Fosca/Capitolo XXXVI

Capitolo XXXVI

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Capitolo XXXV Capitolo XXXVII

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XXXVI.

Eravamo nel mese di novembre. Fosca mi disse un giorno: «Domani andremo a passare una giornata intiera in campagna, andremo a piangere sulle foglie che cadono.»

Il luogo dove dovevamo recarci era una fattoria a dieci miglia della città, situata in una posizione incantevole, a piedi degli Appennini. V’era già stato con essa altre volte, e vi andava volontieri, benchè la compagnia di Fosca mi amareggiasse di tanto quella gioia da rendermivi quasi indifferente. Ella invece ne era pazza; quelli erano i giorni più lieti della sua vita. Se io fossi stato poco più forte, poco più generoso, avrei potuto e dovuto essere felice di quella felicità sì piena e sì grande di cui godeva ella stessa. Ma io non possedeva che la virtù della tolleranza, non sapeva che rassegnarmi, e non poteva pretendere di più dal mio cuore.

In quel giorno ero mesto e scorato più che mai. Mi ero avveduto che la mia salute si alterava spaventevolmente, e che il mio coraggio, la mia forza, la mia gaiezza svanivano a poco a poco con essa.

L’ultima volta che Clara mi aveva visto ne era rimasta atterrita, e mi aveva detto: «Povero Giorgio, mi pare di vederti ancora quale ti vidi la prima volta che venisti a battere all’uscio della mia casa; sei molto triste, molto dimagrato, che hai?» E non so se fosse per pietà che le inspirasse di nuovo il mio stato, o per affanni suoi intimi, ella era assai pensierosa e assai mesta.

Dacchè Fosca era guarita, m’era recato a vederla due altre volte, e l’aveva sempre trovata così; non mi [p. 144 modifica]pareva più quella. Non che mi amasse di meno, ma non era più lieta come prima, non mi sembrava più felice. E perchè si affannava adesso ad accertarmi del suo amore, a giurarmi che mi amava, a chiedermi se il suo affetto era tutta la mia vita e la mia felicità?

Ohimè! Io dubitavo. Io conosceva assai bene il cuore degli uomini. Quando l’amore se ne va, allora si sente il bisogno di affermarlo. Noi siamo più costanti della natura, più fedeli, più coscienziosi; noi vorremmo trattenere questo amore che la natura ci invola, ma è indarno. Come, come amare ancora quando l’amore se n’è andato, quando il nostro cuore è rimasto deserto, e l’oggetto delle nostre affezioni non ha più un’attrattiva per noi? Noi possiamo piangere su questa fralezza dell’amore, ma non possiamo arrestarlo: egli abbandona i cuori che vi hanno troppo creduto.

Io non sospettava che Clara avesse cessato di amarmi, no; questo sospetto mi avrebbe ucciso (almeno allora lo credeva), ma mi sentiva nell’anima mia qualche cosa di simile al presagio di una sventura lontana; mi pareva che avrei dovuto perderla, e l’amava di più. Cosa portentosa, incomprensibile a me stesso; l’amava più ancora di prima, oltre quella misura che aveva giudicata estrema, più di quanto aveva creduto compatibile colla nostra natura mortale.

Tale sono stato in ogni tempo. Il pericolo non ha mai smentita quella fede che aveva riposta negli esseri e nelle cose che mi erano care. No, non li ho mai abbandonati. Allorchè io li ho veduti sfuggirmi, mi sono avvinghiato ad essi per gettarmi insieme nell’abisso, per precipitare in una rovina comune.

Pensava a queste cose seduto sulla riva di un torrente, poco lungi dalla fattoria, dove era venuto insieme col colonnello e con Fosca. Dopo tante ore di persecuzione, [p. 145 modifica]era riuscito a trovarmi solo un istante, ed era fuggito in quel luogo quasi a nascondermivi. Era assetato di pace e di solitudine. In quel giorno Fosca era stata intollerabile, mi era divenuta odiosa. Durante il viaggio, durante la colazione, durante le nostre passeggiate nel giardino, non mi s’era tolta dal fianco un istante. Suo cugino aveva preso un fucile ed era andato a sparare ai colombi; ella mi aveva condotto sotto un albero, mi aveva fatto sedere vicino a lei, e m’aveva parlato del suo amore sì a lungo e sì calorosamente, che n’aveva l’anima piena di disperazione e di tedio. Non sentiva più alcuna pietà per essa, perchè mi pareva di meritarne di più io medesimo.

Aveva ora approfittato di un momento in cui ella aveva dovuto allontanarsi, per fuggire e per andarmi a sedere sulla riva di quel torrente.

Da quanto tempo non m’era trovato più solo in campagna, e non aveva più inteso la voce soave della natura! Era un luogo orribilmente incantevole; il suolo a roccie, a borri, a dirupi, ad avvallamenti; il torrente scorreva nel fondo di una forra in un letto di selci terse e bianchissime; querce e castagni secolari sporgevano da una riva e dall’altra le loro braccia che si intrecciavano; il sole vicino a declinare gettava sulla superficie dell’acqua alcuni raggi che sembravano convertirla in tante lame d’oro e d’argento. Di quando in quando uno sbuffo di rovaio faceva cadere una pioggia di foglie che l’acqua travolgeva nei suoi vortici, o spingeva verso la riva; il terreno era fiorito di ciclamini, di pratelline, di viole; una pispola cantava sopra il mio capo; io guardava e sognava.

