Gerusalemme liberata/Canto undicesimo

Canto Undicesimo

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Canto decimo Canto dodicesimo


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RAIMONDO


ARGOMENTO.

     Con puro sacrifizio e sacre note,
Il soccorso del Cielo invoca il campo.
Poi dell’alta città le mura scote,
Ch’al suo furore omai non avean scampo;
Quando Clorinda il Capitan percote,
E ’l colpo è a lui d’alta vittoria inciampo.
Ben dall’Angel sanato ei torna in guerra:
Ma già ’l diurno raggio ito è sotterra.



CANTO UNDECIMO.


Ma ’l Capitan delle Cristiane genti,
Volto avendo all’assalto ogni pensiero,
Giva apprestando i bellici instrumenti,
4Quando a lui venne il solitario Piero:
E trattolo in disparte, in tali accenti
Gli parlò venerabile e severo:
Tu muovi, o Capitan, l’armi terrene;
8Ma di là non cominci onde conviene.

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II.


     Sia dal Cielo il principio; invoca avanti,
Nelle preghiere pubbliche e devote,
La milizia degli Angioli e de’ Santi,
12Chè ne impetri vittoria ella che puote.
Preceda il Clero in sacre vesti, e canti
Con pietosa armonia supplici note:
E da voi duci gloriosi e magni
16Pietate il volgo apprenda, e v’accompagni.

III.


     Così gli parla il rigido Romito:
E ’l buon Goffredo il saggio avviso approva.
Servo, risponde, di Gesù gradito,
20Il tuo consiglio di seguir mi giova.
Or mentre i duci a venir meco invito,
Tu i Pastori de’ popoli ritrova
Guglielmo ed Ademaro: e vostra sia
24La cura della pompa sacra e pia.

IV.


     Nel seguente mattino il Vecchio accoglie
Co’ duo’ gran sacerdoti altri minori,
Ov’entro al vallo tra sacrate soglie
28Soleansi celebrar divini onori.
Quivi gli altri vestir candide spoglie:
Vestir dorato ammanto i duo Pastori,
Che bipartito sovra i bianchi lini
32S’affibbia al petto, e incoronaro i crini.

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V.


     Va Pietro solo innanzi, e spiega al vento
Il segno riverito in Paradiso:
E segue il coro a passo grave e lento,
36In due lunghissimi ordini diviso.
Alternando facean doppio concento
In supplichevol canto, e in umil viso,
E, chiudendo le schiere, ivano a paro
40I Principi Guglielmo ed Ademaro.

VI.


     Venia poscia il Buglion, pur come è l’uso
Di Capitan, senza compagno a lato.
Seguiano a coppia i Duci, e non confuso
44Seguiva il campo a lor difesa armato.
Sì procedendo se n’uscia del chiuso
Delle trinciere il popolo adunato.
Nè s’udian trombe, o suoni altri feroci,
48Ma di pietate e d’umiltà sol voci.

VII.


     Te Genitor, te figlio eguale al Padre,
E te che d’ambo uniti amando spiri:
E te, d’uomo e di Dio, Vergine Madre
52Invocano propizia ai lor desiri.
O Duci, e voi, che le fulgenti squadre
Del Ciel movete in triplicati giri.
O Divo, e te, che della diva fronte
56La monda umanità lavasti al fonte.

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VIII.


     Chiamano e te, che sei pietra e sostegno
Della magion di Dio fondata e forte:
Ove ora il novo successor tuo degno
60Di grazia e di perdono apre le porte.
E gli altri messi del celeste regno,
Che divulgar la vincitrice morte.
E quei che ’l vero a confermar seguiro,
64Testimonj di sangue, e di martiro.

IX.


     Quegli ancor, la cui penna, o la favella
Insegnata ha del Ciel la via smarrita:
E la cara di Cristo e fida ancella,
68Ch’elesse il ben della più nobil vita:
E le vergini chiuse in casta cella,
Che Dio con alte nozze a se marita:
E quelle altre magnanime ai tormenti,
72Sprezzatrici de’ Regi, e delle genti.

X.


     Così cantando, il popolo devoto
Con larghi giri si dispiega e stende:
E drizza all’Oliveto il lento moto,
76Monte che dalle olive il nome prende:
Monte per sacra fama al mondo noto,
Ch’oriental contra le mura ascende:
E sol da quelle il parte e ne ’l discosta
80La cupa Giosafà che in mezzo è posta.

