Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Filli di Sciro/Atto terzo

Atto terzo

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Filli di Sciro - Atto secondo Filli di Sciro - Atto quarto
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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Celia.

          Nerea, tu m’ancidesti.
          Scoccò da le tue labbra
          l’ultimo colpo la mia morte. Ahi lassa!
          i’ ardo, i’ ardo, io son tutta di fuoco.
          Oimè, né fia ristoro
          al mio mortale incendio?
          Amor, tu mi consiglia.
          Aminta, anima mia,
          Aminta, a te mi dono:
          ecco io son tua; tu lieto
          farai forse il mio amore e la mia vita.
          Oimè, che dico? io lieta,
          io viva senza Niso?
          O Niso, o vita mia,
          ecco a te mi ridono;
          tu sarai la mia vita.
          Ma s’io vivrò per Niso,
          morirò per Aminta. Eccomi in preda
          agli usati furori.
          O Celia, o miserella, anco vaneggi?
          che pensi? ove t’aggiri? In tale stato,
          priva d’ogni mio bene,
          certo non fia ch’io viva.
          Godrò d’un sol? Non mel consente amore.

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          O d’ambidue? Amor e ? ciel mei vieta.
          Dunque morir conviensi : altro rimedio
          non ha la morte mia che la mia morte.
          Ed io dovrٍ morire?
          nata appena, morire? Occhi dolenti,
          a voi poco fu dato
          di rimirar il sole. Ah che pur troppo
          io vissi e’1 rimirai! Stolta, che piango
          il fin de la mia vita?
          e che spero vivendo?
          Non altro, no, che pianto. E cosi dunque
          piango il fin del mio pianto? Or vegna, vegna
          la morte, e di sua mano
          gli occhi serrando, ella m’asciughi il pianto.
          Pur il mio pianto è nulla:
          altra maggior cagione
          è ch’a morir m’invita.
          Via più che ? mio tormento,
          l’altrui dolor mi duole.
          O Nerea, o Nerea,
          dunque de l’amor mio
          arde Niso? arde Aminta?
          muore per mia cagione Aminta e Niso?
          ed io, ch’ambo v’adoro,
          o sfortunati amanti,
          son io, son io ch’a forza
          incontro a voi per troppo amor crudele,
          son io ch’ambo v’ancido?
          Ah morrٍ, non temete,
          che del vostro dolor fia la mia morte
          o rimedio o vendetta. Oimè, la morte?
          Oh fera voce! Anima vile, addunque
          chi non teme duo amor, teme una morte?
          No, no, vana pietà, pietà spietata,
          tardo, vile timor, gelo mortale,
          per voi non fia più luogo in questo core.
          Cedete omai, cedete

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          a lo sdegno, al furor, a l’ira, al duolo.
          Or ecco ignudo il seno,
          ecco armata la mano.
          O man dappoca e vile,
          cosi dunque tremando
          vibransi i dardi? ahi lassa, io non ho forza
          che ? mio furor secondi? Or tenti il piede
          quel che la man non osa.
          O miei furori, o miei
          disperati dolori,
          voi, mia fidata scorta,
          su, su venite, andiamo
          per altro calle ad incontrar la morte;
          andiamo al precipizio: e’ non ci vuole
          molta forza a cadere.
          Ma se cespuglio o sterpo
          fesse ritegno a la mortai caduta?
          Cosi n’avvenne appunto
          ad Aminta di Silvia;
          e fora mia sciagura
          quel ch’a lui fu ventura. V^
          Che farٍ dunque? O dèi
          del cielo e de lo ’nferno,
          voi, voi che m’inspirate
          il desio de la morte,
          voi m’insegnate ancora
          come per me si muora!
          SCENA II
          Filino, Celia.
          Fil.Oh me infelice! oh cara
          tutta la gioia mia!
          oh perduto mio bene!
          Celia.Che voce dolorosa

