Pagina:Tarchetti - Fosca, 1874.djvu/152

150 fosca


Io continuai a tacere. Era tutto il giorno che ella mi opprimeva così, il dispetto mi aveva reso muto e crudele.

— Rispondi, ripetè ella con accento supplichevole.

— Oh, lasciami, esclamai io con impazienza, lasciami!

Ella si alzò, e incominciò a risalire lentamente la riva. Non si era allontanata che di pochi passi, allorchè intesi un suo urlo acutissimo; mi rivolsi, e vidi che era caduta a terra in preda ad una di quelle sue convulsioni terribili.

Compresi troppo tardi il male che aveva fatto. Quell’accesso era uno de’ più violenti. Di là alla fattoria vi erano dieci minuti di cammino, fra poco avrebbe annottato, io e lei eravamo soli in quella forra.

La distesi sull’erba. Corsi a prendere acqua nella palma della mano, le spruzzai il volto, ma indarno. Le sue grida e le sue convulsioni erano calmate a poco a poco, ma ella era ancora svenuta. Me le sedetti vicino, aspettando in un’ansietà mortale che rinvenisse. Scorse una mezz’ora, era quasi buio. La mucca che avevamo veduto prima ripassò sulla sommità del burrone agitando il suo sonaglio, e si fermò un istante a guardarci. Anch’io ebbi quasi paura di quello sguardo. Quella donna distesa sull’erba come morta, coll’abito lacero, col volto livido e insanguinato, a quell’ora, in quell’oscurità tetra che non era nè luce, nè tenebre, in quella forra profonda, sotto quei grandi alberi, soli... v’era in quel quadro qualche cosa di sì tetro, che raccapriccio ancora oggi a ricordarlo.

Quando m’avvidi che era inutile l’indugiare, sollevai Fosca sulle mie braccia, e mi diressi verso la fattoria. Ella era sì magra, sì consunta che io indovinava quasi il suo scheletro sotto le pieghe del suo abito di seta, e ne rabbrividiva. Quanta differenza da quei giorni, nei quali aveva per vezzo portato Clara in quel modo at-