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XI.


     Colà s’invia l’esercito canoro,
E ne suonan le valli ime e profonde,
E gli alti colli, e le spelonche loro,
84E da ben mille parti Eco risponde:
E quasi par che boscareccio coro
Fra quegli antri si celi, e in quelle fronde;
Sì chiaramente replicar s’udia
88Or di Cristo il gran nome, or di Maria.

XII.


     D’in sulle mura ad ammirar frattanto
Cheti si stanno, e attoniti i Pagani
Que’ tardi avvolgimenti, e l’umil canto,
92E le insolite pompe, e i riti estrani.
Poi che cessò dello spettacol santo
La novitate, i miseri profani
Alzar le strida; e di bestemmie e d’onte
96Muggì il torrente, e la gran valle, e ’l monte.

XIII.


     Ma dalla casta melodia soave
La gente di Gesù però non tace:
Nè si volge a que’ gridi, o cura n’have
100Più che di stormo avria d’augei loquace.
Nè perchè strali avventino, ella pave
Che giungano a turbar la santa pace
Di sì lontano; onde a suo fin ben puote
104Condur le sacre incominciate note.

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XIV.


     Poscia in cima del colle ornan l’altare
Che di gran cena al sacerdote è mensa:
E d’ambo i lati luminosa appare
108Sublime lampa in lucid’oro accensa.
Quivi altre spoglie, e pur dorate e care,
Prende Guglielmo, e pria tacito pensa:
Indi la voce in chiaro suon dispiega,
112Se stesso accusa, e Dio ringrazia e prega.

XV.


     Umili intorno ascoltano i primieri:
Le viste i più lontani almen v’han fisse.
Ma poichè celebrò gli alti misteri
116Del puro sacrifizio: itene, ei disse:
E, in fronte alzando ai popoli guerrieri
La man sacerdotal, gli benedisse.
Allor sen ritornar le squadre píe
120Per le dianzi da lor calcate vie.

XVI.


     Giunti nel vallo, e l’ordine disciolto,
Si rivolge Goffredo a sua magione:
E l’accompagna stuol calcato e folto
124Insino al limitar del padiglione.
Quivi gli altri accomiata, indietro volto,
Ma ritien seco i duci il pio Buglione:
E gli raccoglie a mensa, e vuol ch’a fronte
128Di Tolosa gli sieda il vecchio Conte.

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XVII.


     Poi che de’ cibi il natural amore
Fu in lor ripresso, e l’importuna sete,
Disse ai duci il gran Duce: al novo albóre
132Tutti all’assalto voi pronti sarete.
Quel sia giorno di guerra e di sudore,
Questo sia d’apparecchio e di quiete.
Dunque ciascun vada al riposo, e poi
136Se medesmo prepari e i guerrier suoi.

XVIII.


     Tolser’ essi congedo; e manifesto
Quinci gli Araldi, a suon di trombe, fero
Ch’essere all’arme apparecchiato e presto
140Dee con la nova luce ogni guerriero.
Così in parte al ristoro, e in parte questo
Giorno si diede all’opre ed al pensiero;
Sinchè fè nova tregua alla fatica
144La cheta notte del riposo amica.

XIX.


     Ancor dubbia l’aurora, ed immaturo
Nell’Oriente il parto era del giorno:
Nè i terreni fendea l’aratro duro:
148Nè fea il pastore ai prati anco ritorno.
Stava tra i rami ogni augellin sicuro,
E in selva non s’udia latrato, o corno;
Quando a cantar la mattutina tromba
152Comincia all’arme, all’arme il Ciel rimbomba.

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XX.


     All’arme all’arme subito ripiglia
Il grido universal di cento schiere.
Sorge il forte Goffredo, e già non piglia
156La gran corazza usata o lo schiniere:
Ne veste un’altra, ed un pedon somiglia
In arme speditissime e leggiere:
Ed indosso avea già l’agevol pondo;
160Quando gli sovraggiunse il buon Raimondo.

XXI.


     Questi, veggendo armato in cotal modo
Il Capitano, il suo pensier comprese.
Ov’è, gli disse, il grave usbergo e sodo?
164Ov’è, Signor, l’altro ferrato arnese?
Perchè sei parte inerme? Io già non lodo
Che vada con sì debili difese.
Or, da tai segni, in te ben argomento
168Che sei di gloria ad umil meta intento.

