Esercitazione I

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Le cose più notabili II
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DELLE


ESERCITAZIONI FILOSOFICHE


DI


ANTONIO ROCCO,


FILOSOFO PERIPATETICO,


LE QUALI VERSANO IN CONSIDERARE LE POSIZIONI ED OBIEZZIONI


CHE SI CONTENGONO


NEL DIALOGO DEL SIG. GALILEO GALILEI LINCEO CONTRO LA DOTTRINA D’ARISTOTILE.




Della perfezione del mondo.

Esercitazione Prima.


Aristotile, doppo aver ne gli otto libri della sua Fisica trattato di principii cagioni ed affetti communi delle cose naturali, intende ne i quattro del Cielo venire a trattar delle parti principali dell’universo, cioè del cielo e de gli elementi: di quello (per quanto è concesso all’intelletto umano), pienamente; di questi, solo in quanto sono parti del mondo ed appartengono all’ordine ed integrità di esso, riserbandosi di ragionarne esattamente ne i libri della Generazione e Corruzzione. Prima dunque di ogni altra cosa, nel primo testo del primo libro assegna la ragione perchè convenga al filosofo naturale trattar di questa materia, ed è quasi proemio dell’opra; indi, discendendo alla narrazione, vuol dimostrare che l'universo sia perfetto: il che con ragione antepone a tant’altre cose di quali ragionerà in tutti quattro i libri predetti, perchè è regola di ben ordinata scienza che i principii debbano prendersi da gli oggetti più universali e più noti, ed essendo fra tutti notissima la mole nelle sostanze corporee, e parimente universale, molto da essa meritamente comincia (come ho detto) il Filosofo te sua dottrina celeste.

Ma prima che veniamo più oltre, per procedere distintamente e con ordine, deve avertirsi che nelle cose naturali corporee si ponno considerare due sorti di perfezzione: l’una si dirà di natura; l’altra, di mole o d’integrità: [p. 582 modifica]la prima consiste nell’eccellenza delle cagioni, de i principii, delle parti che chiamano essenziali, delle proprietà, effetti, accidenti e simili; l’altra, nell'aver quantità convenevole, che non ve ne manchi parte alcuna. Come nel primo modo si direbbe perfetto un uomo che avesse l’intelletto distinto, gli organi, le potenze, i sensi, ben disposti all’operazioni, e l’opre istesse aggiustate e degne di persona ragionevole, nel secondo modo egli sarebbe perfetto mentre fusse di compita statura, non gli mancasse alcun membro, non fusse nano, etc.; e secondo questa considerazione, niuna parte può chiamarsi assolutamente perfetta, essendo ordinata al suo tutto e, per conseguente, potenziale e manchevole, se bene, come parte, può aver la perfezzione dovutale. Or, mentre Aristotile in questo capo precitato vuol provar la perfezzione dell’universo, intende parlare solamente della sua integrità o mole, cioè che non sia parte, nè che gli manchi parte alcuna, ma sia tutto pienamente: dell’altra perfezzione tratterà in tutti quattro i libri del Cielo, ne ha trattato nell’ottavo della sua Fisica, ne i libri delle Meteore, della Generazione, e della Metafisica ancora, già che quanto in questi si tratta e quanto del cielo si discorre o gli si attribuisce, tutto appartiene a conoscer la perfezzione della sua natura. Deve parimente avertirsi, che per il nome del cielo non sempre s’intende quella sostanza superna ove si veggono il Sole, la Luna e le stelle e che per eccellenza vien communemente chiamato cielo, ma si prende spesso per il mondo tutto; anzi in questo secondo significato Aristotile lo intende, mentre vuol provare che sia perfetto. È dunque il breve e chiaro senso di questa sua questione, se il mondo sia perfetto di mole.

