Firenze vecchia/XXV. Com'era Firenze

XXV: Com'era Firenze

../XXIV: Attorno alle mura della città ../XXVI: Piazza del Granduca IncludiIntestazione 19 ottobre 2020 75% Da definire

XXIV: Attorno alle mura della città XXVI: Piazza del Granduca

[p. 383 modifica]

XXV

Com’era Firenze


L’aspetto della città − Il birro Chiappini − La pulizia delle strade e i forzati − Sorveglianza dei pompieri − Inconvenienti − L’illuminazione pubblica − Polizia mortuaria − Il palazzo Borghese − L’architetto Gaetano Baccani - Un concorso — La prima festa nel palazzo Borghesi − La granduchessa Baciocchi e tre giovani artisti − Don Camillo Borghesi patrizio fiorentino − La demolizione dell’arco di Santa Trinità − Gli architetti Cacialli e Baccani − Il Cinci pontaio − Bontà d’animo di Ferdinando III − La luminara alla Sardigna − Allargamento della Piazza del Duomo − Apertura di nuove strade.

L’interno della città, per quanto a quei tempi potesse dirsi una delle più pulite e decenti d’Italia, era molto diverso da quello che è presentemente. Basti dire che nel piazzale degli Uffizi si faceva il mercato dei cavalli e dei puledri, e sulla Piazza di Santa Maria Novella quello giornaliero della paglia e del carbone, che a soma, sui somari, si contrattava poi al minuto alle case: e prima si faceva nientemeno sulla Piazza di San Giovanni! Gli erbaggi, i cocomeri, i poponi, ecc. si contrattavano ogni giorno sulla Piazza degli Strozzi, detta anche delle Cipolle, perchè in antico vi si faceva unicamente il mercato di quell’ortaggio. Ma per i reclami fatti nel 1826 dal duca Don Ferdinando e dal conte Filippo Strozzi, il Presidente del Buon Governo destinò per il mercato degli erbaggi la predetta Piazza di Santa Maria Novella vecchia, che divenne così la babilonia dei mercati. [p. 384 modifica] Le strade della città erano tenute in uno stato deplorevole; ma allora non pareva, e ci si badava poco; perchè specialmente quelli che si recavano in altre città e le trovavano più mal tenute e più sudicie, Firenze pareva loro un torlo d’uovo! C eran però delle cose che disdicevano addirittura col nome di civiltà, di cui appunto godeva Firenze. Basterà citare fra tante altre, che la Comunità pagava dieci lire l'anno ad ogni caposquadra di birri dei quattro Commissariati, perchè si davan cura di far trasportare alla Sardigna i cani e i gatti morti trovati per le strade!

Un caposquadra rimasto come esempio di zelo fra i birri, fu Lorenzo Chiappini, al quale il Magistrato civico, con partito del 1O settembre 1783, assegnò il premio di dieci paoli, destinatogli come al «famiglio inventore dei trasgressori alla legge degli ingombri del suolo pubblico». Da questo Chiappini si vuole che discendesse Luigi Filippo d’Orléans!

Lo sconcio più grave era quello della Piazza di Santa Croce, ove dai conciatori si faceva la distesa delle pelli su degli stecconi per asciugarle, «che tramandavano pestifere esalazioni pregiudicevoli alla pubblica salute.» E non c’è da stentare a crederlo! Ma per quanto contro quella pestilenziale distesa protestassero e reclamassero gli abitanti della Piazza di Santa Croce fino dal 1783, e che la Comunità trasmettesse i loro reclami al Commissario del quartiere, le pelli si tornavano di quando in quando a distendere, come per tastare il terreno onde tentare di rimetter l’uso.

La pulizia delle strade, finché poi non fu data in appalto, si faceva dai forzati, che con la catena al fianco, legati a coppia, spazzavano le vie, recando tristezza e molestia col rumore delle loro catene.

Molti che da lontano sentivano il suono fesso delle catene cambiavano strada per non vedere quei disgraziati. Essi si distinguevano dal colore dell’abito: i gialli erano condannati a vita ed i rossi a tempo. Erano vestiti con la più grande e ripugnante ostentazione del disprezzo. Avevano la camicia di canapa rozza e grossa come la roba da balle. La [p. 385 modifica]giacchetta era di lana, tagliata senza garbo nè grazia, che non tornava loro a modo nè a verso; e i pantaloni larghi, goffi e corti, che arrivavano poco più giù del ginocchio. Non portavano mai calze ed avevan certe scarpacce grosse, o troppo larghe o troppo strette, che li storpiavano. Dietro le spalle avevano scritto a grandi caratteri il delitto commesso, che si leggeva da lontano: Furto, Omicidio, Resistenza alla pubblica forza e via dicendo.