XXII.


     Deh che ricerchi tu? privata palma
Di salitor di mura? altri le saglia:
Ed esponga men degna ed util’alma
172(Rischio debito a lui) nella battaglia.
Tu riprendi, Signor, l’usata salma:
E di te stesso a nostro pro ti caglia.
L’anima tua, mente del campo e vita,
176Cautamente, per Dio, sia custodita.

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XXIII.


     Quì tace; ed ei risponde: or ti sia noto
Che quando in Chiaramonte il grande Urbano
Questa spada mi cinse, e me devoto
180Fè cavalier l’onnipotente mano:
Tacitamente a Dio promisi in voto
Non pur l’opera quì di Capitano;
Ma d’impiegarvi ancor, quando che fosse,
184Qual privato guerrier l’armi e le posse.

XXIV.


     Dunque poscia che sian contra i nemici
Tutte le genti mie mosse e disposte:
E che appieno adempito avrò gli uficj
188Che son dovuti al Principe dell’oste,
Ben è ragion, nè tu credo il disdici,
Che alle mura, pugnando, anch’io m’accoste,
E la fede promessa al Cielo osservi:
192Egli mi custodisca, e mi conservi.

XXV.


     Così concluse; e i cavalier Francesi
Seguir l’esempio, e i due minor Buglioni.
Gli altri Principi ancor men gravi arnesi
196Parte vestiro e si mostrar pedoni.
Ma i Pagani frattanto erano ascesi
Là dove ai sette gelidi Trioni
Si volge e piega all’Occidente il muro,
200Che nel più facil sito è men sicuro.

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XXVI.


     Perocch’altronde la Città non teme
Dell’assalto nemico offesa alcuna.
Quivi non pur l’empio Tiranno insieme
204Il forte volgo e gli assoldati aduna;
Ma chiama ancor alle fatiche estreme,
Fanciulli e vecchj, l’ultima fortuna.
E van questi portando ai più gagliardi
208Calce, zolfo, bitume, e sassi, e dardi.

XXVII.


     E di machine e d’arme han pieno innante
Tutto quel muro a cui soggiace il piano.
E quinci, in forma d’orrido gigante,
212Dalla cintola in su sorge il Soldano;
Quindi tra’ merli il minaccioso Argante
Torreggia, e discoperto è di lontano:
E in su la Torre altissima angolare,
216Sovra tutti, Clorinda eccelsa appare.

XXVIII.


     A costei la faretra e ’l grave incarco
Delle acute quadrella al tergo pende.
Ella già nelle mani ha preso l’arco,
220E già lo stral v’ha su la corda, e ’l tende:
E, disiosa di ferire, al varco
La bella arciera i suoi nemici attende.
Tal già credean la vergine di Delo,
224Tra l’alte nubi, saettar dal Cielo.

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XXIX.


     Scorre più sotto il Re canuto a piede
Dall’una all’altra porta, e in su le mura
Ciò che prima ordinò cauto rivede,
228E i difensor conforta e rassicura.
E quì gente rinforza, e là provvede
Di maggior copia d’arme, e ’l tutto cura.
Ma se ne van le afflitte madri al tempio
232A ripregar nume bugiardo ed empio.

XXX.


     Deh spezza tu del predator Francese
L’asta, Signor, con la man giusta e forte;
E lui che tanto il tuo gran nome offese
236Abbatti e spargi sotto l’alte porte.
Così dicean, nè fur le voci intese
Là giù tra ’l pianto dell’eterna morte.
Or mentre la Città s’appresta e prega,
240Le genti e l’armi il pio Buglion dispiega.

XXXI.


     Tragge egli fuor l’esercito pedone
Con molta provvidenza e con bell’arte:
E contra il muro, ch’assalir dispone,
244Obliquamente in due lati il comparte.
Le baliste per dritto in mezzo pone,
E gli altri ordigni orribili di Marte;
Onde, in guisa di fulmini, si lancia
248Ver le merlate cime or sasso or lancia.

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XXXII.


     E mette in guardia i cavalier de’ fanti
Da tergo, e manda intorno i corridori.
Dà il segno poi della battaglia, e tanti
252I sagittarj sono e i frombatori
E l’arme delle machine volanti,
Che scemano fra i merli i difensori.
Altri v’è morto, e ’l loco altri abbandona:
256Già men folta del muro è la corona.

