Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/280

272 fausto.

La Dama. Quella non è che una positura; egli fa stima di essere solo.

Il Ciamberlano. Che monta? Eziandio il teatro ha da uniformarsi qui agli usi delle buone creanze.

La Dama. Un dolce sopore invade le membra della amabilissima fra le creature.

Il Ciamberlano. Benissimo! Stiamo a vedere ch’e’ porrassi or ora a russare! Oh! la è naturale! a meraviglia!

Una giovane Dama rapita in estasi. Quale soavissima fragranza di rose a un tempo e d’incenso, scende a bearmi fin dentro nell’anima?

Una Dama più attempata. Ma certo, la è così! Un’aura imbalsamata penetra ne’ cuori; e quest’aura viene da lui.

Una Vecchia. Gli è il fior di crescenza e quello d’ambrosia che sbocciano nel giovin petto di lui, e spandono i grati olezzi per tutta l’atmosfera ond’è circondato. (Elena comparisce.)

Mefistofele. Elena dunque è costei? Alla fė! Standole da presso, sento che nulla avrei da temere pel mio riposo! La è bellina, ma non mi sorprende affatto.

L’Astrologo. Ed io, questa fiata, non so più che mi faccia, e da uomo leale mi do per vinto e confesso. La Dea s’avanza, e dov’anco avess’io cento lingue di fuoco.... In ogni età fu decantata ognor la bellezza: chi n’ha il possedimento, sentesi rapire fuor di sè; chi ebbe la ventura di appartenerle, fu oltre ogni umano concetto felice e beato.

Fausto. Stelle del cielo! che veggo io mai? Non ella questà la sorgente della perfetta beltà che si