Quelli sciagurati uscivan dalle Stinche sul far del giorno portando la carretta per la spazzatura, ed ogni squadra era sorvegliata dall’aguzzino col fucile carico. Bastava il più piccolo movimento sospetto, fatto dal forzato anche innocentemente, per esser freddato. Molte volte se erano stanchi si mettevano a sedere sui marciapiedi, e i caffettieri quando aprivan bottega buttavan loro, di nascosto all’aguzzino, delle bucce di limone che quei poveri diavoli si mettevano in bocca con tale avidità, come se fossero state datteri; qualcuno che passava buttava loro qualche quattrino e non si descrive l’espressione dello sguardo di quelle infelici creature. C’era la riconoscenza, l’affetto, il pentimento, c’era tutto quel che si sente e non si può ridire!...

In seguito poi, la sorveglianza delle strade della città fu affidata ai pompieri i quali la perlustravano giornalmente, per assicurarsi che l’impresario della pulizia «adempiesse alle sue obbligazioni;» e la «mercede» che si corrispondeva al corpo dei pompieri per questo servizio, oltrepassava di poco le seicento lire toscane l’anno.

Un altro inconveniente, che in specie i forestieri deploravano come un’offesa al pubblico decoro, era quello che ognuno faceva impunemente il comodo suo non soltanto nei chiassoli e nei vicoli, ma in tutte le strade e in tutte le piazze, ove pure si buttavano le spazzature a qualunque ora del giorno. E per quanto fosse attiva la sorveglianza dei pompieri, e fosse forzatamente zelante, per via delle multe l’opera dell’impresario della pulizia, pur nonostante le strade non eran mai addirittura pulite. Perciò nel 1832 il Magistrato, [p. 386 modifica]considerando che sarebbe stato «un gran guadagno per la pubblica morale il togliere l’inconveniente» che in tutte le piazze e strade si facesse.... quello che pur troppo si faceva, incaricò il signor Gonfaloniere di domandare al Governo l’autorizzazione di destinare dei locali adattati, all’uso che.... si capisce, incaricando l’ingegnere della Comunità di proporre frattanto i luoghi ove collocare i recipienti per.... diciamo così, gli abusi minori. E la Comunità, per dire il vero, non- lesinava troppo sulle spese per raggiunger lo scopo di tenere la città più pulita che si poteva. Ma gli impresari di tutti i tempi e di tutti i generi, quando si tratta di aver l’accollo promettono e sottoscrivono ogni cosa: ma rammentandosi il vecchio dettato che «promettere e mantenere è da paurosi» fanno di tutto per non passare per tali.

Il Comune dunque, oltre al pagare una discreta somma per il servizio della spazzatura e nettezza della città, provvedeva a sue spese i trentasei inservienti - o spazzini come si dice oggi - di un «mantelletto d’incerato con cappuccio» per ciascuno, onde ripararsi in tempo di pioggia, spendendo per tutti dugentosedici lire e quattordici soldi, ossia cinque lire e sei centesimi delle nostre, ognuno.

La spalatura della neve nelle strade e nelle piazze si faceva a cura del magazziniere del Comune, il quale spendeva anche quasi seimila lire in un anno; e perfino settantotto lire precise pure ogni anno, per bruciare nell’estate le farfalle «nell’alveo» dell’Arno; operazione eseguita a cura dell’appaltatore della pulizia o nettezza pubblica.

Inoltre spendeva la Comunità trecentosei lire, sei soldi e otto ogni anno «per la solita annaffiatura dal Ponte alla Carraia fino alla Porta al Prato nella stagione estiva,» comprese lire ventotto per il fitto di tre mesi di una rimessa in Via Gora per riporvi le botti.

