Firenze sotterranea/Capitolo III
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III
Vi ho data una pennellata del quartiere più originale, più sucido, meno conosciuto che abbia Firenze; men noto del Ghetto perchè più lontano dal centro e prossimo alla campagna, e del Ghetto assai più esteso. Gli stessi nomi di quelle viuzze riescono nuovi a’ Fiorentini più vecchi; pochi hanno udito parlare della Sacra, delle Mura di San Rocco, di Malborghetto, di via del Leone, del Campuccio.
Ecco le casipole dei ladri!
Son per lo più a un solo piano, o a due piani: la porta di strada è aperta, sganasciata, penzoloni su’ cardini; in alcune non vi è porta: qualche altro ladro l’ha rubata, o l’ha rubata lo stesso inquilino al suo padrone di casa!
Guardate di fuori le casipole: ci sono finestre senza vetri, telai rotti; gli affissi sono stati rubati: le mura son tutte buche, scortecciate, cadenti.
Entrate per corridoi così stretti, che allargando le braccia, i gomiti toccano le pareti: pareti viscose, così nere, che metton ribrezzo, e, benché nell’interno della casa, camminate su un pavimento dove il sudiciume è ammozzolato, e che sentite sotto il piede ineguale, dove alto e dove basso. In giorni di pioggia que’ foschi corridoi diventan pozzanghere. Il soffitto è appena all’altezza d’un uomo di statura ordinaria. Qua e là porticine misteriose; piccine, piccine, nascose in certi svolti, che fanno le pareti immonde: porticine, che si direbbero gingilli di casine da ragazzi. Una donna grassa, una di quelle vegete mercatine, che fioriscono a gloria della linea curva in certi centri della città, non potrebbe far passare da quegli uscetti le sue grazie abbondanti, nè troverebbe modo di passarvi un pingue omaccione. Ma de’molti ladri, ch’io ho veduti, tutti son fini, svelti, nervosi: d’una sveltezza e vivacità senza pari.
Le casipole son divise in quartieri di una o due stanze. Se guardate di fuori, que’ tugurii hanno aspetto di doversi sfasciare a ogni momento e cascar nella strada in mucchi di calcinacci; dentro, la sozzura, lo squallore, il tanfo sfidano ogni descrizione.
Il soffitto è composto di travicelli intarlati, tagliati alla rozza, e di mattoni mal commessi, le pareti ammuffiate, luride, stonacate, stillanti il lezzo. Per tutta masserizia un pagliericcio; o tre, quattro pagliericci posati su tavole verminose. Sopra que’ pagliericci che hanno per coperte panni rattoppati, abiti vecchi, frusti, stracciati, raccattati alle volte nelle corbe e ne’ cassini de’ cenciaioli, il ladro di mestiere, negl’intervalli in cui non è ospite delle prigioni, dorme così saporitamente, così alla grossa, come se giacesse sul più morbido letto: dorme con serenità, spesso sorridente, quasi che lo visitassero i sogni più rosei.
Il così detto sonno del giusto è un’invenzione da romantici: le notti insonni dei delinquenti sono fantasie di poeti: si potrebbe, con molta più verità, dire di chi ha il sonno duro: — dorme come un ladro! —
Immaginate una casa di quattro stanze. Vi si pigiano, vi dormono quattro famiglie: ogni famiglia sul medesimo letto, e una famiglia è composta di quattro, sei, sette persone. Dormono insieme; il ladro, allorché sa di non esser seguitato, tornato dalla prigione, dalla casa di forza, avvezza ai parlari e alle pratiche dei furfanti, la sorella, la figliuola, creature spesso innocenti. Vedete che strazio si fa di anime umane!
Poi ci meravigliamo se la marea monta: versiamo lacrimoni di coccodrilli sugli eccessi della corruzione: ci diamo sembiante di cristiani e siamo complici di molto male.
La Polizia entra nelle loro stanze pian piano, al tocco, alle due della mattina, spingendo le porte socchiuse; e non ne trova mai uno sveglio, russano, sbofonchiano, o dormono placidi, come se avesser compito nella giornata le più eroiche o generose azioni.
Sono sgombri da ogni pensiero: non possiedono nulla: non temono che la loro proprietà possa esser manomessa da altri!... Le famiglie di cinque o sei persone, non hanno neppure una sedia, alcune neppure una tavola. La terra è veramente la loro madre: mangiano seduti in terra, stanno per terra allorchè tengono conversazione, riunione di famiglia.