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          quinci vieti risonando?
          Filino è questi.
          Fil.O Celia,
          piangi pur, Celia, piangi !
          Celia.E perché ciٍ?
          Fil.Deh piangi
          senz’aspettar ch’io dica
          la cagion del tuo pianto.
          Celia.Ed a che nuovo affanno,
          oimè, serbommi in si poc’ora il cielo?
          ma che puote esser mai che più mi dolga?
          Di’ pur tosto, o Filino;
          so ben che ? mio dolore
          non lasserà più luogo
          che per altra cagion possa dolermi.
          FiL.Sconsolato Filin, Celia’nfelice!
          La tua gioia, il mio bene,
          la vaghezza dei prati,
          il fior de le campagne,
          G amor de la tua greggia,
          il tuo capro gentile,
          (ahi me ne scoppia il core!)
          il miserello è morto.
          Celia.Oh felice garzَn, poiché si lievi
          son le miserie tue! Ma chi l’ancise?
          Fil.Pensa che non fu già pastor né fera,
          che seco a sua difesa
          sarei ben anch’io morto.
          Celia.E chi fu dunque?
          Fil.La malvagia pastura
          d’un’erba velenosa, oimè, l’ancise.
          Celia.D’un’erba velenosa? Or quindi certo
          la via de la mia morte il ciel m’addita.
          O dèi pietosi, adunque
          de l’alto mio dolor qualche pietade
          è pur salita in cielo?

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          Fil.Salito il capro in cielo?
          Oh come cozzerà col capricorno !
          Celia.(Ma non vorrei tal volta
          che Terror d’un fanciullo
          la mia morte schernisse.) E come sai
          che velenoso erbaggio
          abbia ucciso il mio capro?
          Fil.Dirolti. In sul meriggio, ardendo il sole,
          mossi la greggia inver quel prato ombroso
          poco quinci lontan, quello, non sai?
          che fra gli alberi e’1 rio si fresche ha l’erbe.
          Or quivi in arrivando
          (odimi, Celia), mentre
          al suon de la zampogna
          il belar de la greggia
          saluta il pasco ameno,
          il tuo bel capro (ahi cara la mia vita!)
          tutto lieto e giulivo,
          correndo e saltellando,
          in si dolci maniere
          con l’erbetta scherzava,
          che di me non ti dico,
          ma, affé, tutta la greggia,
          lasciando la pastura,
          stava intenta a mirarlo.
          Celia.Breve, breve, Filino! io non ho tempo:
          di’ tosto quel ch’io cheggio.
          Fil.Adagio, ascolta.
          Or in un batter d’occhio
          tutto sen gio scorrendo il praticello,
          e giunto in sul rigagno
          là più vicino al colle,
          quivi si diede a pascersi d’un’erba
          che mai non vidi altrove; e cosi ’ngordo
          ei se la già carpendo,
          che tutto io m’ingrassava

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          al saporito pascersi del capro.
          Quand’ecco di repente (oh fiero caso!)
          veggiol cader tremando.
          Credi che ’n un baleno io v’accorressi?
          Io ؛ miro, il chiamo, il pungo;
          _ ei mi rimira e geme,
          e fioco parea dir: — Filino, i’ muoro! —
          Cosi torbidi e scuri
          gli occhi, quegli occhi belli,
          vidi fuggir fin entro ؛ capo, e chiusi,
          lasso! morire il vidi.
          Celia.E pur non m’assicuro
          ch’egli non sia rimaso
          svenuto anzi che morto,
          e per altra cagion che di quel pasco.
          Filin, poco t’intendi
          o d’animali o d’erbe:
          tu se’ fanciullo ancor.
          Fil.Si, ma Narete,
          quella si folta e si canuta barba,
          parti fanciullo anch’egli,
          che poco d’erbe o d’animai s’intenda?
          Celia.Ma che dice Narete?
          Fil.Ei corse a le mie strida
          la dove sopra ؛ capro
          io mi stava piangendo,
          e poi ch’egli ebbe udita
          la cagion del mio pianto:
          — Oh mal’erba! (diss’ei); caccia, Filino,
          caccia la greggia altrove. — E quinci intanto,
          fattosi al capro, il trasse
          ver la sponda del rio.
          A me non diede il core
          di vederlo gittar ne l’acqua, e tosto
          piangendo a te men corsi.
          Celia.Merta fede Narete.

