Esempi di generosità proposti al popolo italiano/La speranza generosa/IV
Questo testo è completo. |
◄ | La speranza generosa - III | La speranza generosa - V | ► |
Taluno domanderà: Perchè dunque ordinata da Dio la conquista della terra di Canaan? Perchè messo il piede e la mano nell’altrui, tolte ai primi posseditori tutte o parte delle rendite e terre loro? Qual è la norma che insegni a discernere la ingiusta occupazione dalla giusta, e la liberatrice potenza dalla violenza tirannica?
Potrei rispondervi che non siete in grado ancora di bene intendere queste cose; che a voi non tocca il portarne giudizio; che, trovandosi esse narrate per buone in un libro tanto autorevole, dobbiam crederle tali; che molti sono anco nella storia umana i fatti difficili a intendere, sopra la cui giustizia o ingiustizia non è lecito sentenziare leggermente, perchè la maturità de’ tempi c’insegna poi a spiegarli con rettitudine, e ci fa ravvedere de’ nostri biasimi temerarii, e delle ammirazioni servili. Potrei rispondervi che la storia tutta s’intesse di tre ordini di fatti, i più rumorosi che ci percuotono i sensi (e questi stessi non sono tutti ben cogniti a noi); gl’intimi che seguono nel secreto delle coscienze, e che son le radici de’ fatti esterni, e ne dànno la vera misura morale; e in terzo luogo, anzi il primo, i fini della Provvidenza divina, inaccessibili a noi; che anco nella vita degli uomini singolari per pregi veramente umani, noi rincontriamo cose inesplicabili, delle quali, osservando meglio, scopriamo la calunniata equità e sapienza. Ma, dopo rammentate queste cose che ci raccomandano temperanza e modestia, soggiungeremo le ragioni, pur visibili, del grande fatto; il quale, benchè singolare dagli altri, contiene insegnamenti fruttuosi anco a noi.
Non accade ricorrere a quella ragione generalissima, che Dio, padrone di tutto, dà e toglie; così come agli Israeliti ordinò che chiedessero arredi preziosi in Egitto per portarli seco. Anco questo fatto che accenno, ha ragioni speciali; e sono: che il popolo oppresso aveva già tanto lungamente lavorato in servigio de’ suoi tiranni, che quelle robe erano una parte minima della mercede dovutagli; che gli Egizii per paura di nuovi flagelli, e per levarsi d’intorno quegli ospiti ormai tremendi è da credere che spontanei dessero quelle cose, con intenzione di non più riaverle, e pur credendo di comprare quiete a buon patto; che, altrimenti, potevano negare o resistere, giacchè vedevano bene che la licenza d’una gita nella solitudine per il cammino di tre giornate era un comiato perpetuo; che la persecuzione poi fatta per isterminare i fuggenti, mettendo i due popoli in condizione di guerra, legittimava ben altro che la preda di quelle spoglie nemiche. Ma a spiegare quest’altro fatto di ben più grande rilievo, dico l’occupazione d’un intero paese, conviene ascendere a una legge suprema che governa tutte le civili vicende, e le assoggetta alle norme morali cioè le dispone secondo l’uso che fa ciascun uomo e ciascun popolo della propria libertà. Questa legge vuole che i migliori, alla fine, anco quaggià prevalgano, e (giacchè bontà perfetta non c’è), i più cattivi cedono ai meno cattivi. La moralità della storia è rinchiusa nella risposta di quel duca di Milano, che, vinto e fuoruscito, predicava di ritornare al dominio quando le colpe del suo successore fossero più gravi delle sue colpe. Chi vince nel fallo, è vinto nel fatto. La pena non segue pronta alla colpa neanco negli uomini singoli; e siccome il corpo delle nazioni si distende nello spazio, così si distende nel tempo la vita loro. Or le nazioni che possedevano la terra serbata a Israello, non solamente sconoscevano il culto del vero Dio, ma erano ree di quelle abominazioni che genera la civiltà e l’abusata potenza. E basti rammentare quel re Adonibezec, il quale, presi settanta altri re, cioè signorotti, e tagliate loro le estremità delle mani e de’ piedi, li teneva sotto la tavola a raccattare gli avanzi del pasto suo più che ferino. Questo è tal fatto che non può stare da sè, e ne suppone altri simili; ma da sè dice assai in qual profondo di snaturalezza giacessero genti che da tali uomini soffrivano d’essere dominate, e dove tali uomini ritrovavano satelliti pronti.