Per venir dunque a dimostrar questo assunto, premette alcune necessarie definizioni, cioè del continuo, del corpo, della linea e della superficie. Da quella del corpo conchiude che esso corpo sia perfetto, avendo tre dimensioni, longhezza (dico), larghezza e profondità, alle quali non si può aggiungere altra magnitudine, non se ne ritrovando più; talchè l’esser perfetto ed omne (a questo proposito in questo soggetto del corpo) è l’istessa cosa, dicendosi perfetto quello a chi niuna cosa manca, e per consequente le contiene tutte ed è tutto: di modo tale che questi tre termini, omne, totum, perfectum, non hanno varietà di essenza, ma la ricevono solamente nell’applicazione a materie diverse, conciosiachè l’omne si adatta alle quantità discrete, il totum alle continue, ed il perfectum alle forme essenziali ed accidentali ancora; ogn’uno però di essi termini dinota pienezza di perfezzione. Aggiunge a questa dimostrazione una posizione di Pittagorici per confermarla: cioè che le cose abbino la lor perfezzione nel principio, mezo e fine, che si racchiudono nel numero ternario; e che questo numero sia, per natural instinto, eletto come cosa perfetta al sacrificio delli Dei (a’ quali con vittime, orazioni ed incensi gli antichi sacrificavano), e per certe esposizioni locuzioni greche questo per eccellenza sia il numero che prima de gli altri meriti il titolo di perfetto, già che al binario si dice ambo, non già omne, come si fa al ternario. [p. 583 modifica]Per tutte queste cagioni dunque intende aver provato Aristotile che il corpo sia perfetto, contra la qual determinazione primieramente argomenta il Sig. Galileo. Consideraremo per tanto le sue obiezzioni, e vedremo di quanto momento siano: e per più familiar discorso volgerò il parlare con termini riverenti all’istesso Sig. Galileo.

Credete dunque, avanti ogni altra cosa, che Aristotile con la predetta dottrina abbia voluto provare la perfezzione ed integrità del mondo? Ecco le parole vostre formali, a car. 2 [pag. 33, lin. 23 e seg.]: «È il primo passo del progresso peripatetico quello dove Aristotile prova l’integrità e perfezzione del mondo, coll’ additar come ei non è una semplice linea nè una superficie pura, ma un corpo adornato di lunghezza, di larghezza e di profondità etc.». E pure (rispondo io) è manifesto, per la lettera di esso Aristotile (la quale io non ho voluto rescrivere ad unguem per fuggir il tedio; e sanno i dotti che non mento in queste citazioni), che quivi non intende egli provar sin ora in modo alcuno che il mondo sia perfetto, ma sì bene il corpo, che è il suo genere, e da questo metodicamente discendere alla propria perfezzione di esso mondo: come che se alcuno provasse, l’animale esser perfetto, perchè è sostanza animata, non perciò avrebbe provata la perfezzione speciale dell’uomo; anzi, persistendo in questi universali, potrebbe paralogizando conchiudere che l’uomo ed il cane fossero egualmente perfetti, in questa maniera: La perfezzione dell’animale consiste nell’esser sostanza animata sensitiva; il cane e l’uomo sono ugualmente sostanza animata sensitiva; dunque sono egualmente perfetti. Così appunto, se questa fusse la propria perfezzione dell’universo, esso sarebbe egualmente perfetto con un legno, un sasso e simili cose corporee vilissime, avendo ciascuna di esse queste tre assignate dimensioni: è dunque perfezzione questa del genere, la quale è parziale e mancante in comparazione delle sue specie, come vedete nell'essempio sudetto. E mi maraviglio che, essendo voi così rigido censore della dottrina peripatetica ed avendo giudicato questa esser la dimostrazione della perfezzione del mondo, non gli abbiate fatta una istanza così potente ed insolubile, lasciando l’altre di minor vigore, o aggiungendola a quelle, o quelle a questa. Nè mi potrete dire, non esser vero che Aristotile intenda con la predetta dimostrazzione mostrar la perfezzione del corpo, e non quella propria del mondo, ma che sia una esposizione o difesa, perchè nel testo quarto del medesimo capo tutta la dottrina presente si trova, già che, doppo aver mostrato nel modo sudetto che il corpo sia perfetto, aggiunge, questa perfezzione non esser propria dell’universo, ma di ciascun corpo che ha forma o condizion di parte, ma che la propria perfezzione di esso (includendo però la predetta, come la specie include il genere) consiste nel contener tutte le cose, nel non esser terminato da altro corpo, come con tutti gli altri che da esso sono contenuti, onde è detto universo, quasi nella sua unità versi o si racchiudi il tutto. Come poi non sia da niun altro terminato, come rinchiuda il tutto, sì che [p. 584 modifica]fuora di lui non sia cosa alcuna corporale, abondantemente lo dimostrò nel progresso, e specialmente ove trattò della sua finità, della figura e del moto suo circolare; già che questo è universale assunto a cui si appoggia tutta la machina della seguente dottrina, onde a poco a poco regolatamente deve adattarsi nelle sue parti. Questa, in somma, è la ragione vera ed adequata della perfezzione del mondo, non quella del corpo che voi gli attribuite. Or discorriamo dell’altre vostre obiezzioni circa l’istessa materia.