XXXIII.


     La gente Franca impetuosa e ratta
Allor quanto più puote affretta i passi.
E parte scudo a scudo insieme adatta,
260E di quegli un coperchio al capo fassi.
E parte sotto machine s’appiatta
Che fan riparo al grandinar de’ sassi.
Ed arrivando al fosso, il cupo e ’l vano
264Cercano empirne, ed adeguarlo al piano.

XXXIV.


     Non era il fosso di palustre limo
(Chè nol consente il loco) o d’acqua molle:
Onde l’empiano, ancorchè largo ed imo,
268Le pietre, i fasci, e gli alberi, e le zolle.
L’audacissimo Alcasto intanto il primo
Scopre la testa, ed una scala estolle:
E nol ritien dura gragnuola, o pioggia
272Di fervidi bitumi, e su vi poggia.

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XXXV.


     Vedeasi in alto il fero Elvezio asceso
Mezzo l’aereo calle aver finito,
Segno a mille saette, e non offeso
276D’alcuna sì che fermi il corso ardito:
Quando un sasso ritondo e di gran peso,
Veloce, come di bombarda uscito,
Nell’elmo il coglie, e ’l risospinge a basso:
280E ’l colpo vien dal lanciator Circasso.

XXXVI.


     Non è mortal, ma grave il colpo e ’l salto
Sì ch’ei stordisce, e giace immobil pondo.
Argante allora in suon feroce ed alto:
284Caduto è il primo, or chi verrà secondo?
Chè non uscite a manifesto assalto,
Appiattati guerrier, s’io non m’ascondo?
Non gioveranvi le caverne estrane;
288Ma vi morrete come belve in tane.

XXXVII.


     Così dice egli; e per suo dir non cessa
La gente occulta; e tra i ripari cavi
E sotto gli alti scudi unita e spessa
292Le saette sostiene, e i pesi gravi;
Già l’ariete alla muraglia appressa
Machine grandi, e smisurate travi
C’han testa di monton ferrata e dura.
296Temon le porte il cozzo e l’alte mura.

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XXXVIII.


     Gran mole intanto è di là su rivolta
Per cento mani al gran bisogno pronte,
Che sovra la testuggine più folta
300Ruina, e par che vi trabocchi un monte:
E, degli scudi l’union disciolta,
Più d’un elmo vi frange e d’una fronte:
E ne riman la terra sparsa e rossa
304D’arme, di sangue, di cervella, e d’ossa.

XXXIX.


     L’assalitor allor sotto al coperto
Delle machine sue più non ripara:
Ma da i ciechi periglj al rischio aperto
308Fuori se n’esce, e sua virtù dichiara.
Altri appoggia le scale e va per l’erto:
Altri percuote i fondamenti a gara.
Ne crolla il muro, e ruinoso i fianchi
312Già fessi mostra all’impeto de’ Franchi.

XL.


     E ben cadeva alle percosse orrende
Che doppia in lui l’espugnator montone;
Ma sin da’ merli il popolo il difende
316Con usata di guerra arte e ragione:
Ch’ovunque la gran trave in lui si stende,
Cala fasci di lana, e gli frappone.
Prende in se le percosse e fa più lente
320La materia arrendevole e cedente.

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XLI.


     Mentre con tal valor s’erano strette
Le audaci schiere alla tenzon murale,
Curvò Clorinda sette volte, e sette
324Rallentò l’arco, e ne avventò lo strale:
E quante in giù se ne volar saette,
Tante s’insanguinaro il ferro e l’ale,
Non di sangue plebeo, ma del più degno:
328Chè sprezza quell’altera ignobil segno.

XLII.


     Il primo cavalier ch’ella piagasse
Fu l’erede minor del Rege Inglese.
De’ suoi ripari appena il capo ei trasse,
332Che la mortal percossa in lui discese.
E che la destra man non gli trapasse,
Il guanto dell’acciar nulla contese;
Sicchè inabile all’arme ei si ritira
336Fremendo, e meno di dolor che d’ira.

XLIII.