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          Certa dunque è del capro
          la morte, e la cagione.
          Andiam, Filino.
          Fil.E dove?
          Celia.A ritrovar quell’erba.
          Fil.E che vuoi farne?
          Celia.A te di ciٍ non caglia.
          Fil.Ah con qual occhio
          rivedrٍ mai quel prato?
          Celia.Avacciati, Filino;
          ove se’ tu rimaso?
          Fil.Veggio Nerea che viene;
          deh lascia ch’io l’aspetti; ella suoi darmi
          per ogni bacio un pomo.
          Celia.Nerea? Seguimi tosto;
          non voler ch’io m’adiri.
          Fil.Or ecco, i’ vegno. —
          Oh, va come saetta!
          SCENA III
          Niso, Nerea.
          Niso.Deh fosse meco Aminta!
          Udrebbe anch’ei G istoria
          de l’altrui ferità, de la mia morte.
          Ner.Già udilla, e pianse. In lui
          m’avvenni allor che Celia
          fece da me partita;
          e le preghiere mie, le sue ripulse
          tutte gli raccontai,
          onde là presso al fiume
          ei si rimase addolorato e mesto;
          per tua cagion, s’intende.
          Niso.Or segui pur: che replicasti allora?

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          Ner.Come dunque? (diss’io) Celia crudele,
          e non vorrai ch’un infelice amante
          possa teco parlando
          narrar almeno i suoi dolori?
          Niso.Ed ella?
          Ner.— Non sia pastor, diss’ella,
          o peregrino o paesan pastore,
          non sia pastor ch’ardisca
          Celia tentar d’amore.
          Ciascun mi fugga e taccia.
          E se ce n’ha ch’a mia cagion si dolga,
          dica a le piante i suoi dolori, e creda
          che men che Celia fien sorde le piante. —
          Niso.Oh fierissimo core!
          Ner.Ma ciٍ fu nulla: il viso
          parlٍ più che la lingua;
          ma ? linguaggio fu scuro,
          ned io per me lo ’ntesi.
          In quel punto io le vidi
          impallidir le gote,
          scolorarsi le labbra:
          lagrimar non la vidi,
          ma ben le vidi agli occhi
          senza lagrime il pianto.
          Indi poi, come sdegno
          prendesse di se stessa
          e di cotai sembianze,
          scosse il capo, e repente
          gli occhi raccesi, d’ira
          io la vidi avvampare, e minacciosa
          (non so già contra cui) stringere il dardo.
          Niso.Contra me certo: ed io,
          io stesso andronne addunque
          a portarle davanti il petto ignudo:
          io stesso di mia mano
          nuovamente aprirommi

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          questa piaga recente,
          per far più breve e larga
          la via del ferro al core.
          E poiché ad altro tempo
          questa crudel mi niega
          d’udir il mio dolore,
          udrà pur la mia morte.
          Potrٍ pur in quel punto
          che spingerà la bella mano il dardo,
          in quel punto felice,
          potrٍ pur dirle almeno,
          prima ch’i’ mora: — G moro! —
          Ner.Oh misero pastore! oimè, non denno
          lagrimar soli i tuo’ begli occhi; è forza,
          ch’ai tuo pianto anch’io pianga.
          Ma, Niso, figliuol mio (vo’ consolarlo),
          è vero, ed io noi niego,
          Celia par che si mostri
          fuor di modo spietata;
          ma chi sa che non finga?
          Per me noi giurerei.
          L’arte del finger viene
          per natura a le donne,
          perché dal nascimento
          se la recan dai padri; e perٍ sanno,
          ancorché ben fanciulle,
          sotto fiero sembiante
          portar in sen nascoso un core amante.
          E poi, qua! ch’ella sia,
          non puٍ cangiar consiglio?
          La donna è don del cielo,
          ed a par de la luna
          cangia volto e sembianza.
          Non ti fidar s’ell’ama,
          non diffidar s’ell’odia,
          ma dalle tempo almeno
          G. BoNARELLi, Filli di Sciro.

