Giacomo Leopardi/VIII. 1817: Corrispondenza con Giordani

VIII. 1817: Corrispondenza con Giordani

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VIII. 1817: Corrispondenza con Giordani
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VIII

1817


CORRISPONDENZA CON GIORDANI

Pubblicata la versone dell’Eneide, il giovane ne inviò un esemplare al Mai, al Monti, al Giordani.

Al Mai scrisse: «Il mio Frontone, indegno di veder la luce, torna a me, e starà per innanzi in tenebre eternamente. Può dir altri che io ho gittato quella grossa fatica, ma io non reputo inutile un libro che mi ha fatto noto al Mai». Al Monti scrisse chiamandolo suo principe, e «traduttore della Iliade primo in Europa, e grande amico del grande Annibal Caro». Al Giordani scrisse: «Valere assai più una sua riprensione, che la lode di cento altri». Il tono di queste lettere è cerimonioso e ossequioso, come di giovane a uomini sommi, e che scriva loro la prima volta. Ci si vede lo stampo del cinquecento, un giro di frasi artificiato, con un accento nobile.

Il Mai, filologo più che letterato, rispose ringraziando, e tenne sempre in gran pregio il giovane dotto. Il Monti, trattato da principe, rispose principescamente, guardando dall’alto suo seggio l’umile suddito, e ammonendolo senza istruirlo. Il Giordani rimane maravigliato di tanta lode e si affretta a rispondere: «Illustrissimo e pregiatissimo signor conte», attribuendo le lodi a cortesia d’uso, e credendo avesse a fare con un pezzo grosso. Ma, saputo dallo Stella della giovanile età, riscrisse subito, e si rallegra con lui dei forti studi, augurandogli che, com’era un [p. 55 modifica]miracolo di Recanati, sia presto onore d’Italia, e gl’invia in dono le sue prose. La lettera non più all’«illustrissimo signor conte», ma al «signor contino pregiatissimo», ha un tono di autorità benevola, come di un naturale patrono della gioventù. Giordani ignorava qual effetto insolito doveva produrre quella sua solita maniera di scrivere. Immaginate qualcuno che nella sua giovane età abbia ricevuto una lettera da Alessandro Manzoni, con consigli amorevoli, e con dimostrazione di affetto. C’era da uscirne matto. E Giordani e Monti erano i Manzoni di quel tempo. Figurarsi quel giovane così facile all’affetto e all’entusiasmo, con tanta idealità, al quale Monti e Giordani erano numi, tirato dalla loro fama all’indirizzo letterario, lui che vedeva negli studi filologici l’ultima mèta! E capirete allora che la sua risposta cominci così:

Che io veda e legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me, che io possa sperare d’averlo d’ora innanzi a maestro, sono cose che appena posso credere. Né ella se ne maraviglierebbe, se sapesse per quanto tempo e con quanto amore io abbia vagheggiata questa idea, perché le cose desideratissime paiono impossibili quando sono presenti.

Così cominciò una corrispondenza affettuosa che durò tutta la vita, e per intenderne il cammino basterà dire che dall’«illustrissimo signor conte» e dal «pregiatissimo signor contino» si giunge sino a «Giacomino mio adorabile». Le intestazioni e le sottoscrizioni sono la chiave del cuore, una specie di p s i c o m e t r o che ti fa indovinare il maggior o minor calore dell’anima.

La prima lettera del divenuto poi «adorabile Giacomino» comincia con la frase consacrata di «stimatissimo signore» e finisce con quella di «umilissimo devotissimo servitore». Il rispetto tiene compressi tutti i sentimenti di un’anima ricca e calda e impaziente di traboccare, rimasta chiusa in un cerchio di forme convenzionali, sicché Giordani poté ben crederla non altro che una cerimonia.

