Esempi di generosità proposti al popolo italiano/La speranza generosa/V

La speranza generosa - V

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[p. 109 modifica]Tempo è che vediamo ancora meglio come la storia di questo popolo, la quale sembra voler essere eccezione dalle altre, possa farsi a noi tutti maestra. Impariamo primieramente di qui, come a voler compire un’impresa grande sia condizione principalissima la coscienza della propria missione; come le voglie svogliate, i lenti tentamenti, le speranze che piegano or qua or là ad amminicoli umani e bassi, non bastino, siano anzi augurio pessimo. Non solo quelli tra’ conquistatori che resero servigio alla civiltà più diretto, sentirono d’essere chiamati a questo, e ricevettero da tal sentimento una qualche dignità e autorità; ma quelli stessi che incorsero depredando e distruggendo, o gridavano espressamente d’essere flagelli di Dio, ministri d’una grande giustizia, o dimostravano co’ fatti d’averne il mandato tremendo. Ma, lasciando di questo, a render ragione d’ogni conquista, a legittimarla o scusarla, richiedesi che l’uomo, nell’atto d’ubbidire a una potenza maggiore della propria, eserciti una qualche virtù che lo renda maggiore del popolo [p. 110 modifica]contro il quale egli è destinato a combattere, lo renda rispettabile o tollerabile al popolo ch’egli prende a voler liberare. La vittoria è tentatrice, e porta nel suo grembo il veleno che la spegnerà, se il fortunato non usi per rimedio una provvida diffidenza di sè, una fraterna confidenza e una pietà rispettosa verso coloro co’ quali egli è per entrare in consorzio, e fors’anco in lotta.

Una ingiusta vittoria può essere da fatti susseguenti espiata e quasi legittimata; può essere, contro il volere de’ vincitori e de’ vinti, nelle mani di Dio un riparo a mali più gravi e più schifosi e più lunghi, una lenta e dura educazione mutua, quasi cammino asprissimo al meglio: ma può d’altra parte la vittoria legittima, conseguita in guerra di difesa santa, nonchè d’offesa, essere profanata da indegne intenzioni, da mezzi ignobili, essere dall’abuso frustrata, conversa in ignominia e rovina. Anche quello che ci è giustamente dovuto, si può ingiustamente rivendicare e tenere; e troppi vediamo gli abusi così della proprietà privata come della pubblica potestà. Quindi pretesto e tentazione ai furti e alle rapine, alle incursioni e alle dominazioni violente: le quali, alla volta loro, si fanno fornite di rappresaglie e discordie e rivoluzioni: e, dall’un lato e dall’altro trovandosi una porzione di diritto staccata dal dovere, ciascuno grida sè legittimamente invasore o legittimamente ribelle. Le minacce che precedono allo scoppio della violenza, possono farcisi avvertimenti salutari: e le rivoluzioni sono rivelazioni della giustizia oltraggiata.

Più fruttuosa moralità della storia si è questa che i vantaggi ottenuti o coll’armi o col senno, non basta esserseli nell’origine meritati; bisogna continuare tutti i dì a meritarseli nell’opera perseverante dell’onesta fatica e del retto pensiero e delle affezioni e delle opere generose. Bisogna coltivare il terreno conquistato, [p. 111 modifica]come coltivasi un campo, che dia frutti, e non pruni; che le acque ci corrano salutifere, non giacciano in stagno che ammorbi. Bisogna tener nette le mani che reggono le sorti de’ popoli, come tengosi nette le mani che aiutano a lavorare e a mangiare, per decenza e per sanità, per rispetto e degli altri e di sè. Or quando un popolo o un governo viene a soprapporsi all’altro egli è dalle leggi di natura, nonchè dalle morali, obbligato a dare o a ricevere qualche cosa: non parlo del prendere oro e terreno, del distribuire busse e schiaffi; ma dico del dare o del ricevere alcuna cosa di buono e di vero. Se il nuovo reggitore è meno civile, sia docile e apprenda; se più, sia paziente e pietoso, e ammaestri. S’e’ non sa essere nè maestro nè discepolo, nè correggersi nè correggere, ma solamente spogliare e schiacciare; l’ora verrà che sia anch’esso schiacciato.

Un altro caso si presenta, nuovo nella storia della famiglia umana, e maraviglioso di provvida bellezza, se la imprevidenza nostra non la contamina e non la disfa; ed è conforto il pensare che l’Italia per prima paia a fornire l’esempio destinata. Dico di popoli della medesima e lingua e religione, che non per invadere si affacciano al confine de’ popoli fratelli, ma per liberare; non alzando la mano in atto d’impero, ma tendendola all’abbracciamento, e ad un patto di piena uguaglianza1. Senonchè la novità e la grandezza dell’impresa porta seco difficoltà che pur l’inesperienza farebbe essere troppo gravi senza che le aggravassero ancora le passioni della cupidigia e della vanità, e le antichissime consuetudini della discordia, la quale, come ognun sa, tra fratelli è più atroce. A vincere tali pericoli non si richiede solo un coraggio di virtù [p. 112 modifica]più difficile del guerriero ardimento, ma un affetto gentile nella forza, il quale c’insegni a evitare ogni ombra di dissensione con più avvedimento e prudenza che non si evitino gli agguati nemici. Se sotto alle insegne liberatrici covasse, oppur paresse covar, una voglia d’ingrandimento simile al volgare appetito delle ostili conquiste; se il fratello, accostatosi al fratello, credesse vedere non dico un signore arrogante, ma un tutore molesto; se le parti non fossero pari, sì che la parità non nuocesse alla necessaria ubbidienza, a quella forza unificatrice che è la prima condizione di vita; se insomma la gara fosse d’altro che di mutui sacrifizii, e se le insolite fortune e necessità non ispirassero insoliti pensieri ed affetti; la nazione chiamata a dare di sè un sublime spettacolo al mondo, lo darebbe abbominoso, e provocherebbe sopra di sè nuove pesti, senza che la consolasse nè la compassione de’ più indulgenti nè il testimonio della propria coscienza.

Note

  1. Si può stendere la mano ai fratelli di lingua e di religione, per liberarli; s’intende, salve le leggi di giustizia; e semprechè ciò torni in meglio dei fratelli.