Di tavole non han bisogno, poichè manca loro la roba da posarvi: non han neppure un bicchiere; in cinque o sei bevono ad una bottiglia sbreccata, a un fiasco sbocconcellato, l’acqua che pigliano qua e là, non avendo arnese per attingerla ai pozzi.
E impossibile veder più spaventosa miseria: non si comprende come possano respirare, dormire, vivere nel puzzo orrendo di quei covili. Allorchè aprite uno di quegli uscetti, n’esce una zaffata, un soffio sì pestilenziale, che vi dà le vertigini, vi fa traballare e dare indietro.
E pur essi non sentono nulla: se ne stanno lì come tra i profumi del Rimmel!...
In una stessa casipola stanno cinque, sei, dieci ladri. Tutti sono uniti insieme da reciproca stima: ci è tra loro una gerarchia: vi sono quelli che hanno dispiegato maggior intelligenza, e hanno diritto a un maggior tributo di rispetto: le loro famiglie si visitano: i più provetti e famosi in circostanze solenni son consultati, nè rifiutano d’impartire utili lezioni.
Di tratto in tratto scompaiono venti, trenta, cinquanta; nessuno se ne meraviglia: sanno di esser tutti fluttuanti tra la prigione e i loro sordidi abituri.
Circa dugento sono ora a scontar la pena, o ad aspettar la sentenza: quando questi torneranno saranno spariti quasi tutti quelli che ora si trovano a casa, ed essi li surrogheranno nei loro domicilii, e in vari altri attributi!
È un continuo andare e venire: un flusso e riflusso: mare umano, che cambia sempre. Entriamo nel covàcciolo del notissimo ladro C...te. — Per miracolo non è in prigione, dove ha trascorso buona parte della vita. Può aver circa quarantacinque anni, e ha subìto cinquanta condanne.
È piuttosto un bell’uomo; bruno, tarchiato con occhi nerissimi, intelligenti. Ha chiuso la porta, avendo già avuto una prima visita dalla Polizia nella notte. Ci viene ad aprire in un costume del quale la capigliatura era la parte più importante. E subito si rintana nel suo covàcciolo, dove dormono la moglie e il figliuolo. Accanto, un altro giaciglio dove sono stesi, aggrovignati tre ladri: sei persone in una stanzucola non piùlarga e lunga di tre metri!
Un tempo ci era qui la bella L...: la figliuola del C...te: la più bella ragazza che avesse la Sacra. Il suo amore era un giovane ladro di nome D., giovane simpatico, di sembiante allegro, lesto come uno scoiattolo, condannato già quindici o venti volte.
Vestiti in nobile arnese, mandati a passeggiare in assetto signorile, chiunque avrebbe invidiato quella coppia!... Non basta esser giovani, prestanti, ed amare per passar la vita contenti. Se a tale scopo bastasse una capanna ed un cuore i due l’avevano, ed avevano qualche cosa di più!
Ma notate i costumi. Il ladro ha una bella figliola: piglia ad alloggiare nella medesima stanza il giovinotto che n’è imbertonito, e il romanzo si svolge... Avete in una medesima stanza padre, madre, fratello, sorella, bertone, e altri ospiti, compartiti in due giacigli.
Un giorno il padre è colto nella flagranza di un furto: è arrestato, condannato...
Il dramma della miseria, della colpa si fa più orribile. La bellissima ragazza della Sacra dispare.... Dov’è andata?... Corre voce tra i manigoldi e le schiappine sue amiche come ella sia stata veduta da un uomo di basso affare, recatosi per servigio in una casa, vestita di seta, o di velluto, con false perle intorno al collo, con stivaletti a fiocchi colorati, un sigaro in bocca: insieme ad altre figliuole di ladri e di tristi, che un tratto passano come meteore nella effimera regione del vizio, splendente di bagliori sì fugaci.