Fra gl’incomodi più lamentati dai cittadini vi era quello delle acque dei tetti, le quali non essendo incanalate, quando pioveva, da un grosso tubo posto negli angoli del fabbricato, l’acqua veniva a scialo giù nella strada, addosso alla gente. [p. 387 modifica] L’illuminazione pubblica era quello che poteva essere di più buio. I lampioni a olio col lume a riverbero messi a tempo di Pietro Leopoldo parvero da principio una esagerazione di progresso, perchè fino allora per le strade non e’ erano la notte che le fioche lampade dei tabernacoli; e quindi in tutta Firenze quattro soli lampioni, uno per quartiere, alle case dei Commissari del Buon Governo. Quando dunque venne impiantata la illuminazione a olio fino alla mezzanotte, si poteva scorgere una persona a venti passi! A quell'ora però si spengeva, e festa finita!

Ed anche per la polizia mortuaria c’era molto da ridire. I morti più distinti si sotterravano liberamente nei cimiteri delle chiese o nei cimiteri suburbani; ed il resto a Trespiano ma tutti a sterro!...

Non si creda però con questi severi rilievi fatti allo stato intemo della città, che Firenze fosse tra le peggiori; poiché, giova ripeterlo, era annoverata fra le più pulite.

Essa andava anzi a mano a mano rimodernandosi; e già alcune belle fabbriche erano state costruite sull’area di vecchie case, e si provvedeva a migliorare le più centrali e le più importanti: come si cominciava a studiare il modo di togliere molti sconci e molti inconvenienti, primo fra i quali quello della incanalatura delle acque dei tetti, la costruzione di un pubblico ammazzatoio in Piazza dell’Uccello, ed un miglior sistema di illuminazione. Tutte cose che vennero dopo del tempo, ma che pure vennero.

Fra i nuovi edifizi di cui intanto era stata arricchita la città, il primo fu il Palazzo Borghese, detto poi il Casino di Firenze, costruito da Don Cammillo Borghese sulla fine del 1821. La storia di quel superbo palazzo si riassume brevemente.

Nella circostanza delle nozze del granduca Ferdinando III con la principessa Maria Ferdinanda di Sassonia, avvenute [p. 388 modifica] il 6 maggio 1821, il Comune offrì «nelle Stanze dette del Buon Umore,» annesse all’Accademia delle Belle arti, una festa in onore dei Sovrani la sera del dì 8 maggio.

Il Granduca, incontrandosi a quella festa col principe Cammillo Borghese, che aveva stabilito la sua dimora a Firenze, gli disse:

— Principe, dovreste darla anche voi una festa. —

Don Cammillo, che allora abitava nel palazzo Salviati in Via del Palagio, rispose:

— Lo farei volentieri se avessi un locale degno di ricevere Vostra Altezza.

— Ma voi lo potete fare se volete — soggiunse quasi scherzando Ferdinando III.

— Ed io lo farò, se l’Altezza Vostra si compiacerà di venire ad inaugurarlo.

— Sta bene, per il futuro carnevale. —

Don Cammillo Borghese, messo così all’impegno, mandò a chiamare il suo architetto Gaetano Baccani, giovane allora di ventinove anni, che aveva già reputazione di artista valente e di grande ingegno, acquistatasi anche di recente con la costruzione del torrino nel giardino Torrigiani in Via dei Serragli, da lui eseguito in quello stesso anno.

— Ho promesso al Granduca di dare una festa in suo onore nel carnevale di quest’altr’anno — gli disse senza tanti preamboli il principe Borghese — ma non essendovi qui (cioè nel palazzo Salviati) locale adattato, ho pensato di fabbricare un palazzo. Perciò fai subito un progetto, perchè per la metà di gennaio dell’anno prossimo voglio che sia terminato. —

Il Baccani fece osservare al Principe che il tempo era molto ristretto, e che vedeva la cosa piuttosto difficile; ma Don Cammillo, uomo che non conosceva difficoltà, disse all’architetto, che se vedeva di non poter riuscire lo dicesse pure; perchè egli voleva il palazzo, né avrebbe guardato a spese di sorta, non volendo scomparire col Granduca.

Il Baccani, dispiacente di perdere un’occasione così bella per farsi distinguere, tanto più che quello sarebbe stato il suo [p. 389 modifica] primo lavoro veramente importante, dichiarò al Principe che per il tempo indicato prendeva impegno di costruire il palazzo.

Infatti, dopo pochi giorni gli presentò il progetto, del quale Don Cammillo rimase contentissimo, e la cosa fu stabilita. Ma siccome nel mondo i malevoli e gli invidiosi non sono mai mancati, così alcuni fecero rilevare al Principe, che non era conveniente di affidare alla leggiera un lavoro di tanta importanza ad un giovane che ancora non aveva dato un saggio in grande del suo talento artistico. Per conseguenza, lo persuasero a bandire un concorso, come mezzo più efficace a raggiungere lo scopo che egli si prefiggeva.