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          ch’ella possa cangiarsi.
          Vedi che ’n un baleno
          non arde e gela il cielo.
          L’altr’ier appena divenisti amante,
          appena hai sospirato; e’ non è tempo
          di disperar ancora.
          Breve sospir non puote
          per l’oceلn d’amor trar l’alme in porto.
          Se’ nel principio ancora, e già disperi
          perch’ai tuo fin non giungi?
          Niso.Io sono, ahi lasso!
          nel principio d’amore,
          ma nel fin de la vita,
          perché fiamma si grande,
          appena accesa, ha consumato il core.
          Ner.Or ti raffida e spera.
          Per te non vo’ che nessun’arte in somma,
          da risvegliar ove più dorme amore,
          intentata rimanga.
          Io vo’ ch’ad una ad una
          tutte andiam ricercando
          le machine d’amor. Dimmi, ti priego,
          hai tu de G amor tuo
          fatta costei per altri mezzi accorta?
          né le mandasti pure
          co’ guardi e co’ sospiri
          le primiere ambasciate?
          Niso.Si, ma che pro, quando i sospiri miei
          per l’aria sparsi gli disperde il vento,
          pria che giungan al seno a cui gl’invio;
          e i guardi, messaggieri infra gli amanti,
          divengon muti e non san più che dire,
          quando al mirar de l’un l’altro non mire?
          Ner.Len dicestu mai nulla,
          mentre colà ferito
          ognor l’avevi a fianco?

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          Niso.Ah cosi morte avesse
          rannodata la lingua,
          cui male allor per me disciolse Amore!
          Allor fu che, da me ratto fuggendo,
          mai più non la rividi.
          Ner.Né le destu giammai
          altro segno amoroso?
          qualche dono gentile?
          Niso.Dono? Guardimi il cielo.
          Tentar Celia co’ doni?
          trattar ninfa gentil da donna avara?
          io crederei co’ doni
          rendermi un cor ben nato
          nemico anzi ch’amante.
          Ner.Mal credi, se ? pur credi.
          Placan i doni il ciel, placan lo ’nferno,
          e pur non son le donne
          men avare che ? cielo,
          più crude che lo ’nferno.
          il don, credimi, il dono
          gran ministro è d’Amore, anzi tiranno:
          egli è, ch’a suo volere impetra e spetra.
          Non sai tu ciٍ ch’Elpino,
          il saggio Elpin dicea?
          che fin colà ne la primiera etade,
          quand’anco semplicetti
          non sapean favellare
          che d’un linguaggio sol la lingua e ? core,
          allor l’amate donne altra canzona
          non s’udivan cantar che dona, dona:
          quindi Venne addoppiando
          (perché non basta un don), donna fu detta:
          e se c’è chi tapino
          brama di gir limosinando amori,
          non dica già che sia
          da donna avara il desiare i doni,

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          perocché l’avarizia
          de l’uom (ve’quel ch’io dico),
          l’avarizia de l’uom, non de la donna,
          sforza la donna a desiare i doni.
          ?iso. Strane cose mi narri.
          Ner.Ma perٍ chiare. Ascolta:
          avaro è l’uom cotanto,
          che spende ne’ suo’ amori a mille a mille
          passi, sguardi, sospiri,
          voci, pianti, preghiere, e si v’aggiugne
          menzognette e pergiuri,
          anzi ch’egli s’induca
          a donar pure una ben magra agnella.
          Quinci de G amor suo più certa prova
          non ci essendo che ? dono,
          creder puٍ sol la donna
          al donator amante, ed a ragione
          G amor del donatore
          vince il rigor di lei, quando ha già vinta
          l’avarizia di lui, mostro maggiore.
          Niso.Deh, s’egli è ver che ? dono aggia possanza
          da vincer quell’indomita fierezza,
          questo core, quest’alma,
          tutto quant’ io mi sono,
          ecco di lei fo dono.
          Ner.Ah, ah! questo è quel dono
          che fan con larga man tutti gli amanti.
          Val troppo un core, un’alma.
          Non voglio, no, figliuolo,
          che tu prodigo omai spenda cotanto.
          Per te pur gli risparmia, e fa ? tuo dono
          men caro e più gradito.
          Niso.Io, povero straniero in questi campi,
          senz’orto, senza greggia,
          ond’avrٍ che donarle?
          Té, dalle questo dardo:

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          ei non è vile; mira
          il ferro e l’asta.
          Ner.È ? ferro -
          acuto e terso, l’asta
          è nerboruta e forte,
          quale appunto conviensi
          per incontrar le grosse fere al bosco.
          Ma per la man di Celia, a dirne il vero,
          troppo tenera e molle,
          parmi grave soverchio:
          il vibrerebbe appena.
          Niso.Saria buon questo corno?
          Ner.Oh, oh, de’ corni
          i’son maestra; e pur l’altr’ieri appunto
          a lei un ne donai,
          e forse, con tua pace, anco più bello.
          Niso.Or mi sovviene un don, che non fia mica
          di lei fors’anco indegno.
          Ner.E l’hai d’intorno al collo?
          Niso.Mira com’egli è bello!
          Ner.Che è questo che luce?
          Trannel fuori, ch’io ? veggia.
          Niso.Aspetta, or il disciolgo.
          Ner.(Ha pur la bianca gola!)
          Niso.(O del mio primo amore,
          del mio perduto bene
          disperata memoria,
          altra miglior fortuna,
          or va’, ti doni il cielo!) Eccol, Nerea.
          Ner.Deh chi vide giammai cosa più bella?
          E’ sembra tutto d’oro.
          Niso.E tutto è d’oro.
          Ma vanne, e vedi tu se puoi con esso
          ricomprarmi la vita.
          Non indugiar: che pensi?
          Ner.Niso, per dir il vero,

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          •JO FILLI DI SCIRO
          partí da me colei ;
          si turbata e sdegnosa,
          che più non credo omai ch’ella m’ascolti,
          o che parlando io ’mpetri.
          Per altra man conviene
          che se le porga il dono.
          Niso.Se m’abbandoni tu, Nerea, son morto.
          Ner.Taci, che ? ciel n’aita.
          Mira colà da lungi
          quella ninfa che vien: se non m’abbaglia
          lo sfavillar di quella sparsa chioma,
          è Clori. Anzi più tosto
          perché m’abbaglia, quinci
          la riconosco. È dessa:
          altra non è che spieghi
          chioma si bionda al sole.
          Ella è Clori, ella è ? core
          di Celia appunto: è Clori,
          di cui Celia non vede
          più fida amica in Sciro. Oh te felice,
          se costei porta il dono!
          Niso.Ma io non la conosco.
          Tu per me parla e priega.
          SCENA IV
          Clori, Niso, Nerea.
          Clori.(Ei non appare, ed io
          convien che quinci intorno
          il vecchio padre aspetti.)
          Niso.Che tardi omai?
          Ner.Deh taci!
          Clori.(Ma che farٍ qui sola intanto? Ah lassa!
          sospirerٍ. Amore,

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          ATTO TERZO
          torniamo al giuoco usato,
          e con l’aura amorosa
          gareggiam sospirando.)
          Niso.Or va’: che temi?
          Ner.Costei fa de la saggia: a mille prove
          la conobbi, i’ ricordo.
          Clori.(Ma dove, ahi lassa, dove,
          o perduti sospiri,
          dove n’andrete voi per l’aria erranti,
          se non sapete ove trovar quel core,
          a cui vi manda Amor di rea novella
          smarriti messaggieri ?)
          Niso.Deh vanne, vanne, e tenta,
          che, quando e’ fosse ancora
          disperato rimedio,
          ad ogni modo i’ moro.
          Clori.(Ah non fia mai quel di che ? mio bel sole
          sol una volta ancora
          riveggia, anzi ch’i’mora?
          Un guardo solo i’ cheggio:
          morirٍ poscia, e lieta
          pagherٍ, se fia d’uopo,
          con la morte uno sguardo; ei ben il vale.)
          Niso.Deh...
          Ner.Taci; i’ vado.
          Clori.Oh cielo!
          Ner.Pietoso adempia il cielo...
          Clori.(Oimè!)
          Ner.Il tuo desio, Clori gentile.
          Clori.La tua voce improvisa
          quasi mi fé’ paura.
          Ner.Ma tu pietosa ancora
          l’altrui desire adempí.
          Chi vuoi pietà dal cielo, usi pietade.
          Clori.(Che debb’io dir? M’ha’ntesa.)
          Per me, vedi, Nerea,

[p. 72 modifica]