Ma nella seconda lettera hai uno «stimatissimo e carissimo signore», alle affettuose frasi di Giordani l’anima si apre come [p. 56 modifica]un fiore che si schiude al sole, e cominciano le rivelazioni, le confessioni, le confidenze, e si finisce con un «vero e affettuosissimo servo». Ci si vede ancora un po’ d’impaccio e di timidezza, come innanzi a una statua colossale a cui non osi avvicinarti, un desiderio di ben parare, uno studio di forme e di concetti, un situarsi nel modo più favorevole. Ma nella terza lettera l’intestazione d’uso sparisce, o, per dir meglio, è incorporata nella lettera, ed hai un «carissimo e desideratissimo signor Giordani mio», e all’ultimo un «desiderantissimo servo». Qui l’anima trabocca, e, uscita dalla solitudine, incontratasi anima con anima, si versa tutta, con tanta esaltazione, con tanta effusione, che voleva essere una lettera, ed è un volume.

L’altra lettera è tutta di polemica, e il giovine alza la fronte, e si mette a braccetto, e osa dire al «maestro» la sua opinione, non senza qualche dubbio: dovesse aversela a male? Il «maestro», un po’ pedante, ma un gran brav’omo, dopo quella terza lettera ch’egli chiama «facondissima», e dopo questa polemica ch’egli qualifica un «filosofare con sottigliezza e delicatezza e sodezza», viene lui in ammirazione, e gli si forma nella mente la prima immagine di quel colosso di Giacomo Leopardi, come egli lo chiamò poi.

La corrispondenza diviene sempre più affettuosa, e prende ad imprestito dal vocabolario degli amanti le frasi più tenere. Non c’è più il signore e non c’è più il servo. Hai l’«amantissimo suo Giacomo Leopardi», e poi cessa il «suo» e comincia il «voi», e Leopardi svanisce anch’esso e resta un «addio», un «vostro Giacomo», come si fa tra intimi, dopo lunga dimestichezza.

Il tenero giovane cerca epiteti nuovi a significare l’affetto, e, quando non può, li moltiplica: «Dilettissimo Giordani», «Dolcissimo, caro, carissimo Giordani teneramente v’amo», e poi Giordani resta lì ed hai «Mio carissimo» e «Addio carissimo e dilettissimo mio».

In questa intimità vengono fuori motti, scherzi, osservazioni, consigli, dispute, espansioni, confessioni; la selce percossa manda scintille. [p. 57 modifica]
Qual’era allora la vita intellettuale e morale di Giacomo, s’è visto. Chiuso in sé e solo, malaticcio, malinconico, spregiato e incompreso, estraneo alla società e ad ogni uso di mondo, con tanti ideali e con tante illusioni in capo, con tanta sete di gloria: vita poetica se mai ci fu, appunto per quella dissonanza. Pure, di questa vita non penetra nulla finora nei suoi scritti eruditi e letterarii; gli pesa come una cappa di piombo, ma è un peso divenutogli abituale, su cui per difetto di attrito non si riflette ancora il suo spirito. Studia, comenta, traduce in verso; il suo spirito è fuori della sua vita, è in Mosco, nell’Odissea, nell’Eneide; ma invano, salvo qualche lampo qua e là, cerchiamo in queste versioni una vita poetica, e possiamo fin da ora presumere che a lui manchi la forza di trasferirsi in una vita a lui estranea e rappresentarla idealmente. Al contrario, il suo incontro con Giordani fu un vero avvenimento, tirando il giovane dalla monotonia e dalla noia della sua solitudine spirituale, e mettendolo in comunione con un uomo collocato sì alto nella sua immaginazione. E quando prende con lui dimestichezza e gli può scrivere con tutta confidenza, effonde in seno all’amico le sue angosce, e la sua vita intima gli appare tutta innanzi riflessa nella sua immaginazione e colorata dalle sue impressioni; egli è per la prima volta il poeta di sé stesso.

Notabile è soprattutto la terza lettera, ch’egli chiama un volume, e ch’io chiamerò la sua prima poesia, la prima rivelazione della sua vita intima in quella dissonanza ch’è tra quel suo ambiente domestico e paesano, e il mondo ingrandito dalla sua immaginazione e dalle sue illusioni.

Per la prima volta il giovane gitta giù tutto il suo bagaglio di frasi e di modi convenzionali; non fa un lavoro di fantasia, soffre troppo perché pensi a forme letterarie; ciò che scrive esce da una emozione sempre sincera; e se c’è qua e là qualche cosa di soverchio, non è rettorica, è caldezza e abbondanza giovanile. E se vai innanzi in questa corrispondenza, farai questa osservazione, che lo stile si anima e si colora quando il giovane parla di sé, e tutto l’altro rimane nell’ombra, come cosa che non mette in movimento il suo pensiero. Soprattutto non trovi mai nulla [p. 58 modifica]che si riferisca al mondo esteriore ed esprima le sue impressioni, se non quando esso abbia qualche relazione col suo dolore.