Il Principe fece avvisare il Baccani per fargli conoscere la sua intenzione di bandire il concorso; ed il giovane architetto, per quanto si mostrasse mortificato, dovè piegar la testa e ritirarsi. Fu fatto dunque il concorso; ed una Commissione di architetti fra i più rinomati di Firenze e di fuori, fu incaricata di scegliere il progetto migliore a cui, oltre all’esecuzione, era assegnato un cospicuo premio in denaro.

Scaduto il termine, si esaminarono i progetti presentati, fra i quali uno sopra a tutti sorprese per la grandiosità del concetto, per il simpatico insieme delle linee e per lo stile, che si staccava da tutti gli altri.

Com’era naturale, quello fu il prescelto dalla Commissione, che non finiva di lodarlo. Ansiosi i componenti di essa ed il Principe, di conoscerne l’autore, fu aperta la scheda corrispondente al motto del progetto, e si vide che l’autore era lo stesso Gaetano Baccani!

Questa volta fu il principe che rimase mortificato; e mandato a chiamare nuovamente l’architetto fortunato volle dargli egli stesso la nuova, rallegrandosi con lui. Gli disse quindi di volere eseguire il primitivo progetto, perchè più semplice, e meno dispendioso.

Il Baccani tutto contento lo ringraziò commosso, anche perchè alla commissione del lavoro era aggiunto il premio di cinquecento lire, che prima non c’era. [p. 390 modifica]Don Cammillo gli rammentò l’impegno preso col Granduca, e gli fece capire che non intendeva di tardare nemmeno un’ora, alla consegna del palazzo tutto in ordine per darvi la festa alla fine di gennaio del futuro anno 1822.

Benché non ci fossero che soli sei mesi, il Baccani assicurò il principe che il palazzo sarebbe stato terminato per quell'epoca. E così fu: anzi la consegna venne fatta otto giorni innanzi del giorno stabilito.

La festa ebbe luogo il 31 gennaio 1822, ma il Sovrano non vi intervenne a causa del lutto per la morte del cognato, principe Clemente di Sassonia, avvenuta in quei giorni a Pisa.

Con la costruzione del palazzo Borghese l’architetto Baccani assicurò la sua fama. Già egli era noto per i suoi concorsi, coronati tutti da ottimo successo; quello però di maggiore importanza fu il triennale dell’Accademia di belle arti nel quale vinse la medaglia d’oro con l’effìgie di Michelangelo, e nel rovescio le tre corone intrecciate dell’Accademia. Il valore della medaglia era d’intrinseco quarantotto zecchini e otto paoli di moneta toscana, equivalente a cinquecentoquarantadue franchi.

Non sarà inopportuno qui di raccontare, riferendosi a dieci o dodici anni innanzi, che la distribuzione delle medaglie di quel concorso fu fatta con solennità nella sala del Buon Umore e le medaglie dei premiati tanto in architettura, pittura e scultura, vennero distribuite personalmente dalla granduchessa Elisa Baciocchi; la quale, nell’istesso giorno, volle che i tre premiati maggiori, cioè in architettura Baccani, in pittura Bezzuoli, e in scultura Pozzi, andassero a pranzo da lei al palazzo Pitti, ove era pure invitato il presidente dell’Accademia, senatore Giovanni Degli Alessandri, il grande scultore Canova e l’egregio professore Benvenuti.

Essendo i tre giovani premiati stati messi insieme, per metterli forse in minore imbarazzo, avendo ognuno poco più di vent’anni, così avvenne che tutt’e tre, facendosi coraggio l'un con l’altro e perdendo a poco a poco la [p. 391 modifica] soggezione d’un pranzo a Corte, si facevano riempire troppo spesso il bicchiere, giacché il vino della signora Baciocchi era molto diverso da quello che abitualmente bevevano a casa loro. Ma quel vino, facendo il suo effetto, mise i tre giovanotti di buon umore più che nella sala omonima, dove avevan ricevuto il premio. Cosicché l’ilarità che in essi ne derivava, non era troppo confacevole all’ambiente. Il povero professor Benvenuti sudava sangue dalla passione, e badava a far segni a que’ giovinotti perché si moderassero e si rammentassero dov’erano: ma era tempo e fatica sprecata. La Granduchessa che se ne accorse, rivoltasi al Benvenuti gli disse ridendo:

— Lasciateli fare, lasciateli fare: son giovani, ed é bene che siano allegri. —

Tornando alla costruzione del palazzo Borghese, diremo che fu per Firenze un avvenimento di grande importanza; e per più giorni la gente ci si fermava a naso per aria, come se non finisse mai di contemplarlo abbastanza. È un fatto però, che tutta la popolazione portava ai sette cieli il gentiluomo romano, che fra le sue stravaganze aveva avuto la buon idea di costruire una fabbrica che è tuttora decoro di Firenze.