          ?? FILLI DI SCIRO
          soletta or qui d’intorno
          già sospirando il di ch’io rivedrei
          colà nel patrio cielo il sol di Smirna.
          Ma tu da me che brami?
          Ner.La vita d’un pastore.
          Clori.Addio, men vado;
          sai ben ch’io non ascolto
          chi mi parla d’amore...
          Ner.O dispettosa,
          odi me, non fuggir; G amor ch’io dico,
          amor certo e’ non fia ch’a te dispiaccia,
          no, non, affé, tei giuro
          per questa bella e cara man ch’io stringo.
          Clori.Che è cotesto? (Oimè!) Dammel, ti prego.
          Ner.(Halmi tratto di mano.) Or ve’s’è bello!
          Ma tempo avrai da vagheggiarlo. Intanto
          odi quel ch’io vo’dirne.
          Clori.(Il mio non è: l’ho pur al collo, il sento.
          Forz’è ch’e’sia di Tirsi. O dèi, che veggio!)
          Ner.Lieto, o Niso, rinfranca
          tuo perduto coraggio: a costei piace
          fuor di modo il tuo don: farà che piaccia
          a Celia ancor, s’ella gliel porta. Vedi
          come intenta il rimira.
          Niso.Segui, Nerea, deh segui,
          che sol per te rinverde,
          se fior ho di speranza.
          Clori.(Ma se, morto il mio Tirsi, in man d’altrui
          fusse caduto il cerchio?)
          Or chi ti die, Nerea, cerchio si bello?
          Ner.Gentil pastor mei die.
          Clori.Pastor di Sciro?
          Ner.D’altre contrade.
          Clori.Ed a che fin tei diede?
          Ner.Per segno del su’ amor, de la sua fede.
          Clori.D’amor ch’egli a te porti?

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          ATTO TERZO
          Ner.A me, se tal pur sembro
          ch’altri debba coi doni
          comprar de l’amor mio. Ah ch’io son vecchia,
          né trovo più da vender le mie merci !
          Chi ha dovizia d’anni,
          compra, non vende amori.
          Ma tu ? sai, e t’infingi:
          d’altro viso è ? suo amore
          (misero lui!): amore
          di perduta speranza:
          se non che ’n quest’un cerchio
          (mira in che breve spazio) ora per lui
          la fortuna, rotando,
          la sua vita racchiude,
          le sue speranze aggira.
          Clori.Trammi di pena omai:
          com’ha nome il pastore? ove si trova?
          Fa’ch’io ? veggia e gli parli.
          Ner.Altro appunto e’non brama. —Avanti, Niso! —
          Ecco ? pastor ch’io dico; il riconosci?
          Un de’ due che staman, se tu pur fosti
          a la pompa del vَto,
          vedesti gir trionfatore al tempio.
          Niso.O bellissima ninfa, io son colui
          che trionfٍ stamane,
          e che morrà stasera,
          se non m’aita Amore.
          Clori.(Altro nome, altra voce, altra sembianza.
          Ma che non cangia il tempo e la fortuna?
          Parmi che ? raffiguri,
          via più che gli occhi, il cor; ma temo forse
          non il desio m’inganni.)
          Dimmi, pastor gentile, è tuo quel cerchio?
          Niso.Egli è mio, se non quanto
          anch’io son pur d’altrui.
          Clori.Quando e come l’avesti, e chi tei diede?

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          S’io ti sembro importuna,
          perdonami, pastor: la cosa il merta.
          Raro o non mai sen vede in questi campi.
          Niso.Deh non voler ch’io narri
          lunghe fortune or, quando
          poco tempo ho di vita.
          L’ebbi, ch’era fanciullo
          anzi tempo felice:
          l’ebbi da man che regge
          altro ch’armento o gregge:
          l’ebbi, né fia ch’io ? nieghi,
          l’ebbi a pegno d’amor, d’amor ch’altrove
          perduto, in questi campi (oimè, che spero!)
          a la mia pena antica
          va cercando ? ristoro.
          Clori.(È Tirsi, è desso.
          È Tirsi, e fin ad ora in questi campi,
          per mia cagion dolente,
          va di me ricercando.
          Oh fido core, oh me via più ch’ogni altra
          avventurata amante!
          Ecco ? di sospirato,
          ecco il ben ch’io piangea!
          Pianti, sospiri, addio!
          son forniti i dolori.)
          Niso.Deh non vedi costei, ch’ad ogni punto
          si volge in altra parte,
          seco stessa ragiona,
          e par tutta confusa, io non so donde?
          Clori.(Non mi conosce ancor, non s’assicura.
          Con Nerea sen consiglia.)
          ? er. Fors’anco adombra, e teme
          ch’a lei si doni il cerchio.
          Non vedesti giammai
          più guardinga fanciulla.
          Clori.(Com’esser puٍ ch’Amore
          segreto almen non gliel ridica al core?)