     Il buon Conte d’Ambuosa in ripa al fosso,
E su la scala poi Clotareo il Franco:
Quegli morì trafitto il petto e ’l dosso:
340Questi dall’un passato all’altro fianco.
Sospingeva il monton, quando è percosso
Al signor de’ Fiamminghi il braccio manco:
Sicchè tra via s’allenta, e vuol poi trarne
344Lo strale, e resta il ferro entro la carne.

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XLIV.


     All’incauto Ademar, ch’era da lunge
La fera pugna a riguardar rivolto,
La fatal canna arriva, e in fronte il punge.
348Stende ei la destra al loco ove fu colto,
Quando nova saetta ecco sorgiunge
Sovra la mano, e la configge al volto:
Onde egli cade, e fa del sangue sacro
352Su l’arme femminili ampio lavacro.

XLV.


     Ma non lungi da’ merli a Palamede,
Mentre ardito disprezza ogni periglio
E su per gli erti gradi indrizza il piede,
356Cala il settimo ferro al destro ciglio:
E trapassando per la cava sede
E tra i nervi dell’occhio, esce vermiglio
Diretro per la nuca: egli trabocca,
360E muore a piè dell’assalita rocca.

XLVI.


     Tal saetta costei! Goffredo intanto
Con novo assalto i difensori opprime.
Avea condotto ad una porta accanto
364Delle machine sue la più sublime.
Questa è torre di legno, e s’erge tanto
Che può del muro pareggiar le cime:
Torre, che grave d’uomini ed armata,
368Mobile è su le rote, e vien tirata.

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XLVII.


     Viene avventando la volubil mole
Lance e quadrella, e quanto può s’accosta:
E, come nave in guerra nave suole,
372Tenta d’unirsi alla muraglia opposta.
Ma chi lei guarda, ed impedir ciò vuole,
Le urta la fronte, e l’una e l’altra costa:
La respinge con l’aste, e le percuote
376Or con le pietre i merli ed or le rote.
    

XLVIII.


     Tanti di qua, tanti di là fur mossi
E sassi e dardi, ch’oscuronne il Cielo.
S’urtar due nembi in aria, e là tornossi
380Talor respinto onde partiva il telo.
Come di fronde sono i rami scossi
Dalla pioggia indurata in freddo gelo,
E ne caggiono i pomi anco immaturi;
384Così cadeano i Saracin da i muri.
    

XLIX.


     Perocchè scende in lor più grave il danno,
Chè di ferro assai meno eran guerniti.
Parte de’ vivi ancora in fuga vanno,
388Della gran mole al fulminar smarriti.
Ma quel che già fu di Nicea Tiranno
Vi resta, e fa restarvi i pochi arditi.
E ’l fero Argante a contrapporsi corre,
392Presa una trave, alla nemica torre.
    

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L.


     E da sè la respinge e tien lontana
Quanto l’abete è lungo, e ’l braccio forte.
Vi scende ancor la Vergine sovrana,
396E de’ periglj altrui si fa consorte.
I Franchi intanto alla pendente lana
Le funi recideano e le ritorte
Con lunghe falci; onde, cadendo a terra,
400Lasciava il muro disarmato in guerra.

LI.


     Così la torre sovra, e più di sotto
L’impetuoso il batte aspro ariete:
Onde comincia ormai forato e rotto
404A discoprir le interne vie secrete.
Éssi non lunge il Capitan condotto
Al conquassato e tremulo parete,
Nel suo scudo maggior tutto rinchiuso,
408Che rade volte ha di portar in uso.

LII.


     E quinci cauto rimirando spia,
E scender vede Solimano a basso;
E porsi alla difesa ove s’apria,
412Tra le ruine, il periglioso passo:
E rimaner della sublime via
Clorinda in guardia, e ’l cavalier Circasso.
Così guardava, e già sentiasi il core
416Tutto avvampar di generoso ardore.

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LIII.


     Onde rivolto dice al buon Sigiero
Che gli portava un altro scudo e l’arco:
Ora mi porgi, o fedel mio scudiero,
420Cotesto meno assai gravoso incarco;
Chè tenterò di trapassar primiero
Su’ dirupati sassi il dubbio varco.
E tempo è ben che qualche nobil’ opra
424Della nostra virtute omai si scopra.

LIV.


     Così, mutato scudo, appena disse,
Quando a lui venne una saetta a volo,
E nella gamba il colse, e la trafisse
428Nel più nervoso ove è più acuto il duolo.
Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse,
La fama il canta: e tuo l’onor n’è solo.
Se questo dì servaggio o morte schiva
432La tua gente Pagana, a te s’ascriva.