Ed il Magistrato civico, nella sua adunanza del 22 marzo 1822, considerando che il principe Don Cammillo Borghese «aveva manifestato la sua predilezione per Firenze non solo con le maniere nobili e generose, ma ancora con intraprendere e perfezionare grandiosi lavori nell’avito palazzo Salviati, riducendolo a nuovo e più elegante disegno architettonico, mediante l’acquisto di molti fondi a quello contigui» e per avere arricchito la nuova fabbrica di marmi, suppellettili e mobili ricchissimi, occupando architetti, artefici e manifattori toscani d’ogni specie; ed amando la Comunità di dargliene una solenne testimonianza «impetrarono dall’Augusto Sovrano» di volersi degnare di fare iscrivere gratuitamente il principe Don Cammillo Borghese e tutta la sua famiglia e discendenza alla Nobiltà Patrizia fiorentina. [p. 392 modifica]E Ferdinando III «con suo benigno rescritto» del 6 maggio dello stesso anno, approvò «che la predetta Eccellenza Sua, e sua famiglia» fossero gratuitamente ascritti alla Nobiltà Patrizia fiorentina.

Parve che il nuovo palazzo di Via del Palagio, come allora si chiamava quel tratto della Via Ghibellina, desse la spinta ad eseguire nuovi lavori di abbellimenti della città; poiché nel dì 2 aprile 1823 si cominciò dal Comune a parlare sul serio della demolizione «degli stabili sovrapposti all’arco di Santa Trinità» profittando della minacciata rovina di essi. E ciò, non tanto per appagare così «l’oggetto dei voti pubblici » quanto per migliorare quel tratto di Lungarno togliendo una porzione di fabbriche che lo deturpavano «nel più bel punto di vista,» e restituire {sic) un abbellimento in aggiunta degli invidiabili pregi della città. Considerò altresì il Magistrato, che l’opporsi al voto universale dei cittadini e dei forestieri «che non cessano di ammirare la bellezza del tutto insieme» avrebbe dimostrato nel IMagistrato stesso «una privazione totale di buon gusto e di amore per gli abbellimenti ed ornati della città.» Perciò, ritenendo che «conveniva preliminarmente assicurarsi del preciso valore dei fondi, riconobbe che per tale oggetto non vi era che il signor conte Luigi De Cambray Digny il quale potesse sostenere con impegno e zelo l’interesse della Comunità e del Governo,» tanto più che egli era stato dal Magistrato supremo nominato Periziare nella vertenza tra la Comunità e i proprietari per causa della rovina che minacciavano le dette fabbriche. Lo elessero quindi perito nell’interesse della Comunità «combinandosi l’intera fiducia del Magistrato nell'abilità e talenti di sì degno soggetto, e l’adesione del medesimo all’incarico da affidarsegli.» Il Comune però, vedendo di non potersi ingolfare in un’opera che sarebbe costata una somma rilevante, si rivolse, secondo il solito, «alla [p. 393 modifica] munificenza sovrana» perchè questa «venisse in soccorso della Comunità, la quale, diversamente, si sarebbe trovata nella necessità di abbandonare un sì bel progetto.»

Il dì 7 luglio il Provveditore della Camera della Comunità partecipò al Gonfaloniere che S.A.I. e R. «mentre si era L’Arco di Santa Trinita. degnata di approvare» che la Comunità di Firenze assumesse il carico di effettuare la demolizione dell’arco di Santa Trinità «secondo il progetto già concepito» aveva ordinato che a favore della Comunità stessa «venisse elargita dalla cassa dello scrittoio delle RR. Fabbriche a titolo gratuito e per una sola volta» la somma di seimila scudi, pari a trentacinquemila dugentottanta lire della nostra moneta. Con questo però; che la Comunità dovesse sostenere interamente il carico della spesa occorrente per il detto lavoro «qualunque potessero essere i casi imprevisti, ed a qualunque somma potesse ascendere nella sua totalità» escludendo assolutamente ogni altro soccorso per parte del R. [p. 394 modifica] Erario. Soltanto, come «atto ulteriore di sovrana munificenza,» il Granduca poneva a carico dell’I. e R. Depositeria la somma che sarebbe occorsa per i diritti di registro per i contratti coi respettivi proprietari degli stabili da demolirsi.