Doppo aver nel modo predetto apportate le ragioni di Aristotile, per le quali credevate che esso provasse la perfezzione del mondo, non già del corpo, a car. 4 [pag. 35, lin. 1 e seg.] parlate di questa maniera: «Io, per dir il vero, in tutti questi discorsi non mi son sentito stringer a conceder altro se non che quello che ha principio, mezo e fine, possa e deva dirsi perfetto: ma che poi, perchè principio, mezo e fine son 3, il numero 3 sia perfetto, ed abbia facoltà di conferir perfezzione a chi l’avrà, non sento io cosa che mi muova a concederlo; e non intendo e non credo che, v. g., per le gambe il numero 3 sia più perfetto che il 4 o il 2; nè so che il numero 4 sia d’imperfezzione a gli elementi, e che più perfetto fusse ch’e’ fusser 3. Meglio dunque era lasciar queste vaghezze ai retori e provar il suo intento con dimostrazione necessaria, che così convien fare nelle scienze dimostrative». Fin qui sono parole vostre ad litteram; ma quanto poco offendino la dottrina di Aristotile, lo vedrete manifestamente. Mentre dice che quello che ha principio, mezo e fine sia perfetto, e che perciò (inferite) il numero 3 esser perfetto non vaglia, ed esemplificate del numero 2 e 4 delle gambe e de gli elementi; vi rispondo che commettete un paralogismo di divisione, passando dal numero che fu posto concretamente, insieme con le cose numerate, al numero astratto e quasi separato; overo credete che così inferisca Aristotile e v’ingannate, ed è il vostro argomento simile a questo: «Venticinque cavalieri sarebbono in un esercito, fra i pedoni, bastanti ad acquistar la vittoria col combattere valorosamente; dunque il numero 25 fa giornata, combatte, vince, riporta la vittoria». Non sapete voi che il numero, essendo accidente o quantità discreta, non si trova separato dalle cose numerate? e mentre per figura di locuzione si pone solo, si riferisce, e deve necessariamente riferirsi, a i pregiacenti soggetti nominati, come, per essempio «Tre soldati combattono, tre vincono, tre trionfano», se ben si pongono più volte i tre soli senza quel termine di soldati, nondimeno si riferiscono a i supposti predetti, come è natura di ciascun termine concreto. Così il numero di 3 all’aristotelica è perfetto, mentre è connesso con i suoi fondamenti di principio, mezo e fine; e da questa fondamental perfezzione, come da più eccellente e più convenevole all’universo, per singoiar attributo ha il numero ternario astratto ricevuto dignità venerabile, non che per sè o da sè, separato, sia tale: del che potrei addurvi essempi di cose sopranaturali, e credo che lo sappiate ancor voi senz’altri essempi. [p. 585 modifica]Le gambe, dunque (per tornar all’esame delle vostre posizioni), e gli elementi parimente, per esser due quelle o più, e questi quattro, hanno la perfezzione dall’entità, misurata, non già eonstituita da numeri astratti; e così la trina dimensione del corpo, per cui si rende perfetto, non deve attribuirsi all’astratto, che non ha altro esser che dall’intelletto nostro. E mentre insinuate che in questi numeri astratti, secondo la dottrina mistica di Pittagora, siano rinchiusi altissimi sensi, a bel studio celati al volgo da’ sapienti, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano, e lo stimasse partecipe di divinità, solo per intender egli la natura de i numeri, io prima vi dico che costoro non parlavano di quantità astratte, ma dei fondamenti loro. Pittagora per tanto poneva per principii di tutte le cose le unità, delle quali si compongono i numeri, e per queste unità intendeva principii talmente primi ed independenti, che non fussero composti di altri, nè in altri risolubili: e tale è veramente la natura e condizione de i veri principii; di modo che la sua dottrina era che le unità overo entità prime indivisibili fussero principii delle cose, proporzionate però a i lor effetti over principiati, ed in questa proporzione, secondo la diversità di gradi entitativi, si formava ne i composti diversa perfezzione, non già dal puro numero astratto: come, per essempio, che i numeri armonici faccino, in tal o tal proporzione congiunti, una tal consonanza o armonia, e che tante voci, con tali disposizioni di acuto o grave, meglio si convengano, ciò non avviene perchè il due o il tre astratto abbia virtù alcuna operativa, ma sì ben la natura di quelle voci, che nel più o meno aggregano virtù diversa e varia armonia; non altrimenti di quel che occorre nelle medicine composte di varii liquori, ove non ha che far nè il ternario nè il quaternario, se non in quanto dinotano tante nature o liquori esistenti. Nè deve parer maraviglia che questi numeri contenessero difficultà e misteri, perchè anco i principii peripatetici ciò contengono, come specialmente è noto di quei che chiamano ultime differenze o principii di individuazione.

