lo strato normale del suo organismo, l’uomo non patisce altra forma, e là si ferma e vi si ripete, vi si cristallizza. A Leopardi nel suo diciottesimo anno è transizione quello che ai più è lo strato normale della vita.
Il rifiuto che fa di sé stesso è il presentimento del nuovo essere che si va formando in lui. Non è più l’erudito e il traduttore, è il letterato e il poeta che già in immaginazione si mette accanto a Tasso, a Metastasio, ad Alfieri. Perché questa liquidazione testamentaria delle sue opere finisce con audace presentimento, appena temperato dalla modestia d’obbligo innanzi al pubblico.
Volesse il cielo che a queste riprovate opere tenesse dietro alcuna cosa buona, come al Rinaldo del Tasso, al Giustino del Metastasio, alla Cleopatra dell’Alfieri; che non par da sperarne.
4 — De Sanctis, Leopardi. |