Era là, seduto da un’ora, allorchè alzando gli occhi verso la sommità del burrone, vidi Fosca che stava seduta guardandomi. Io la vidi e non mi mossi. Ella si [p. 146 modifica]alzò, esitò un istante, poi attraversò correndo un tratto della riva coperto di acacie e di rovi, mi raggiunse, e si lasciò cadere vicino a me senza parlare.

— Mi sfuggi? mi disse ella finalmente dopo un lungo silenzio.

— No, ma aveva bisogno di esser solo.

— Perchè non avvertirmi?

— Temeva d’offenderti.

— Credevi meno offensivo il non dirmelo?

— Mio Dio! io dissi; ma tu vuoi mettere il mio cuore ad una prova ben esigente!

Ella fece atto di alzarsi.

Io sollevai gli occhi per un movimento quasi involontario, e raccapricciai nel vedere che aveva il volto e le mani tutte coperte di sangue. Nell’attraversare la riva correndo, s’era ferita alle spine delle acacie, s’era lacerati i capelli, e aveva fatto a brani il suo abito.

— Resta, io le dissi con voce commossa afferrando le sue braccia, tu sei ferita, tu devi soffrire.

Ella si guardò le mani senza muoversi, e disse:

— Non me n’ero accorta.

Le sciolsi un fazzoletto bianco che aveva al collo, e le asciugai il volto; andai a bagnarne un’estremità nell’acqua, e le lavai le ferite. Ella mi lasciava fare senza dir parola: guardava il torrente cogli occhi fissi e spalancati, e pareva assorta in una strana meditazione.

— Che hai? le chiesi io; a che pensi?

Non mi rispose.

— Vuoi che mi getti in quell’acqua? mi disse ella dopo un momento di silenzio.

— Fosca, esclamai, non essere così ingiusta con me; io, tu lo sai, io ho momenti di tristezza, durante i quali posso essere qualche volta cattivo, ma tu conosci il mio cuore. [p. 147 modifica]

— È perchè lo conosco, perciò appunto che vorrei liberarti del peso della mia affezione. Forse che io non vedo le tue torture?

Le strinsi la mano senza risponderle, e le dissi dopo un istante:

— Credo che tu te ne sia fatta un concetto esagerato.

— Può essere, diss’ella.

Tacemmo tutti e due per più di un’ora.

Ella strappava convulsivamente delle manate di erba che gettava nell’acqua, applicava delle foglie sulle sue graffiature, e le levava per vedervi le traccie del sangue. Io guardava il fondo del torrente seminato di macchiette d’alghe che l’acqua curvava scorrendo. Eravamo appoggiati l’uno all’altra, ma sì assorti in noi, sì immobili, che non sentivamo più il nostro contatto.

Il campanello di una mucca, che venne a pascolare sulla sommità della riva, ci riscosse da quell’assopimento. Quella bestia ci affissava con aria di stupida meraviglia; abbassava il capo, sbrucava una boccata d’erba, poi tornava a rialzarlo e a guardarci. Ad ogni movimento della testa, il campanello che le pendeva dal collo mandava un suono sordo e malinconico.

Fosca mi disse:

— Perchè mi guarda così?

— Non so, io risposi sorridendo, guarda pure me.

— Non però tanto fissamente. Ciò mi fa pena, non so il perchè, ma mi fa una gran pena, ne ho quasi paura; mandala via, Giorgio, te ne scongiuro.

E si nascose il volto tra le mani per non vederla. Io mi alzai e me le appressai un poco agitando un fazzoletto; ella si allontanò fuggendo, e facendo tintinnare la sua campana.

— Credi che quella bestia sia più felice di me? mi chiese Fosca quando tornai a sedermele vicino. [p. 148 modifica]

— Se il non aver affetti e passioni, il non aver coscienza di bene e di male può essere una sorgente di felicità, io credo che sì, dissi. E in questo caso, è anche più avventurata di qualunque uomo avventuratissimo. Ma che ne sappiamo noi? Chi può scrutare nella loro natura?

— Ella era sola, e pareva nondimeno tranquilla. Non si amano forse tra loro?

— Non come noi. Ciò che è strano è che l’uomo soltanto ha orrore della solitudine.

— Tu però la cercavi poco anzi.

— Per un istante.

— Perchè volevi esser solo?

— Per pensare.

— A chi?

— Dio mio!... A nessuno, a me stesso, alla natura. Non hai mai sentito il bisogno di esser sola?

— Sì, quando soffriva... per piangere.

— Ebbene…

— Tu volevi piangere? interruppe ella, e per me?

— Ma no, io dissi con impazienza; buon Dio; voleva esser solo, ecco tutto.