De i numeri dunque concreti, non de gli astratti, parlavano i predetti filosofi. Di Pittagora lo dice espressamente Aristotile nel 3° della sua Fisica, al testo 25, con so queste parole: Veruni Pythagorei quidem in sensibilibus; neque enim abstractum faciunt numerum; e se bene voi non credete ad Aristotile nella dottrina, questo però è un punto istorico, conosciuto da lui che era vicino a quei tempi ne i quali erano quelle dottrine in fiori, nè Aristotile l’avrebbe apportato per sua difesa, pronosticando forse le vostre obbiezzioni contro di lui. Pur se non volete accettarlo, non importa: considerate le ragioni. Platone parimente per l’unità intende l’idee. Ve ne apporterei l’istesso testimonio di Aristotile, al testo 22 del 1° della Fisica, il qual, essendo stato discepolo di Platone, quantunque ragionevolmente ributti queste idee, però nel dire che Platone le chiamasse unità non è imaginabile che dica il falso, avendo scritto a i tempi che la dottrina Platonica era notissima, nè questo poteva esser punto di controversia: pur, se nè anco credete, v’apporterò [p. 586 modifica]la dottrina di ambidoi i predetti filosofi. Avendo essi, dunque, universalmente trattato di numeri come di principii delle cose, acciò si conoscesse come erano principii e quanti, constituivano i loro concreti, con ordine di opposti, sino al numero denario, ed erano questi: Finito ed infinito, pare ed impare, semplice e multiplice, destro e sinistro, maschio e femina, moto e quiete, retto e curvo, lume e tenebre, bene e male, quadrato e di altra parte longo; e così questi numerati, più tosto che i numeri da essi astratti, erano presi per principii. E circa la posizione di questi numeri concreti erano i Platonici concordi con Pittagorici, eccetto che nella universalità dell’applicazione, conciosia che Platone estendeva queste unità anco all’idee ed alle cose tutte immateriali create, Pittagora solo l’attribuiva alle cose sensibili. Volea per tanto Platone che le unità fossero i primi principii colligati all’entità, o le semplici prime entità intese per unità, e di queste si facessero prima l’idee, come forme dalle quali avesse a derivar l’esser formato o perfetto delle cose composte, ed il magnum e parvum (come dice egli stesso) che fusser la lor materia; onde sempre appare che suppone i fondamenti a i numeri. Il che più manifestamente si vede mentre, parlando dell’anima del cielo e dicendo che consti di numeri, dichiarando che cosa intenda per questi numeri, dice non esser altro (a questo proposito) che i moti ed i circoli del cielo, e tanti esser i numeri quante sono le sfere celesti. Ma se mi diceste: «L’idee, dette unità da Platone, sono pur astratte; dunque così le pone per principii, non già in concreto», vi rispondo che l’idee si chiamano da esso astratte non come il numero dal suo fondamento, ma come l’universale dal particolare, nel quale universale si salva pienamente la natura de’ suoi particolari, come l’umanità astratta o l’esser animail ragionevole dice l’integrità dell’uomo, e non una unità senza altra natura. Chiamava, dunque, unità Platone l’idea, perchè volea che consistesse in una quiddità over essenza indivisibile, esente da ogni generazione, anzi da ogni mutabilità; chiamavano i principii, ambi questi filosofi, numeri, per l’ordine che primieramente ne i numeri si conosce, per la varietà ch’apportavano nel constituir gii effetti, già che ogni unità varia il numero, come ogni principio essenziale il suo composto; nel che dicevano bene, e con essi per simiglianza si accorda Aristotile, onde disse nella sua Metafisica: Species sunt sicut numeri, cioè variabili da essenziali primi principii, come i numeri dalle unità: ed eccovi accennati i misteri de’ Pittagorici e di Platone intorno all’unità ed a i numeri.