Quattro sono i poli, tra cui trascorre la vita dei miserabili, de’ reietti, che io studio; il Tugurio, la Prigione, la Prostituzione: e ultimo, e comune a quasi tutti, uomini e donne, l’Ospedale! Lì si ferma il fiume della corruzione, dopo aver tanto corso: a tutti si aprono i mari senza fondo, dell’eternità, e, bisogna pur credere, dell’infinita misericordia, del perdono infinito. I poveri frati, le sante eroiche donne che assistono quegli ammalati alle ultime ore, ci testificano come molti degli sciagurati, dopo tante vertigini e tanti errori, disgustati, disingannati di tutto, nella orfanezza di ogni affetto e di ogni virtù, paiono sul punto estremo ascoltare un coro di celestiale armonia, che ripete loro la parola del Cristo: «Si fa più festa nel cielo per un peccatore, il quale si converte, che per cento giusti, che vi tornino.»
E la divina parabola del Pastore, che lascia tutto il gregge per andar in cerca della pecora smarrita: le consolazioni di una religione, tutta compassione pei miseri, tutta pietà ai disgraziati, illuminano del loro raggio, riscaldano delle loro immortali speranze molte anime traviate, sul punto che escono dal mondo e si vedono da sè inalzare sul fango, che le ha contaminate.
Il ladro C...te è in prigione.... La figliuola va in un’altra prigione: la prigione forse più triste di tutte; prigione delle anime: dove la donna par che cessi di averne una, e diventi un numero, una macchina. L’uomo, figliuolo di Prometeo, l’uomo fatto a immagine di Dio, il proclamatore de’principii dell’89; il gran vociatore di eguaglianza, il sublime democratico, dice alle poverissime donne che nascono in condizioni sì tristi: mangerai il pane, soltanto a prezzo del tuo disonore. Vuoi vestire, nutrirti, vivere; e speri che noi ti soccorriamo? Avvilisciti, se non vuoi morire di fame! Ma a educare le figliuole degli scellerati, a preservare la loro innocenza dall’essere contaminata, a impedire le funeste agglomerazioni, per cui si propaga la malvagità, non abbiamo tempo, nè voglia di pensare!... Chi è nel pericolo, se ne cavi da sè: la società ha troppo da fare, per badare alle anime che si perdono!
Uscito di prigione, il C...te non trova più la figliuola, e si accomoda alla perdita; ma caccia l’espertissimo ladro, il giovinastro, che avea per amanza la ragazza. Par che tra i ladri non ci sieno patemi d’animo per melanconie d’amore!
Dopo aver visitato il C...te sono andato in un albergaccio: e, strano contrasto, nel visitare certe spelonche dovete passar accanto a edifici, che vi ricordano l’antico splendore, la prosperosa e onesta grandezza della Firenze di un tempo.
Entro nell’albergaccio.
Il giovane ladro D. dormiva sereno e tranquillo in mezzo a una ventina di bianti, i cui giacigli erano scompartiti fra tre stanze, che ricevono soltanto luce interna, e dove si ammorbava dal puzzo.
Ci volle del bello e del buono a svegliarlo; dormiva anch’egli il sonno del giusto!
Non crediate che i ladri si tengan per tanto colpevoli. Uno di essi mi diceva, col volto compunto a santimonia: — Io ho preso qualche cosa, ma cattive azioni non ne ho fatte a nessuno! —
Uno di quegli albergatori, che ricettan la notte nelle loro trappole da sorci, i pregiudicati, mi aveva detto un tempo: — Voglio ripulirmi: non voglio più che persone di garbo! —
Poco dopo:
— Sa.... — mi diceva — son tornato a ripigliare i ladri: tanto i galantuomini non ci venivano! —
Alla Sacra, a Malborghetto, al Campuccio, dove le catapecchie sono più a rifascio, pingendo con una mano le impannate ai pianterreni, si aprono e, tenendo un cerino acceso in mano, si vedono le famiglie accatastate, nude sui loro covàccioli.
In mezzo alle strade, non mai rilastricate, è perenne la pozzanghera, mancando lo scolo delle acque: e una è illuminata soltanto da brutte lanterne a petrolio.
Per curiosità, picchiamo ad alcune porticine.
— Il tale?
— Alle Murate! — risponde, dopo varii colpi, una rauca voce di donna.
Andiamo altrove: picchiamo di nuovo.
— Non c’è.
— Come non c’è?
— Non sa che è alle Murate?...
— Il vostro figliuolo?
— Sta bene per trenta mesi — mi rispose una di quelle arpie. Star bene: vuol dire: stare in prigione.
Quanto pagano di pigione?
Un soldo, due soldi la settimana... quando li pagano.