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          ? er. O fors’anco invaghita
          de la beltà de l’oro, \
          chi sa? per sé ? vorrebbe.
          L’oro puٍ ben ancor a le più schive,
          isfavillando agli occhi,
          abbarbagliare il core.
          Niso.Ma, che sia, conviene
          di chiarirla.
          Clori.(Ed io, stolta, a che ritardo
          La mia gioia? Pur troppo
          fu lungo ? mio tormento.)
          Ner.Or ora, attendi,
          io la vo’trar d’impaccio.
          Clori.(Or me gli scopro;
          ora vado a bearmi.)
          Ner.Clori !
          Clori.Nerea, non mi turbar; altrove
          mi tragge il core.
          Ner.Aspetta!
          Oh tu se’ rincrescevole! Che temi?
          forse che ’n questo cerchio
          qualche laccio amoroso
          incontr’a te s’ordisca?
          Or odi, e t’assicura:
          questo pastor gentile
          per Celia, e non per te, per Celia, dico,
          e non per te, m’intendi?
          arde, sospira e muore.
          A Celia, a cui die ? cor, a lei va ? dono.
          Ma tu gliel porta almeno.
          Questo è pur poco; ed altro
          da te non si richiede.
          Portagliel tu; farà poi ? resto Amore.
          Clori.Tirsi, Tirsi per Celia...
          Ner.Niso, non Tirsi.
          Clori.Ahi lassa,
          arde, sospira e muore!

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          ?ك FILLI DI SCIRO
          A Celia il cerchio, ed io
          del sacrilego don la portatrice!
          Niso.(Clori si turba: certo
          non ne vorrà far nulla.) .
          Ner.Deh, se per te spieiata,
          sii almen d’altrui pietosa:
          sol una paroletta a pro d’altrui
          non turba, no, non turba
          la maestà del tuo rigor.
          Niso.(D’Aminta
          Odo la voce, e lui non veggio, Aminta.)
          Clori.(Oh perfido amatore! oh fé tradita!
          oh spergiurato cielo! oh me infelice!)
          Ner.Oimè, per qual cagione
          cosi turbata e fiera? e dove, Clori,
          fuggí si ratto? Almeno
          rendimi il cerchio. Ascolta!
          SCENA V
          Niso, Aminta, Celia.
          Niso.A tempo, a tempo arrivi: il ciel ti mena:
          trattasi qui de la mia vita, Aminta.
          Ecco... Ma dove, oimè, sono sparite?
          — Nerea, Clori, Nerea!—
          Deh, si m’hanno schernito?
          Seguiamle, Aminta.
          Amin.E da qual parte?
          Niso.Mira.
          Or che so io? tu colà ver la selva,
          io qui d’intorno al monte.
          Celia.(Oh soave bevanda,
          soave a queste fauci
          che avean sete di morte!)

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          Amin.Per lo sentier non vanno:
          ma s’elle entrar fra ? bosco, i’ guato indarno.
          Celia.(Son pur qui tutta sola
          in man de la mia morte: or che non moro?)
          Niso.Né quindi orma n’appare. Ecci altra strada?
          Celia.(Oimè, che veggio!)
          Niso.Aminta,
          ecco ? mio sole.
          Amin.Eh taci,
          che se di noi s’avvede, ella è sparita,
          e ti parrà ? suo lume
          anzi balen che sole.
          Niso.Già n’ha veduti, e par che disdegnosa
          ad or ad or ci miri.
          Ma non vedi com’ella
          sembra tutta dolente?
          G veggio in quel bel volto
          le rose e i gigli impalliditi e smorti.
          Celia.(Ei non vanno, i’ non parto:
          né vien per me la morte.)
          Amin.Fra sé ragiona, e forse
          per noi seco s’adira.
          Niso.Ma si vede perٍ fra quei dolori
          una beltà ridente,
          fra quelle languidezze
          una beltà fiorita.
          Oh bellezza divina!
          han l’altre belle il bel da be’ colori
          dei più leggiadri fiori ;
          ma costei no, perch’ella
          sol perch’è lei è bella.
          Celia.(Occhi infelici, or ecco
          quanto ha di bello il mondo:
          ma non per voi. Qual dunque altra vaghezza,
          che di morir, v’alletta?)
          Niso.Ahi lasso, i’ tutto a si bel foco avvampo;