Onde possiamo dire, fin da ora, che l’anima del giovane è tutta concentrata in sé stessa, e non esce fuori della sua personalità, se non per gittare uno sguardo distratto su tutto il rimanente.

Raccogliendo i risultati di queste osservazioni, possiamo avere un concetto chiaro di quello che era Giacomo Leopardi a diciannove anni. Eruditissimo, sì da parere un miracolo, versato soprattutto nelle tre letterature che a lui paiono le «sole vere», la greca, la latina e l’italiana, loro «figlia legittima», aperto alle impressioni letterarie e di un gusto classico a modo Giordani: un antico in mezzo al mondo moderno. E non gli è uscito ancora un lavoro, che faccia presumere originalità e grandezza di scrittore. Le sue traduzioni, piuttosto che poesie, sono esercizii di verso, e poco felici: colà dentro non c’è l’autore e non c’è lui. Le sue imitazioni, come l’Inno a Nettuno, se mostrano la sua singolare perizia dell’antico, sono un bel cadavere, una restaurazione delle forme, vacue di spirito. La sua prosa, da principio scorretta e alla francese, ora va a tentoni fra trecentisti e cinquecentisti, con uno sforzo verso il purismo, che rivela studi freschi e poco digesti.

Finora è un semplice letterato.

I suoi ideali sono vuoti di contenuto, non religiosi, non politici, non etici, non sociali: sono puramente letterarii e formali. Gl’ideali vecchi ed ereditarii scompaiono; se ne apparecchiano altri attirati da’ nuovi studi e dall’ambiente letterario contemporaneo. E per darne un esempio, innanzi al suo spirito non c’è ancora l’Italia serva e divisa; e se ama l’Italia, gli è perché essa è la figlia di Grecia e di Roma, la vera erede della letteratura greco-latina. Sono sentimenti letterarii, reminiscenze classiche; sono materiali sparsi, che comunicano al giovane forme, concetti, immagini; atomi o elementi ancora non accostati e organizzati nella fantasia, dov’è la potenza generativa dell’arte. Non c’è ancora il nuovo ideale, e l’antico muore.

L’ambiente repulsivo di Recanati dovea poco favorire uno sviluppo pronto e rigoglioso di queste forze. [p. 59 modifica]
A diciannove anni la sua complessione, debolissima per natura, era già logora dall’eccessivo e assiduo lavoro, e la vista gli si era infiacchita in modo, che poco potea più leggere o scrivere. Nel suo isolamento morale, sdegnoso di divertimenti e distrazioni, che chiamava occupazioni mondane, passeggiava lunghe ore nella stanza tutto solo, fra due stati ugualmente micidiali: o un pensiero concentrato ed ozioso, nutrito di disegni in aria che sapeva di non poter eseguire, e che gli rendeva più acuto il dolore del suo stato; o la noia, ch’è il sentimento d’una esistenza vacua, con la coscienza di non poterne uscire. «Amaro e noia la vita, altro mai nulla».

Uno stato così fatto non è niente favorevole alla produzione. Esso è accasciamento ed impotenza. Ed è la tragedia della sua vita. Proprio allora che al giovane si aprono nuovi mondi, e rifiuta tutte le sue opere, col presentimento di una grandezza futura, di cui dà per esempio Tasso, Metastasio, Alfieri, il suo stato è tale, che gli tronca a mezzo gli studi e le speranze. Questo stato ha per sua espressione la melanconia, la quale appunto è la forza senza espansione, rimasta semplice vita interiore. Guardate la sua faccia: una fronte ampia, che domina quelle guance scarne e pallide, e lo sguardo dolcissimo, indizio di mestizia e di bontà, e sulle labbra un riso che non ha la forza di uscire.

Certo, a quel cuore sì caldo, a quella squisita sensibilità, a quelle forze impazienti di luce e rimaste compresse era necessaria l’amicizia e l’amore. «Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita». Più si sentiva solo, e più doveva desiderare il suo altro. E non è dunque maraviglia che la sua amicizia verso il Giordani prenda tutte le forme dell’amore e che l’anima trabocchi.