Il dir loro che l’intelletto umano sia partecipe di divinità per l’intelligenza de’ numeri, altro non è che dire che l’umana felicità, in quanto concerne la parte intellettiva, consiste nell’intender le cause ed i principii delle cose, come anco ne fu in sentenza scritto: Felix qui potuti rerum cognoscere causas, e nella sua Etica lo concede anco Aristotile, e quasi tutti i più savi. Non sono dunque astratti i numeri, nè per tali astratti ternarii fa le sue prove [p. 587 modifica]il Filosofo, ma si intende nel modo che io ho esposto: e se pur volete che ne i numeri così astratti siano rinchiusi sensi e misteri reconditi divini, nascosi al volgo (come dite), volendo impugnare la dottrina di Aristotile, mirabilmente la confirmate. E sentite se è vero. È cosa infallibilmente credibile che le discipline di Platone e di Pittagora fossero a i tempi di Aristotile più note e più divulgate a gli uomini di quel che siano a’ giorni nostri; se dunque così stimate (come è dovere), forse in quel tempo si sapea qualche occulto misterio o recondito senso del numero astratto, massime del ternario, già che con tanti encomi lo celebravano e gli davano, per commun consentimento over uso di parlare, attributo di omne e di perfetto: già di ciò non era inventore Aristotile, ma usa i termini ricevuti e (da credere) approvati; per conseguente dunque si serve di questo numero acconciamente, nè voi lo potete riprendere, non sapendo, secondo l’intelligenza di quei tempi, la perfezzione del numero ternario, come la suppone Aristotile; e se la sapete, fate male ad impugnarla e contradite a voi stesso, dicendo, non intender che il 3 sia più perfetto del 2 over del 4 etc. E se pur altri siano i misteri di questi numeri, e voi come provetto matematico insinuate sapergli, producete frutti di sapienza così singolari al mondo, a beneficio di studiosi, a gloria del vostro nome, e distintamente svelate gli errori di Aristotile col dar il suo dovere a i numeri, e non stiate, in cose importantissime filosofiche, nell’obiezzioni meno che dialettiche. Non intendo però che in verità fusse virtù in tali numeri astratti, ma per ritorcervi contra la vostra propria posizione. Procede per tanto Aristotile nella sua dimostrazione filosoficamente dalla natura delle cose, non con vaghezza di retori, come voi dite, anzi, senza mancar dal decente e dal venerabile, è rigorosamente ristretto.

Mentre poi più a basso, a car. 4 [pag. 36, lin. 1 e seg.], dite che le ragioni di Aristotile, con le quali prova tre esser le dimensioni del corpo, nè più nè meno, non siano sufficienti, e che voi con dimostrazione matematica le dimostrarete meglio, io vi rispondo che sì come una scienza è diversa dall’altra, così parimente i principii e te dimostrazioni devono esser diverse, essendo che in queste e quelli consista la natura ed ordine loro; e quantunque tal ora una conclusione si consideri in diverse facoltà, per dimostrarla poi ciascuna deve usar i proprii principii: altrimenti le scienze sarebbono fra loro confuse, o in una se ne contenerebbono molte; e l’uno e l’altro è falsissimo. È parimente vero che nelle scienze le quali hanno fra sè stesse qualche connessione o dipendenza (il che accade di molte, come della fisica e della medicina, della metafisica e dell’altre particolari), si prende alle volte per più evidenza alcuna proposizione, definizione, o massima dell’altra; ma non è però necessario addurvi anco i principii e ragioni, che si usano proprii in quella onde si prende. Dico ancora che quando una scienza precede l’altra nell’impararsi, le cose o posizioni della precedente si suppongono per note, nè vi si apportano altre dimostrazioni nella scienza [p. 588 modifica]susseguente: e tutte queste cose sono per sè evidenti. Or al proposito nostro: il matematico considera la mole corporea, e la considera anco il fisico; quello deve procedere per via di misure, di compassi e di altri stromenti e ragioni a ciò rispondenti; il naturale per i suoi, come ho detto: e di più, essendo solito ne i tempi di Aristotile avanti ogni altra scienza impararsi la matematica, quello che era stato nella matematica insegnato, si supponeva per noto nell’altre scienze e si memorava ad essempio, come osserva l’istesso Aristotile quasi in tutte le sue scolastiche: per queste cagioni dunque, ha pretermessa questa sorte di dimostrazione, non già che non la sapesse, come troppo liberamente gli imponete; a voi, che procedete per vie matematiche, ben vi toccava. Nè è questa dimostrazione vostra di tanta estrema sottigliezza, che abbiate da pregiarvene, come di miracolo novo, stupendo, inaudito; anzi che come non sarebbe effetto di gran lode che un perito architetto sapesse aggiustatamente misurar la grandezza e le parti principali de gli edificii, così che un celebre matematico sappia misurar o dimostrar le tre dimensioni del corpo, essendo sì facili ed intelligibili i fondamenti, che non solo ad Aristotile, ma ad ogni ordinario professore, possono esser noti, o con poca fatica conoscersi. Ha proceduto dunque Aristotile, nella sua dimostrazione, ragionevolmente.