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          e tu’l rimiri, e taci?
          il rimiri, e non ardi? Ah ch’io non posso
          frenar più l’ardor mio!
          Amin.Ferma, a che movi?
          Niso.È forza;
          vo’ parlar a costei,
          vo’dirle almen ch’io moro.
          Amin.Parlarle? e non paventi
          10 sdegno di quel cor? non ti rimembra
          il divieto crudele?
          non tei disse Nerea? Or, se tu l’ami,
          ah non l’inacerbire!
          Celia.(Ma da si dolce vista,
          oimè, nuovo veleno
          vo con gli occhi suggendo, ed egli forse
          la mia morte ritarda.)
          Niso.E si morrٍ tacendo?
          morrٍ senza trar fiato? Ah non fia vero!
          Udranno, udranno almeno
          il mio dolor le piante,
          che men di Celia fien sorde le piante,
          le piante a cui non niega
          questa crudel ch’io parli.
          Celia.(Morte, che fai? non osi
          di chiuder queste luci,
          ch’or tiene aperte Amore?
          Ma pur convien ch’i’ mora,
          e se tardano gli occhi, il cor s’affretta.)
          Pastori, o voi ven gite, o in altra parte
          ecco forz’è ch’i’fugga.
          Niso.Ahi fierissima!
          Amin.Taci,
          taci, Niso. Non vedi,
          che già col piede in aria
          la sua fuga minaccia?
          Lasciamla in pace; e noi

[p. 79 modifica]

          andiam, che per le selve
          non mancan de le piante, ove potrai,
          non men che qui d’intorno a questi faggi,
          sparger querele in vano.
          Niso.Andiamo. Ahi cruda!
          Amin.Ahi lasso!
          SCENA VI
          Celia.
          Alme de l’alma mia,
          ven gite, ed è ragione
          che, s’io debbo morir, l’alma sen vada.
          Or i’ morrٍ: ma voi,
          amorose pupille,
          .care degli occhi miei luci serene,
          deh s’avvien mai ch’errando
          veggiate a terra estinte
          queste membra infelici,
          d’una lagrima sola o d’un sospiro
          pietà da voi non cheggio, anzi sol cheggio
          che ? vostro pie superbo
          per vendetta del core
          getti l’ossa a le fere,
          sparga il cenere al vento;
          ma col cenere il vento
          disperda la memoria
          del mio mortal error. Morte felice, N
          se con la vita anco Terror s’estingue Lj.
          Ma pur io vivo ancor. Di poca erbetta
          per me forse la morte
          non si contenta. Or ecco,
          n’ho perciٍ pieno il grembo;
          rinoverٍ ? velen. Ma non fia d’uopo;

[p. 80 modifica]

          già mi sento morir. Aminta, Niso,
          Amor, tradito Amore, o fé tradita,
          or vieni, mira e godi:
          ecco la tua vendetta, ecco la pena
          de Terror mio, ecco
          il fin de la mia pena.
          Pianta gentil, deh reggi
          questa cadente spoglia; e poich’a l’ombra
          de’ tuo’ bei rami i’ moro,
          oimè, con le tue frondi,
          con quell’aride almen che scuote il vento,
          queste insepolte membra
          deh per pietà ricopri !
          Ma tu mi fuggí ; fugge
          la terra, il ciel s’asconde. Ahi lassa, ed io
          senza ciel, senza terra, ove rimango?
          Or ecco, ecco lo ’nferno.
          O furie de l’abisso, e che mirate?
          o Cerbero, che ringhi?
          Su, date luogo, i’ vegno
          a tormentar fra voi: anzi cedete
          a me le vostre pene.
          Itene voi, ch’io sola
          farٍ qua giù lo ’nferno. Ahi lassa, ahi lassa!