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582 | esercitazioni filosofiche |
la prima consiste nell’eccellenza delle cagioni, de i principii, delle parti che chiamano essenziali, delle proprietà, effetti, accidenti e simili; l’altra, nell'aver quantità convenevole, che non ve ne manchi parte alcuna. Come nel primo modo si direbbe perfetto un uomo che avesse l’intelletto distinto, gli organi, le potenze, i sensi, ben disposti all’operazioni, e l’opre istesse aggiustate e degne di persona ragionevole, nel secondo modo egli sarebbe perfetto mentre fusse di compita statura, non gli mancasse alcun membro, non fusse nano, etc.; e secondo questa considerazione, niuna parte può chiamarsi assolutamente perfetta, essendo ordinata al suo tutto e, per conseguente, potenziale e manchevole, se bene, come parte, può aver la perfezzione dovutale. Or, mentre Aristotile in questo capo precitato vuol provar la perfezzione dell’universo, intende parlare solamente della sua integrità o mole, cioè che non sia parte, nè che gli manchi parte alcuna, ma sia tutto pienamente: dell’altra perfezzione tratterà in tutti quattro i libri del Cielo, ne ha trattato nell’ottavo della sua Fisica, ne i libri delle Meteore, della Generazione, e della Metafisica ancora, già che quanto in questi si tratta e quanto del cielo si discorre o gli si attribuisce, tutto appartiene a conoscer la perfezzione della sua natura. Deve parimente avertirsi, che per il nome del cielo non sempre s’intende quella sostanza superna ove si veggono il Sole, la Luna e le stelle e che per eccellenza vien communemente chiamato cielo, ma si prende spesso per il mondo tutto; anzi in questo secondo significato Aristotile lo intende, mentre vuol provare che sia perfetto. È dunque il breve e chiaro senso di questa sua questione, se il mondo sia perfetto di mole.
Per venir dunque a dimostrar questo assunto, premette alcune necessarie definizioni, cioè del continuo, del corpo, della linea e della superficie. Da quella del corpo conchiude che esso corpo sia perfetto, avendo tre dimensioni, longhezza (dico), larghezza e profondità, alle quali non si può aggiungere altra magnitudine, non se ne ritrovando più; talchè l’esser perfetto ed omne (a questo proposito in questo soggetto del corpo) è l’istessa cosa, dicendosi perfetto quello a chi niuna cosa manca, e per consequente le contiene tutte ed è tutto: di modo tale che questi tre termini, omne, totum, perfectum, non hanno varietà di essenza, ma la ricevono solamente nell’applicazione a materie diverse, conciosiachè l’omne si adatta alle quantità discrete, il totum alle continue, ed il perfectum alle forme essenziali ed accidentali ancora; ogn’uno però di essi termini dinota pienezza di perfezzione. Aggiunge a questa dimostrazione una posizione di Pittagorici per confermarla: cioè che le cose abbino la lor perfezzione nel principio, mezo e fine, che si racchiudono nel numero ternario; e che questo numero sia, per natural instinto, eletto come cosa perfetta al sacrificio delli Dei (a’ quali con vittime, orazioni ed incensi gli antichi sacrificavano), e per certe esposizioni locuzioni greche questo per eccellenza sia il numero che prima de gli altri meriti il titolo di perfetto, già che al binario si dice ambo, non già omne, come si fa al ternario.