Notabile è la terza lettera, lunga come i colloquii degli amanti, e piena di giovanile entusiasmo.

La vita sua gli si offre innanzi riflessa dalla indignazione, dalla collera, dall’amicizia, dall’attrito; egli scolpisce la sua infelicità, sfoga le sue pene, e perché le può sfogare si sente felice.

Quel giorno che scrisse quel «tomo», com’egli dice, fu un bel giorno, e così raro. Indi quella pienezza e quel calore di una [p. 60 modifica]forza che si effonde e genera una prosa, di cui non è esempio avanti.

Non è modello di prosa, non prosa astrattamente congegnata, e neppure la prosa sua, perché più tardi te ne creerà un’altra.

È la prosa di quel momento e di quella situazione, in tutte le varietà e le movenze di un’anima schietta. Già fin dal principio il dettato corre fluido, animato, «con pieno spargimento di cuore».

Non c’è ombra più di forme letterarie o convenzionali, non arcaismi, non legami artificiali, non contorsioni, o parentesi, non descrizioni, non cerimonie d’uso.

Il cuore «si sparge» fin dalle prime righe; il giovane si sente felice: «Oh sia benedetto Iddio che mi ha conceduto quello che domandava!». E domandava un uomo di cuore, d’ingegno e di dottrina straordinario, che gli concedesse l’amicizia sua. E ora che l’ha, questo amico, gli parla con «interissima confidenza».

Giordani nella prima lettera lo aveva chiamato un miracolo di Recanati. Aveva toccato, senza saperlo, una corda che mandava gemiti. E il giovane scatta: «Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’odio della patria!». Parole tanto straordinarie erano un lampo, nunzio di tutta quella tragedia interiore.

Ma Giordani non ci vide nulla, o piuttosto ci vide una tesi astratta, e rispose con un’altra tesi sull’amor della patria, accumulando citazioni e volgarità. E l’uomo risponde al retore, e quella risposta è una delle più eloquenti pagine della nostra prosa.

Prima procede serrato, riassumendo un discorso in una sentenza, in quattro parole, che ti rovesciano interi periodi industriosamente fabbricati. «Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti», nota Giordani. «Le amavano, e non vi stavano», è la risposta; «amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano». Giordani ragiona in astratto; il giovane sta sempre nel vivo e nel vero; nell’uno è rettorica, nell’altro eloquenza. «Qui sei nato, qui ti vuole la provvidenza», dimostra Giordani. «Questa massima», risponde il giovane, che vede dritto e chiaro, «è sorella carnale del fatalismo». «Ma qui tu sei dei primi; in città più [p. 61 modifica]grande saresti dei quarti e dei quinti». E l’altero giovane rimbecca: «Questa mi par superbia vilissima e indegnissima d’animo grande». Veggo il giovane sulla cima della piramide, e Giordani strisciare tra la moltitudine.

Sbrigatosi delle massime, il giovane entra a fare una descrizione di Recanati, rilevata dal confronto delle grandi città. E non è già una descrizione umoristica o satirica, non epigrammi, non frizzi, non sarcasmi; il suo stato lo punge troppo, perché egli ci possa scherzare sopra. Non ci è neppure la forma dell’odio e della collera, perché infine la «povera città non è rea d’altro che di non avergli fatto un bene al mondo». È un ritratto senza frasi e senza generalità, concepito subiettivamente, vale a dire in relazione con la sua persona, pieno di fatti e di particolari, rapido, con un calore sempre vivace; è lui protagonista, lui che ne è il martire e che alla fine scoppia: «Che cosa è in Recanati di bello? che l’uomo si curi di vedere o d’imparare? niente».

E qui lo stile si colora e si accentua, e viene fuori tutta quella vita intima, con un’angoscia sincera che ti si comunica e s’impossessa di te:

Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire: — In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato — ?... Aggiunga l’ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce... Che parla ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia... Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto, e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane; ma per far questo io voglio un mondo che m’alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa) non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m’attristi.

Questa è la sua vita intima, e di questa ha fatto il suo piedistallo.