LV.


     Ma il fortissimo Eroe, quasi non senta
Il mortifero duol della ferita,
Dal cominciato corso il piè non lenta,
436E monta su i dirupi, e gli altri invita.
Pur s’avvede egli poi che nol sostenta
La gamba, offesa troppo ed impedita;
E che inaspra agitando ivi l’ambascia;
440Onde, sforzato, alfin l’assalto lascia.

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LVI.


     E chiamando il buon Guelfo a se con mano,
A lui parlava: io me ne vo costretto.
Sostien persona tu di Capitano,
444E di mia lontananza empi il difetto;
Ma picciol’ora io vi starò lontano:
Vado, e ritorno; e si partia ciò detto:
Ed ascendendo in un leggier cavallo,
448Giunger non può, che non sia visto, al vallo.

LVII.


     Al dipartir del Capitan, si parte
E cede il campo la fortuna Franca.
Cresce il vigor nella contraria parte:
452Sorge la speme, e gli animi rinfranca.
E l’ardimento col favor di Marte,
Ne’ cor fedeli, e l’impeto già manca.
Già corre lento ogni lor ferro al sangue,
456E delle trombe istesse il suono langue.

LVIII.


     E già tra’ merli a comparir non tarda
Lo stuol fugace che ’l timor caccionne.
E mirando la Vergine gagliarda,
460Vero amor della patria arma le donne.
Correr le vedi, e collocarsi in guarda
Con chiome sparse e con succinte gonne:
E lanciar dardi, e non mostrar paura
464D’esporre il petto per le amate mura.

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LIX.


     E quel ch’ai Franchi più spavento porge,
E ’l toglie ai difensor della Cittade,
È, che ’l possente Guelfo (e se n’accorge
468Questo popolo e quel) percosso cade.
Tra mille il trova sua fortuna, e scorge
D’un sasso il corso per lontane strade.
E da sembiante colpo, al tempo stesso,
472Colto è Raimondo, onde giù cade anch’esso.

LX.


     Ed aspramente allora anco fu punto
Nella proda del fosso Eustazio ardito.
Nè in questo ai Franchi fortunoso punto
476Contra lor da’ nemici è colpo uscito
(Chè n’uscir molti) onde non sia disgiunto
Corpo dall’alma, o non sia almen ferito.
E in tal prosperità via più feroce
480Divenendo il Circasso, alza la voce:

LXI.


     Non è questa Antiochia, e non è questa
La notte amica alle Cristiane frodi.
Vedete il chiaro Sol, la gente desta,
484Altra forma di guerra ed altri modi.
Dunque favilla in voi nulla più resta
Dell’amor della preda, e delle lodi?
Chè sì tosto cessate, e sete stanche
488Per breve assalto, o Franchi no, ma Franche?

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LXII.


     Così ragiona, e in guisa tal s’accende
Nelle sue furie il Cavaliero audace:
Che quell’ampia Città ch’egli difende,
492Non gli par campo del suo ardir capace:
E si lancia a gran salti ove si fende
Il muro, e la fessura adito face,
Ed ingombra l’uscita: e grida intanto
496A Soliman che si vedeva da canto:

LXIII.


     Solimano, ecco il loco, ed ecco l’ora
Che del nostro valor giudice fia.
Chè cessi? o di chè temi? or costà fuora
500Cerchi il pregio sovran chi più ’l desia.
Così gli disse; e l’uno e l’altro allora
Precipitosamente a prova uscia:
L’un da furor, l’altro da onor rapito,
504E stimolato dal feroce invito.

LXIV.


     Giunsero inaspettati ed improvvisi
Sovra i nemici, e in paragon mostrarsi:
E da lor tanti fur uomini uccisi,
508E scudi ed elmi dissipati e sparsi,
E scale tronche, ed arieti incisi;
Che di lor parve quasi un monte farsi:
E mescolati alle ruine alzaro,
512In vece del caduto, alto riparo.

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LXV.


     La gente che pur dianzi ardì salire
Al pregio eccelso di mural corona,
Non ch’or d’entrar nella Cittate aspire,
516Ma sembra alle difese anco mal buona:
E cede al novo assalto, e in preda all’ire
De’ due guerrier le machine abbandona:
Ch’ad altra guerra omai saran mal’atte;
520Tanto è ’l furor che le percuote e batte!