Fosca chinò il capo con aria mortificata, colse una viola, e mi chiese dopo qualche momento:

— Perchè rifioriscono adesso le viole e le margherite, i primi fiori che sbucciano a primavera?

— Credo che si sbaglino, io dissi, il tepore dell’autunno fa loro immaginare che l’aprile sia già ritornato. Vi sono molti fiori che cadono nello stesso errore. I lillà, i rosai, i sambuchi, tutte le piante primaticce tornano a metter le gemme in autunno.

— È vero, diss’ella, l’autunno e la primavera si rassomigliano. È la stessa cosa che la gioventù e la vecchiezza. Chi sa se a ottant’anni si risentano le passioni di quindici! [p. 149 modifica]

— Ma! io dissi, è però ben certo che si riprovano le stesse debolezze. La vita è un arco, le estremità si assomigliano perchè sono vicine. Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; si muore come si ha incominciato a vivere, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che il formarsi del germe di un’altra vita.

— E queste viole bianche, diss’ella, sono viole da morto, non è vero? Perchè i fiori da morto sono tutti bianchi?

Io mi sentiva orribilmente tediato da quelle domande. Il sole tramontava in quell’istante, l’orizzonte pareva in fiamme, i tronchi degli alberi spiccavano vivamente da quel fondo sanguigno ed abbagliante. Io pensava a Clara. Se ella fosse stata con me!

— Non so, io dissi, forse perchè sono i più mesti e i più fragili.

— Regalami un fiore.

— Ecco.

Spiccai una primula gialla e gliela diedi.

— Che uccello è quello che canta?

— Mio Dio! Uno scricciolo.

— Come la sua voce è sottile! Che colore ha?

— Credo grigio; eccolo, guardalo lì, su quel ramo.

— Credo che sia il più piccolo dei nostri uccelli.

— Il più piccolo.

— Dammi un bacio.

Mi rivolsi, e la baciai con freddezza.

Se ne avvide, mi guardò e mi disse:

— Ti tormento, non è vero? Ebbene ti bacierò io sola.

Mi prese una mano che si avvicinò alle labbra. Vedendo che io non le dicevo nulla tornò a chiedermi:

— Ti annoio forse? ti faccio soffrire? vuoi che io vada via? Rispondimi. [p. 150 modifica]

Io continuai a tacere. Era tutto il giorno che ella mi opprimeva così, il dispetto mi aveva reso muto e crudele.

— Rispondi, ripetè ella con accento supplichevole.

— Oh, lasciami, esclamai io con impazienza, lasciami!

Ella si alzò, e incominciò a risalire lentamente la riva. Non si era allontanata che di pochi passi, allorchè intesi un suo urlo acutissimo; mi rivolsi, e vidi che era caduta a terra in preda ad una di quelle sue convulsioni terribili.

Compresi troppo tardi il male che aveva fatto. Quell’accesso era uno de’ più violenti. Di là alla fattoria vi erano dieci minuti di cammino, fra poco avrebbe annottato, io e lei eravamo soli in quella forra.

La distesi sull’erba. Corsi a prendere acqua nella palma della mano, le spruzzai il volto, ma indarno. Le sue grida e le sue convulsioni erano calmate a poco a poco, ma ella era ancora svenuta. Me le sedetti vicino, aspettando in un’ansietà mortale che rinvenisse. Scorse una mezz’ora, era quasi buio. La mucca che avevamo veduto prima ripassò sulla sommità del burrone agitando il suo sonaglio, e si fermò un istante a guardarci. Anch’io ebbi quasi paura di quello sguardo. Quella donna distesa sull’erba come morta, coll’abito lacero, col volto livido e insanguinato, a quell’ora, in quell’oscurità tetra che non era nè luce, nè tenebre, in quella forra profonda, sotto quei grandi alberi, soli... v’era in quel quadro qualche cosa di sì tetro, che raccapriccio ancora oggi a ricordarlo.

Quando m’avvidi che era inutile l’indugiare, sollevai Fosca sulle mie braccia, e mi diressi verso la fattoria. Ella era sì magra, sì consunta che io indovinava quasi il suo scheletro sotto le pieghe del suo abito di seta, e ne rabbrividiva. Quanta differenza da quei giorni, nei quali aveva per vezzo portato Clara in quel modo [p. 151 modifica]attorno alla nostra piccola stanza, e aveva sentito fremere sulla mia persona le sue forme piene, pieghevoli, dense!

Il colonnello era stato assai inquieto per la nostra assenza; lo fu ancor più nel vederci tornare in quel modo.

Gli raccontai che, avendo udito le grida di Fosca, era corso verso il torrente e l’aveva trovata a terra svenuta; forse nel cadere s’era offesa il volto e le mani cogli spini.

Fu posta in carrozza, così priva di sensi com’era. Durante il viaggio non abbandonò mai la mia mano che stringeva tra le sue convulsivamente.

Suo cugino mi disse:

— Mi dispiace che ella vi fa stare in una posizione molto incomoda; poveretta, non capisce più nulla, vi ha scambiato per me.

— Certo, io risposi, ella crede di stringere la vostra mano.