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sè stessi; e come tanto ai re quanto ai popoli sia imposta, per pena del male commesso o lasciato commettere, la dominazione straniera e la migrazione, le carceri e i patiboli, il tardo pentimento e l’infamia; e come il lungo patire, se gli aggiunge merito un senso di virtù, espii la colpa, terga la vergogna, rigeneri; e come allora le memorie ispiratrici risorgano, torni agli animi l’ardimento, il nerbo alle braccia; e non dai palagi dei re, non dagli stranieri incautamente invocati, ma dall’intimo seno della nazione, si faccia sentire la speranza e la vita.


Tempo è che vediamo ancora meglio come la storia di questo popolo, la quale sembra voler essere eccezione dalle altre, possa farsi a noi tutti maestra. Impariamo primieramente di qui, come a voler compire un’impresa grande sia condizione principalissima la coscienza della propria missione; come le voglie svogliate, i lenti tentamenti, le speranze che piegano or qua or là ad amminicoli umani e bassi, non bastino, siano anzi augurio pessimo. Non solo quelli tra’ conquistatori che resero servigio alla civiltà più diretto, sentirono d’essere chiamati a questo, e ricevettero da tal sentimento una qualche dignità e autorità; ma quelli stessi che incorsero depredando e distruggendo, o gridavano espressamente d’essere flagelli di Dio, ministri d’una grande giustizia, o dimostravano co’ fatti d’averne il mandato tremendo. Ma, lasciando di questo, a render ragione d’ogni conquista, a legittimarla o scusarla, richiedesi che l’uomo, nell’atto d’ubbidire a una potenza maggiore della propria, eserciti una qualche virtù che lo renda maggiore del popolo