LXVI.


     L’uno e l’altro Pagan, come il trasporta
L’impeto suo, già più e più trascorre.
Già ’l foco chiede ai cittadini, e porta
524Due pini fiammeggianti inver la torre.
Cotali uscir dalla tartarea porta
Sogliono, e sottosopra il mondo porre,
Le ministre di Pluto empie sorelle,
528Lor ceraste scuotendo e lor facelle.

LXVII.


     Ma l’invitto Tancredi, il quale altrove
Confortava all’assalto i suoi Latini,
Tosto che vide le incredibil prove,
532E la gemina fiamma, e i due gran pini:
Tronca in mezzo le voci, e presto move
A frenar il furor de’ Saracini.
E tal del suo valor dà segno orrendo,
536Che chi vinse e fugò, fugge or perdendo.

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LXVIII.


     Così della battaglia or quì lo stato
Col variar della fortuna è volto;
E in questo mezzo il Capitan piagato
540Nella gran tenda sua già s’è raccolto,
Col buon Sigier, con Baldovino a lato,
Di mesti amici in gran concorso e folto.
Ei che s’affretta, e di tirar s’affanna
544Della piaga lo stral, rompe la canna.

LXIX.


     E la via più vicina e più spedita
Alla cura di lui vuol che si prenda:
Scoprasi ogni latébra alla ferita,
548E largamente si risechi e fenda.
Rimandatemi in guerra, onde finita
Non sia col dì, prima ch’a lei mi renda.
Così dice; e premendo il lungo cerro
552D’una gran lancia, offre la gamba al ferro.

LXX.


     E già l’antico Erotimo, che nacque
In riva al Po, s’adopra in sua salute:
Il qual dell’erbe e delle nobil’ acque
556Ben conosceva ogni uso, ogni virtute:
Caro alle Muse ancor; ma si compiacque
Nella gloria minor dell’arti mute:
Sol curò torre a morte i corpi frali,
560E potea far i nomi anco immortali.

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LXXI.


     Stassi appoggiato, e con sicura faccia
Freme immobile al pianto il Capitano.
Quegli in gonna succinto, e dalle braccia
564Ripiegato il vestir leggiero e piano,
Or con l’erbe potenti in van procaccia
Trarne lo strale, or con la dotta mano:
E con la destra il tenta, e col tenace
568Ferro il va riprendendo, e nulla face.

LXXII.


     L’arti sue non seconda, ed al disegno
Par che per nulla via Fortuna arrida:
E nel piagato Eroe giunge a tal segno
572L’aspro martir, che n’è quasi omicida.
Or quì l’Angel custode, al duol indegno
Mosso di lui, colse dittamo in Ida:
Erba crinita di purpureo fiore,
576Ch’have in giovani foglie alto valore.

LXXIII.


     E ben mastra Natura alle montane
Capre n’insegna la virtù celata,
Qualor vengon percosse, e lor rimane
580Nel fianco affissa la saetta alata.
Ouesta, benchè da parti assai lontane,
In un momento l’Angelo ha recata:
E, non veduto, entro le mediche onde
584Degli apprestati bagni il succo infonde.

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LXXIV.


     E del fonte di Lidia i sacri umori,
E l’odorata panacea vi mesce.
Ne sparge il vecchio la ferita, e fuori
588Volontario per se lo stral se n’esce,
E si ristagna il sangue: e già i dolori
Fuggono dalla gamba, e ’l vigor cresce.
Grida Erotimo allor: l’arte maestra
592Te non risana, o la mortal mia destra;

LXXV.


     Maggior virtù ti salva: un Angel, credo,
Medico per te fatto, è sceso in terra;
Chè di celeste mano i segni vedo:
596Prendi l’arme (che tardi?) e riedi in guerra.
Avido di battaglia il pio Goffredo
Già nell’ostro le gambe avvolge e serra:
E l’asta crolla smisurata, e imbraccia
600Il già deposto scudo, e l’elmo allaccia.


Maggior virtù ti salva: Un Angel, credo,
Medico per te fatto, è sceso in terra.



LXXVI.