Il Magistrato nell’adunanza del 9 luglio seguente «dopo aver lungamente trattato della materia» deliberò di affidare interamente la direzione e soprintendenza di tutti i lavori «al signor De Cambray Digny, Direttore dello scrittoio delle RR. Fabbriche, con amplissima facoltà al medesimo di eleggere e destinare per la esecuzione di fatto di detti lavori, quelle persone che fossero da esso giudicate più capaci ed idonee.» Frattanto incaricava l’ingegnere Pietro Municchi della stima dei fondi da acquistarsi dalla Comunità.

Il signor De Cambray Digny affidò l’opera dell’abbellimento di quel tratto del Lungarno di Santa Trinità, mercè la demolizione dell’arco, all’architetto Cacialli, il quale alla sua volta si valse dell’opera dell’architetto Gaetano Baccani, che si era oramai assicurata la fama di artista valente.

Quando il lavoro fu condotto quasi a termine, il Direttore delle RR. Fabbriche, invitò il granduca Ferdinando III a vedere per il primo, il nuovo aspetto che prendeva quel pezzo del Lungarno. Il Granduca accettato l’invito vi si recò, ed entrato nella paracinta, dove fu ricevuto dagli architetti Digny, Cacialli e Baccani, fu dato ordine al pontaio soprannominato Cinci di togliere il legname di un ponte all’altezza d’uomo. Il Cinci però, impressionato dalla presenza del Sovrano, per quanto questi cercasse di dar poca soggezione, mentre stava chinato per sfilare un’asse voltando le spalle al Granduca, scivolandogli un piede poco mancò che non cadesse all’indietro. Ferdinando III fu pronto a sostenerlo con una mano, per l’appunto in quella parte della persona che minacciava di mettere a sedere in terra il Cinci. Il giovane Baccani, che alla vivacità dell’ingegno univa una prontezza di spirito tutta fiorentina, vedendo quell’atto del Granduca disse in un orecchio all’architetto Cacialli:

— Bisognerà mettere una lapide sul.... del Cinci![p. 395 modifica]



Lungarno fino al Ponte alla Carraia [p. 396 modifica]Il Cacialli non potè frenare il riso; ed il Granduca voltandosi domandò:

— Che cosa e’ è? —

L’architetto, trovandosi un po’ imbrogliato, cercò di levarsela rispondendo:

— Niente, Altezza! ridevo d’una cosa che mi ha detto qui il Baccani.

— Ditemela, ditemela....

— Ma....

— Voglio saperla!

— Il Cacialli gliel’ebbe a dire. E anche Ferdinando, mettendosi a ridere, disse:

— E giusta, è giusta, bisogna farlo davvero! —

Quanta bontà d’animo e quanto spirito in Ferdinando III! Se la lapide non fu più fatta per il Cinci, fu fatta per ricordare l’avvenimento della demolizione dell’arco di Santa Trinità; e l’incarico fu dato al «Padre Mauro Bernardini, professore d’eloquenza nelle Scuole pie.» Il Magistrato deliberò «di impetrare l’opportuno assenso di S.A.I. e R. per la collocazione della lapide al posto indicato;» e quindi «considerando che detto P. Mauro Bernardini meritava un premio per detta latina elegante iscrizione,» stanziò a favore del medesimo la somma di sei zecchini, ossia di sessantasette lire e venti delle nostre, «in contrassegno del gradimento incontrato dalla detta iscrizione.»

Con quest’opera si rese davvero più bella la passeggiata del Lungarno, che allora si limitava soltanto fino al Ponte alla Carraia, dov’è ora il terrazzino con la statua di Goldoni. Cotesto punto si chiamava i trapani, perchè sotto le finestre terrene del fianco dello stabile che oggi traverserebbe il Lungarno e che si univa al ponte, avendo la facciata in Borgognissanti, vi era scolpito un trapano.

