Esempi di generosità proposti al popolo italiano/La speranza generosa/V
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Tempo è che vediamo ancora meglio come la storia di questo popolo, la quale sembra voler essere eccezione dalle altre, possa farsi a noi tutti maestra. Impariamo primieramente di qui, come a voler compire un’impresa grande sia condizione principalissima la coscienza della propria missione; come le voglie svogliate, i lenti tentamenti, le speranze che piegano or qua or là ad amminicoli umani e bassi, non bastino, siano anzi augurio pessimo. Non solo quelli tra’ conquistatori che resero servigio alla civiltà più diretto, sentirono d’essere chiamati a questo, e ricevettero da tal sentimento una qualche dignità e autorità; ma quelli stessi che incorsero depredando e distruggendo, o gridavano espressamente d’essere flagelli di Dio, ministri d’una grande giustizia, o dimostravano co’ fatti d’averne il mandato tremendo. Ma, lasciando di questo, a render ragione d’ogni conquista, a legittimarla o scusarla, richiedesi che l’uomo, nell’atto d’ubbidire a una potenza maggiore della propria, eserciti una qualche virtù che lo renda maggiore del popolo contro il quale egli è destinato a combattere, lo renda rispettabile o tollerabile al popolo ch’egli prende a voler liberare. La vittoria è tentatrice, e porta nel suo grembo il veleno che la spegnerà, se il fortunato non usi per rimedio una provvida diffidenza di sè, una fraterna confidenza e una pietà rispettosa verso coloro co’ quali egli è per entrare in consorzio, e fors’anco in lotta.
Una ingiusta vittoria può essere da fatti susseguenti espiata e quasi legittimata; può essere, contro il volere de’ vincitori e de’ vinti, nelle mani di Dio un riparo a mali più gravi e più schifosi e più lunghi, una lenta e dura educazione mutua, quasi cammino asprissimo al meglio: ma può d’altra parte la vittoria legittima, conseguita in guerra di difesa santa, nonchè d’offesa, essere profanata da indegne intenzioni, da mezzi ignobili, essere dall’abuso frustrata, conversa in ignominia e rovina. Anche quello che ci è giustamente dovuto, si può ingiustamente rivendicare e tenere; e troppi vediamo gli abusi così della proprietà privata come della pubblica potestà. Quindi pretesto e tentazione ai furti e alle rapine, alle incursioni e alle dominazioni violente: le quali, alla volta loro, si fanno fornite di rappresaglie e discordie e rivoluzioni: e, dall’un lato e dall’altro trovandosi una porzione di diritto staccata dal dovere, ciascuno grida sè legittimamente invasore o legittimamente ribelle. Le minacce che precedono allo scoppio della violenza, possono farcisi avvertimenti salutari: e le rivoluzioni sono rivelazioni della giustizia oltraggiata.
Più fruttuosa moralità della storia si è questa che i vantaggi ottenuti o coll’armi o col senno, non basta esserseli nell’origine meritati; bisogna continuare tutti i dì a meritarseli nell’opera perseverante dell’onesta fatica e del retto pensiero e delle affezioni e delle opere generose. Bisogna coltivare il terreno conquistato, come coltivasi un campo, che dia frutti, e non pruni; che le acque ci corrano salutifere, non giacciano in stagno che ammorbi. Bisogna tener nette le mani che reggono le sorti de’ popoli, come tengosi nette le mani che aiutano a lavorare e a mangiare, per decenza e per sanità, per rispetto e degli altri e di sè. Or quando un popolo o un governo viene a soprapporsi all’altro egli è dalle leggi di natura, nonchè dalle morali, obbligato a dare o a ricevere qualche cosa: non parlo del prendere oro e terreno, del distribuire busse e schiaffi; ma dico del dare o del ricevere alcuna cosa di buono e di vero. Se il nuovo reggitore è meno civile, sia docile e apprenda; se più, sia paziente e pietoso, e ammaestri. S’e’ non sa essere nè maestro nè discepolo, nè correggersi nè correggere, ma solamente spogliare e schiacciare; l’ora verrà che sia anch’esso schiacciato.
Un altro caso si presenta, nuovo nella storia della famiglia umana, e maraviglioso di provvida bellezza, se la imprevidenza nostra non la contamina e non la disfa; ed è conforto il pensare che l’Italia per prima paia a fornire l’esempio destinata. Dico di popoli della medesima e lingua e religione, che non per invadere si affacciano al confine de’ popoli fratelli, ma per liberare; non alzando la mano in atto d’impero, ma tendendola all’abbracciamento, e ad un patto di piena uguaglianza1. Senonchè la novità e la grandezza dell’impresa porta seco difficoltà che pur l’inesperienza farebbe essere troppo gravi senza che le aggravassero ancora le passioni della cupidigia e della vanità, e le antichissime consuetudini della discordia, la quale, come ognun sa, tra fratelli è più atroce. A vincere tali pericoli non si richiede solo un coraggio di virtù più difficile del guerriero ardimento, ma un affetto gentile nella forza, il quale c’insegni a evitare ogni ombra di dissensione con più avvedimento e prudenza che non si evitino gli agguati nemici. Se sotto alle insegne liberatrici covasse, oppur paresse covar, una voglia d’ingrandimento simile al volgare appetito delle ostili conquiste; se il fratello, accostatosi al fratello, credesse vedere non dico un signore arrogante, ma un tutore molesto; se le parti non fossero pari, sì che la parità non nuocesse alla necessaria ubbidienza, a quella forza unificatrice che è la prima condizione di vita; se insomma la gara fosse d’altro che di mutui sacrifizii, e se le insolite fortune e necessità non ispirassero insoliti pensieri ed affetti; la nazione chiamata a dare di sè un sublime spettacolo al mondo, lo darebbe abbominoso, e provocherebbe sopra di sè nuove pesti, senza che la consolasse nè la compassione de’ più indulgenti nè il testimonio della propria coscienza.
Note
- ↑ Si può stendere la mano ai fratelli di lingua e di religione, per liberarli; s’intende, salve le leggi di giustizia; e semprechè ciò torni in meglio dei fratelli.