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— È perchè lo conosco, perciò appunto che vorrei liberarti del peso della mia affezione. Forse che io non vedo le tue torture?

Le strinsi la mano senza risponderle, e le dissi dopo un istante:

— Credo che tu te ne sia fatta un concetto esagerato.

— Può essere, diss’ella.

Tacemmo tutti e due per più di un’ora.

Ella strappava convulsivamente delle manate di erba che gettava nell’acqua, applicava delle foglie sulle sue graffiature, e le levava per vedervi le traccie del sangue. Io guardava il fondo del torrente seminato di macchiette d’alghe che l’acqua curvava scorrendo. Eravamo appoggiati l’uno all’altra, ma sì assorti in noi, sì immobili, che non sentivamo più il nostro contatto.

Il campanello di una mucca, che venne a pascolare sulla sommità della riva, ci riscosse da quell’assopimento. Quella bestia ci affissava con aria di stupida meraviglia; abbassava il capo, sbrucava una boccata d’erba, poi tornava a rialzarlo e a guardarci. Ad ogni movimento della testa, il campanello che le pendeva dal collo mandava un suono sordo e malinconico.

Fosca mi disse:

— Perchè mi guarda così?

— Non so, io risposi sorridendo, guarda pure me.

— Non però tanto fissamente. Ciò mi fa pena, non so il perchè, ma mi fa una gran pena, ne ho quasi paura; mandala via, Giorgio, te ne scongiuro.

E si nascose il volto tra le mani per non vederla. Io mi alzai e me le appressai un poco agitando un fazzoletto; ella si allontanò fuggendo, e facendo tintinnare la sua campana.

— Credi che quella bestia sia più felice di me? mi chiese Fosca quando tornai a sedermele vicino.