Faust/Parte seconda/Atto primo/Salone splendidamente illuminato
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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SALONE SPLENDIDAMENTE ILLUMINATO.
L’IMPERATORE e i principali CORTIGIANI mesti e turbati.
Il Ciambellano, a Mefistofele. Voi avete a darei un’altra fantasmagoria. Presto! mano all’opera! L’Imperatore è impaziente.
Il Maresciallo. Il grazioso nostro sovrano ciò domandava testè: e col differire più a lungo mostreresti d’aver poco rispetto alla Maestà Sua.
Mefistofele. Il mio camerata parli appunto per questo: e già che sia da fare gli è noto. A ben riuscire ha mestieri di tenersi appartato e in silenzio; ed ora più che mai forse conviene ch’e’ si scervelli, mentre chi muove in cerca di oro e di bellezza ha da mettere a contributo la maggiore in fra le arti, la magia de’ saggi.
Il Maresciallo. D’artificii che vi occorra adoperare, non ci cale punto nè poco: alle corte, vuole l’Imperatore che ogni cosa sia tantosto apparecchiata.
Una Bionda, a Mefistofele. Una parola, o signore. Io ho, come vedete, chiara e non poco la cera: al sopravvenire però dell’està noiosa, la ci vuol tutta perchè tale si mantenga! A que’ di cento malaugurate chiazze deturpano la candida mia pelle, lo che mi dà un crepacuore indicibile. In qual modo potre’ io rimediarvi?
Mefistofele. Gran peccato, per fermo! un visetto sì avvenente e gentile macchiato in maggio come il pelo della pantera! Pigliate, gioia mia, fregolo di ranocchia, e lingue di rospi, distillate ogni cosa con somma cura nel plenilunio; e come fia sul mancare, applicatevi debitamente il collirio: venga poi a sua posta la primavera, chè le chiazze non usciranno mai più.
Una Brunetta. La pressa da ogni lato vi assedia; permettete ch’io pure mi faccia a consultarvi. Questo piede intirizzito non mi lascia nė correre, nè tampoco danzare con garbo; e gli inchini, se n’ho da fare, mi riescono bilenchi e sguaiati.
Mefistofele. Consentite ch’io prema un pocolino col piede il vostro offeso e malato.
La Brunetta. Fate pure; gli è ben così che usano fra loro gl’innamorati.
Mefistofele. La pressione del mio piede ha, mia carina, ben altre virtù: similia similibus, questo è il farmaco per ogni male. Quindi è che il piede risana il piede, e lo stesso dite delle altre membra. Ora accostatevi, e attenzione! Del premere ch’io fo non mi darete lo scambio.
La Brunetta, meltendo orribili grida. Ahi! ahi! che bruciore! Qual enorme pressione! Ti par l’unghia ferrata di un cavallo.
Mefistofele. E sia pure, ma voi intanto siete guarita; e potrete quind’innanzi far capriole quante vi piacerà, e scherzare col piè sotto al desco col vagheggino.
Una Signora, facendosi strada nella folla. Lasciate, in grazia, ch’io possa giungere fino a lui; omai più non reggo all’oppressura che mi strugge: in fondo al cuore ho un sobbollimento d’inferno; ieri ancora in una mia occhiata ei cercava la beatitudine della sua vita, ed eccolo oggi farsela con lei, e a me volgere duramente le spalle!
Mefistofele. Ahi lassa! la è cosa invero grave di troppo: però m’odi. Fa di avvicinartegli in punta di piede, e col carbone ch’io ti darò, traccia una linea sulla manica, sul tabarro, sugli omeri, giù come vien viene, e l’infido sentirà che e quanto il desideri, e proverà dentro al cuore il pungolo del rimorso. Dovrai tu allora senza por tempo in mezzo il carbone inghiottire, senza bagnar le labbra con pur sola una goccia d’acqua o di vino. Attienti al mio consiglio, e tel sentirai fin da stasera sospirare e gemere presso alla soglia.
La Signora. Non sarebbe questo per avventura un veleno?
Mefistofele, sdegnato. Un po’ più di rispetto, o signora! Avresti a correre lunga pezza, prima che ti venisse trovato un carbone cosiffatto. Vien esso da una carbonaia cui a grande studio accendemmo noi fa gran tempo.
Un Paggio. Io amo perdutamente, messere, e altri mi tien per fanciullo, e mi schernisce e deride.
Mefistofele a parte. Non so oggimai a chi dar retta. (Al Paggio.) Lascia d’impicciarti colle più giovani, e le matrone ti faranno viso migliore. (Molti altri si stringono dattorno a lui). Cazzica! Sempre nuovi importuni! la faccenda è ben dura! Abbiasi dunque ricorso al vero; se il ripiego è disperato, il danno soperchia. Oh Madri! oh Madri! lasciatemi Fausto in libertà. (Osservandosi d’attorno.)
Già per entro al salone impallidiscono le faci, e tolta quanta la corte sotterranea si muove ad un tempo. Veggio sfilare in gran sussiego la comitiva, lungo gli androni, e su per le lontane gallerie. Eccoli raunarsi nel vasto spazio dell’antica sala dei Cavalieri, che li capisce a mala pena. Le alte pareti son coverte di arazzi, le nicchie e i quattro angoli di lucenti armi risplendono. Potrebbesi, io mi penso, far a meno qui di scongiuri magici; chè gli Spiriti vi traggono senz’altro di per sè.