Il popolo al quale era affidata la tradizione religiosa più intera, e da cui doveva diffondersi una rivelazione che si distenderebbe a tutta la vita del genere umano, essendo pure una società d’uomini che potevano abusare del libero arbitrio come gli altri tutti, se fosse stato infallibile ed impeccabile, avrebbe trascesi i limiti dell’umanità, con la quale non avrebbe mantenuti quei civili consorzii che avevano a essere di reciproco giovamento: e, d’altra parte, dal contrapposto delle imperfezioni di lui coll’altezza della legge da lui conservata, doveva alla divinità di questa venire sempre maggiore risalto. Ma alla nazione portante in sè grandi destini, dovevasi pure uno spazio di terreno distinto, dov’ella potesse germinare; da poichè Dio ebbe provato che nè la violenza della tirannide, nè la corruzione della servitù, nè la vita lungamente vagante per mezzo alle distrazioni di tante novità tentatrici, nè la sua propria ritrosia la potettero schiacciare o dissolvere: il quale fatto è il più grande di tutti i miracoli a comprovare la sua divina vocazione. Lo spazio assegnato al suo riposo doveva essere in vicinanza de’ popoli più civili, acciocchè la verità rivelata si comunichi meglio, e acciocchè il paragone di quanto poco potesse l’umana scienza e virtù facesse vieppiù evidente la necessità d’un aiuto superno. Ma questo spazio di paese conveniva che fosse non già un grande impero, acciocchè alla violenza materiale non si attribuissero gli effetti del vero: e bastava che tanta ne fosse la fertilità da nutrire gli abitanti, senza però invanirli di dovizia soprabbontante e ammonirli nelle delizie de’ sensi. Or quella terra variata di monte sassoso e di valle, con acque correnti, e con vie che mettevano al mare, apriva campo agli esercizi e dell’industria e dell’ingegno; separava insieme Israello dalle genti e lo approssimava.
Ma già gli abitanti di quella terra, negando agl’Israeliti il passaggio, dimostravano il mal volere; e toglievano luogo a quei patti che avrebbero pur potuta acconciare a qualche modo il popolo pellegrino, senza che ne seguisse la loro rovina. Qui, come altrove, Dio lascia ai men buoni la libertà di correggersi, d’evitare o attenuare la pena; poi, degli errori commessi liberamente fa grado al compimento dei suoi altri disegni. Se non per guerra ma per flagello miracoloso si fosse ai profughi sbrattato il terreno distruggendo i loro nemici, sarebbe parsa immeritata la pena; e i privilegiati del nuovo soggiorno avrebbero dalla facile vittoria preso orgoglio senza punto esercitare la fiducia di Dio e insieme il proprio valore. Toccava ad essi col proprio pericolo cooperare all’acquisto; e insieme conoscere che il pericolo, anco animosamente affrontato, non si sarebbe potuto per loro virtù superare. Dovevano combattere come se nell’armi proprie ponessero la speranza; e dovevano sperare in Dio come se procedessero inermi; compire insomma un atto d’umano coraggio e di fede religiosa; e, umiliandosi, conservare innanzi agli uomini e alla loro coscienza la propria dignità.
Importa, del resto, notare che non tutti furono sterminati gli antichi abitanti; che ai novelli toccò in più luoghi la parte montuosa, non le valli feconde; che non soli i Gabaoniti ma altre stirpi ancora sino alla fine abitarono in mezzo ad essi: dal che si comprova come, venuti in tempo a patti, avrebbero potuto evitare gran parte de’ danni patiti. E anco questa prossimità di razze e culti diversi, era destinata da Dio a tener desto ed esercitato il coraggio insieme e la tolleranza, a provare la fede e a crescerne il merito, a rendere la verità più cospicua per il paragone.
Che la conquista fosse ordinatamente partita tra tanta gente senza che ne sorgessero litigi e guerre nè allora nè poi, cotesto potrebbe parere non insolita cosa; dacchè un ordine, una concordia, una dipendenza vediamo possibile, o piuttosto necessaria, tra gl’invasori, tra gl’iniqui tra gli stessi ladroni di strada. E anche questa è, chi ben pensi, una legge tremenda, la quale ci dimostra due cose. Dimostra in prima come l’ubbidienza, in tutti gli stati di vivere umano, per sfrenati che voglionsi, è ineluttabile; ch’anzi a fare il male richiedonsi dall’un lato imperii più ferrei, e dall’altro soggezione più dura. Poi dimostra come, se, nella stessa ingiustizia e nell’orgoglio della vittoria, i vincitori trovano modo di mantenere una certa misura, e, quando vogliano vivere e non essere divorati dalla terra in cui fingono l’asta insanguinata, debbono costituire una specie di società non solo tra sè ma coi vinti, e osservarla. Cotesto significa che o prima o poi e’ debbono meritarsi la vittoria; e che i vinti, sottostando, patiscono la pena dell’avere abusata la libertà e la potenza. Ma nell’avvenimento di cui ragioniamo discernonsi alcune singolarità che lo fanno essere unico. Le solite depredazioni, delle quali è desolata la storia del genere umano come se fossero intemperie assegnate a certe stagioni, ci