Le case di Borgognissanti, dalla parte dell’Arno, fino alla piazza, avevano tutte il giardino dal quale si scendeva nel fiume. Una di queste era la Locanda d’Italia dove alloggiò la bellissima imperatrice Olga di Russia, eletta anima d’ [p. 397 modifica] artista, che rimase entusiasta di Firenze. Avendo essa sentito più volte parlare della famosa luminara di Pisa, ed espresso il desiderio di vederla, quando l’anno dipoi tornò a Firenze, per ordine del Granduca le fu fatto un simulacro di tale illuminazione dalla parte opposta dell’Arno fino alla Sardigna, con le biancherie venute da Pisa. Queste biancherie erano i prospetti di legno che si metteva sulla facciata delle case, a disegno architettonico e illuminate a bicchierini - si dicevan biancherie, perchè quei telai eran tinti di bianco. L’Imperatrice si trattenne nel giardino fino a notte inoltrata, tanto le piacque la festa, e non potè fare a meno di andare a Pitti la mattina dopo, a ringraziare la Corte dello spettacolo dato in suo onore.

In questa circostanza non mancò lo spirito salace dei fiorentini nel cantare il seguente sgarbato stornello:

Fior di gramigna:
Per onorare una regal carogna,
S’è fatta una gran festa alla Sardigna.

L’imperatrice Olga fu invitata a pranzo dai Sovrani; e per quanto fosse abituata alla opulenta ricchezza della Corte russa, pur non ostante rimase stupita nel vedere lo sfarzo dei vasellami medicei, opera di Benvenuto Cellini, e di altri insigni artefici, che nessuna Corte al mondo poteva mostrare.

Arrivato il momento della partenza da Firenze, Olga di Russia con le vetture di posta che la dovevan condurre per la via di Bologna, fece una passeggiata alle Cascine, perchè prima d’andar via volle rivederle, tanto le piacevano.

Dopo la demolizione dell’arco di Santa Trinità, che si chiamava volgarmente anche l'Arco de’ pizzicotti perchè essendo stretta la strada i libertini nella folla si approfittavano per fare i pizzicotti alle donne, l’opera pubblica che fece più scalpore fu l’allargamento della Piazza del Duomo dalla parte del campanile, con la costruzione dei tre corpi di [p. 398 modifica] fabbrica detti «le Case dei Canonici.» Anche questo è lavoro di Gaetano Baccani, che essendo oramai in voga, era stato eletto architetto dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Il primitivo progetto del Baccani era molto più grandioso di quei tre corpi di fabbrica approvati; poiché egli aveva

Via Buia con la porta del giardino Pazzi dove è ora il palazzo della Banca d’Italia.


immaginato un grandioso fabbricato solo, dalla Misericordia alla cantonata di Via del Proconsolo, lasciando l’ingresso a Via dello Studio e a piazza del Capitolo mediante una porta e un androne, che parevano far parte del fabbricato; e così dal Campanile di Giotto si vedeva direttamente, come del resto è adesso, lo sfondo di Via Buia, oggi Via dell’Orologio. Si deve pure al Baccani la cancellata attorno al Duomo, che venne fatta nel 1835, e che valse a togliere tanti abusi e tante sconcezze. Un’altra opera lodatissima fu la prosecuzione della Via Larga e l’apertura di quella fra Via San Gallo, difaccia alla chiesa di Bonifazio, ed il Maglio, decretata dal Comune [p. 399 modifica] l’oggetto di estendere il fabbricato della capitale ed a comodo della popolazione, che andava giornalmente aumentando. La perizia di questo lavoro si fece dal Direttore delle RR. Fabbriche nel 17 agosto 1827; ed il progetto definitivo fu approvato dal Magistrato civico nell’adunanza del 19 Novembre successivo.

Considerando poi il prelodato Magistrato che alle due nuove strade conveniva dare un nome, nel dì 30 marzo deliberò che quella in prosecuzione di Via Larga e che arrivava alle mura si denominasse Via Leopoldo e l’altra traversa Via Alarianna, «in onore e memoria dei regnanti.» Una settimana dopo pervenne al signor Gonfaloniere la partecipazione che S. A,I. e R. «si era degnata di gradire i sentimenti di devozione» della Magistratura civica, ma che per una specie di umiltà e di devozione aveva ordinato che le due nuove strade si chiamassero, l’una Via San Leopoldo e l’altra Via Sant'Anna!

Chi sa che Leopoldo II non prevedesse d’andare a finir sugli altari. Non ci corse nulla!