     Uscì dal chiuso vallo e si converse,
Con mille dietro, alla Città percossa.
Sopra di polve il Ciel gli si coperse:
604Tremò sotto la terra al moto scossa:
E lontano appressar le genti avverse
D’alto il miraro, e corse lor per l’ossa
Un tremor freddo, e strinse il sangue in gelo.
608Ed egli alzò tre fiate il grido al Cielo.

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LXXVII.


     Conosce il popol suo l’altera voce,
E ’l grido eccitator della battaglia:
E riprendendo l’impeto veloce
612Di novo ancora alla tenzon si scaglia.
Ma già la coppia dei Pagan feroce
Nel rotto accolta s’è della muraglia,
Difendendo ostinata il varco fesso
616Dal buon Tancredi e da chi vien con esso.

LXXVIII.


     Quì disdegnoso giunge e minacciante,
Chiuso nell’arme, il Capitan di Francia:
E in su la prima giunta al fero Argante
620L’asta ferrata fulminando lancia.
Nessuna mural machina si vante
D’avventar con più forza alcuna lancia.
Tuona per l’aria la nodosa trave:
624V’oppon lo scudo Argante, e nulla pave.

LXXIX.


     S’apre lo scudo al frassino pungente:
Nè la dura corazza anco il sostiene;
Chè rompe tutte l’arme, e finalmente
628Il sangue Saracino a sugger viene.
Ma si svelle il Circasso, e ’l duol non sente,
Dall’arme il ferro affisso e dalle vene,
E in Goffredo il ritorse: a te, dicendo,
632Rimando il tronco, e l’armi tue ti rendo.

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LXXX.


     L’asta ch’offesa or porta, ed or vendetta,
Per lo noto sentier vola e rivola.
Ma già colui non fere ove è diretta;
636Ch’egli si piega, e ’l capo al colpo invola.
Coglie il fedel Sigiero, il qual ricetta
Profondamente il ferro entro la gola:
Nè gli rincresce, del suo caro Duce
640Morendo in vece, abbandonar la luce.

LXXXI.


     Quasi in quel punto Soliman percuote
Con una selce il cavalier Normando:
E questi al colpo si contorce e scuote,
644E cade in giù, come paléo, rotando.
Or più Goffredo sostener non puote
L’ira di tante offese, e impugna il brando:
E sovra la confusa alta ruina
648Ascende, e move omai guerra vicina.

LXXXII.


     E ben ei vi facea mirabil cose,
E contrasti seguiano aspri e mortali;
Ma fuori uscì la notte, e ’l mondo ascose
652Sotto il caliginoso orror dell’ali:
E l’ombre sue pacifiche interpose
Fra tante ire de’ miseri mortali:
Sicchè cessò Goffredo, e fè ritorno.
656Cotal fin ebbe il sanguinoso giorno.

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LXXXIII.


     Ma pria che ’l pio Buglione il campo ceda,
Fa indietro riportar gli egri e i languenti:
E già non lascia a’ suoi nemici in preda
660L’avanzo de’ suoi bellici tormenti.
Pur salva la gran torre avvien che rieda,
Primo terror delle nemiche genti:
Comechè sia dall’orrida tempesta
664Sdrucita anch’essa in alcun loco, e pesta.

LXXXIV.


     Da’ gran periglj uscita ella sen viene
Giungendo a loco omai di sicurezza.
Ma qual nave talor ch’a vele piene
668Corre il mar procelloso, e l’onde sprezza;
Poscia in vista del porto, o su le arene,
O su i fallaci scoglj un fianco spezza:
O qual destrier passa le dubbie strade,
672E presso al dolce albergo incespa e cade:

LXXXV.


     Tale inciampa la torre; e tal da quella
Parte che volse all’impeto de’ sassi,
Frange due rote debili, sicch’ella
676Ruinosa pendendo arresta i passi.
Ma le soppone appoggj, e la puntella
Lo stuol che la conduce, e seco stassi,
Insin che i pronti fabbri intorno vanno,
680Saldando in lei d’ogni sua piaga il danno.

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LXXXVI.


     Così Goffredo impone, il qual desia
Che si racconci innanzi al nuovo Sole.
Ed occupando questa e quella via,
684Dispon le guardie intorno all’alta mole;
Ma il suon dalla Città chiaro s’udia
Di fabbrili instrumenti e di parole,
E mille si vedean fiaccole accese,
688Onde seppesi il tutto, e si comprese.