mostrano, e nel primo impeto dell’invadere e nel possesso continuato, sfoghi della cupidigia e dell’avarizia, se non della libidine della crudeltà abituata: ma qui un divieto severo sotto pena di morte interdice ai singoli vincitori d’appropriarsi pure un arnese, un filo delle spoglie nemiche; e la pena è, come sacrifizio solenne, pubblicamente eseguita. La quale tradizione d’astinenza rimane così inviscerata nella nazione, che fino nella cattività, quando la coraggiosa e benefica bellezza d’Ester ebrea (discendente dalla schiatta di Cis, ch’era quella di Saul) dona ai vinti un inaspettato trionfo sopra i tiranni, l’odio degli oppressi si sbrama nel sangue, ma delle ricchezze si serba puro, potendole ghermire impunito: memorabile esempio nella storia, e riprensione ai governi confiscatori. Nella conquista della terra di Canaan, le morti dei nemici stessi non sono lasciate all’arbitrio furibondo delle plebi incorrenti; ma il cenno de’ capi ne limita il numero, e ne allontana ogni senso di vendetta rabbiosa. E questo principalmente si noti, che nelle altre conquiste un popolo guerriero si sovrappone a uno più debole; e, sterminatane parte, sforza l’altra ai tributi, riscuotendoli coll’armi in pugno; e il privilegio delle armi serbano a sè. Ma qui gli è un popolo pastore che, fattosi mirabilmente guerriero, combatte uomini robusti, e da maggiore civiltà resi più bellicosi, non già più fiacchi; e non pertanto, conseguita la vittoria, s’adagia nelle arti di pace. Dal guadagnato terreno non intende di far germogliare a sè i frutti dovuti al dolore dei vinti; del sudore proprio egli lo deve inaffiare, e più veramente che col ferro della spada, con quello del vomere conquistarlo.
Insin dal primo sono assegnati alla conquista i confini, acciocchè la speranza abbia un limite insieme con la fatica, e la cupidità non accresca, come suole, i pericoli. Non dal capriccio di coloro che saran per goderne è fatta la distribuzione del suolo, ma per sorti prestabilite dall’uomo stesso che diede al popolo la costituzione religiosa e sociale; e con l’equanimità affettuosa del padre, con la fermezza del legislatore, con l’autorità dell’inviato da Dio, colle benemerenze del liberatore, Mosè fa le parti al suo popolo dal suo sepolcro. Tante generazioni eran corse dacchè Giacobbe aveva raddoppiata a Giuseppe l’eredità facendo Efraimo e Manasse in capi di due distinte tribù: adesso, quella tradizione, vivente come testamento profferito dal labbro stesso di Giacobbe sul suo letticciuolo, quella tradizione si avvera; e Manasse ed Efraimo ottengono doppia porzione del suolo, le altre dieci tribù acconsenzienti. A eseguire la volontà di Mosè, e sciogliere i dubbi che nel fatto dovevano insorgere, Giosuè non è solo: accanto al capitano guerriero, come già Aronne accanto a Mosè, siede il figliuolo d’Aronne, il supremo sacerdote Eleazaro; autorevole tanto più, che i sacerdoti non prendono parte nel dominio della terra; ma hanno giumenti e gregge a lor uso, e città da abitare. Per tal modo, quel che si deve al decoro del sacerdozio, che non dipenda, e non paia dipendere, dagli arbitrii dei molti che pagano, è provvidamente conciliato con quel molto più che si deve alla divina sua dignità e a’ formidabili suoi doveri, che non isperda i pensieri e gli affetti e il tempo e la potestà in cure men alte di quelle alle quali egli è destinato. Nè soli Giosuè ed Eleazaro, ma i capi di famiglia, fanno la partizione a ciascheduna tribù; e in questo modo il governo domestico e il militare e il teocratico e l’aristocratico si compongono in esemplare armonia. Perchè della possibilità e della bontà di tutti i governi doveva offrire l’esempio a tutti i secoli questa piccola nazione maravigliosa: e come nella terra straniera e nella schiavitù e nella peregrinazione si possa conservare inestinta l’unità della vita; e come gli ottimati governino patriarcalmente le moltitudini conscie del proprio valore testificato e a ciascun uomo dalla credenza in un Dio padre comune; e come la fermezza delle consuetudini possa evitare i pericoli del governo elettivo; e come il monarchico, se vuol essere tollerabile, debba sempre esser temperato e dalle consuetudini e dal consenso degli ottimati, consenso non interrogato a ludibrio; e come, ciononostante, il reggimento di pochi o d’un solo sia dato in gastigo alla spensierataggine o alla licenza di coloro che non sanno governare sè stessi; e come tanto ai re quanto ai popoli sia imposta, per pena del male commesso o lasciato commettere, la dominazione straniera e la migrazione, le carceri e i patiboli, il tardo pentimento e l’infamia; e come il lungo patire, se gli aggiunge merito un senso di virtù, espii la colpa, terga la vergogna, rigeneri; e come allora le memorie ispiratrici risorgano, torni agli animi l’ardimento, il nerbo alle braccia; e non dai palagi dei re, non dagli stranieri incautamente invocati, ma dall’intimo seno della nazione, si faccia sentire la speranza e la vita.