Esempi di generosità proposti al popolo italiano/Generosità perseverante
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Come al risoffiare de’ venti freddi la primavera si nasconde timida, e il sole perde della sua dolce virtù in questo povero minuzzolo di pianeta; e le nevi, cominciatesi a sciogliere, indurano ancora, e fanno precipitoso il cammino al viandante stanco, e ritardano la speranza dell’erba novella alla pecorella dimagrata e al villanello famelico ignudo; così nuove ire invide soffiarono a re Saul nell’anima, e raffreddarono quel primo dolce calore d’affetto, d’affetto poetoso più a lui stesso che ad altri. Arrabbiava seco stesso d’essersi confessato minore a Davide; arrossiva dell’avere arrossito: avrebbe, per cancellare la memoria di quel momento, voluto distruggere non so che facoltà dell’anima propria. Forse richiedeva che il genero gli si desse nelle mani; forse richiedeva che si distaccasse da que’ suoi secento, i quali a lui saran parsi tutta gente perduta; e forse quel che si volesse, non sapeva egli stesso.
Quand’ecco da capo gli abitanti di Zif che vengono a Gepsa a Saul, e con umile faccia e con gli occhi vispi e pieni di liete novelle, gli dicono: «Dovete sapere, signor nostro, dovete sapere che Davide è sul colle d’Achila, rimpiattato co’ suoi, rimpetto al deserto a man ritta, è lì Davide, se lo volete». Ma perchè dunque Davide, conoscendo il mal servigio resogli dagli abitanti di Zif, perchè bada egli ancora a rimanersene nel deserto di Zif? Perchè gli uomini schietti amano qualche volta correre pericolo piuttosto che diffidare degli altri perpetuamente. Il diffidare è noia agli uomini schietti e avvilimento: poi, temono che il sospetto li facci rei di calunnia. Perchè quel medesimo che dieci volte ha tradito, può essere che all’undecima, quando appunto io ho sospetto di lui, non pensi a tradire: ond’io gli fo torto, e pecco a Dio, sospettando così. Nondimeno, altro è credere fermamente ch’altri voglia far male; altr’è, nel dubbio, tenersi cauto. Fatto è che, all’avviso, Saul, come cane alla voce del padrone (perchè veramente le spie son padroni di chi loro dà retta), Saul con tremila mosse verso il deserto che mena ad Achila. Davide lo riseppe dalle vedette che stavano per le cime. E quando la notte fu buia, scese con due suoi compagni, senza ben risolversi a che. I lumi del campo, che prima luccicavano per il deserto come poche stelle in cielo freddo e nuvoloso, e lo facevano vieppiù mesto a vedere, erano tutti spenti. Non canti di guerra, non bisbiglio di voci, nè scalpiccio di piedi, nè scalpitar di cavallo: ma tale una quiete muta, che udivi il russare de’ guerreri più prossimi, e tra le felci giallicce il passare del vento. Disse Davide a’ due ch’eran seco: «Chi di voi fra tenda e tenda entra meco insino a Saul?». «Vengo io», disse Abisai, figliuolo di Gervia e fratello di Gioab. Si misero dunque Davide e Abisai fra le tenebre, ma non sì che non discernessero innanzi a’ lor passi le cose: e passavano tra la turba, tutt’intorno giacente come cadaveri d’uomini morti, passavano ora cansando un fascio di lance ritte l’un all’altra a contrasto, ora un cavallo giacente, ora un uomo che sta col petto scoperto e le braccia distese per la terra come su largo letto di piume: passavano cansando gl’inciampi, come fa per la china il ruscello che or volge a destra le docili piccole onde, ora a manca, secondo che l’incontra di qui o di lì un masso ignudo, o un’isoletta di pianticelle allegro-verdeggianti: passavano cauti ma risoluti, com’uomini destri a schivare pericoli, ad abbaccare fossi, a correre su tremole travi che accavalciano il torrente, a saltellare quasi in danza su ponte di taglienti macigni. Davide andava innanzi, Abisai dopo. Così vennero alla tenda di pelli tesa per riparare i sonni del re: e videro Saul che giaceva sopra pelli distese, e aveva da capo la lancia confitta in terra. Abner, il primo de’ suoi, dormiva non lontano, e altri capitani qua e là. Guardò Davide l’infelicissimo re, sepolto nel sonno; al quale forse sogni di vendetta adulavano l’odio della mente; e ineffabile pietà lo strinse in veder quella faccia solcata da rughe di lungo patimento, quelle labbra contratte dal frequente fremito, que’ capelli incanutiti dai disagi, dalle guerre audaci, e dal fuoco dell’anima tormentoso; quell’anelito d’infermo affannato, quel braccio possente che spenzola lento; quell’occhio ardente, ora spento sotto le aggrinzate palpebre, e che non si sarebbe, se Davide volesse, riaperto al sole mai più. Com’è malinconica la vista dell’uomo nel sonno! Come vengono a galla in quella calma i dolori nascosti nel fondo dell’anima, quasi avanzi di cadavere ingoiato dall’acque! Come la verità trasparisce da questa misteriosa imagine d’un più grande mistero, la morte! Davide stava immoto, quasi legato da letargo grave le membra: ma Abisai lo scosse, e col cenno disse di voler dar di piglio alla lancia stessa di Saul e inchiodarlo a terra. Ma Davide con occhio minaccioso lo rattenne, e prese l’asta che era da capo, e la coppa che il re beveva per via l’acqua della fonte; e se ne uscirono: e uscirono senza che alcuno s’avvedesse di loro, perché tutti stanchi dall’andare errando per quel deserto sì aspro; e coloro stessi che tra la veglia e il sonno avranno sentito passare que’ due, non imaginando mai tanto ardire, e non sentendo rumore più forte, avranno richiusi gli occhi e copertisi col ruvido gabbano dalla guazza notturna. Iddio permise così. Un fremito dell’aria che percuotesse più addentro negli orecchi d’un solo di que’ tremila, ed ecco Davide morto, e mutate le sorti del popolo d’Israello. I miracoli delle cose che non accadono, sono più grandi che quelli delle grandi cose che accadono; in quelli più che in questi, se li conoscessimo apparirebbe, con la bontà, la divina potenza.
Allontanatisi un poco, Davide cominciò a persuadere ad Abisai, che era ben fatto quanto egli aveva fatto; giacché gli atti generosi, al parer di taluni, sono stranezze da doversene discolpare; son furti fatti alla giustizia divina, a questa bella società civile, e a noi stessi. Dunque Davide s’ingegnò di dimostrare ad Abisai che lo stendere sopra Saul la mano omicida sarebbe stato atto reo; che Dio poteva, quando a lui piacesse, togliere la vita a Saul o per malattia o in battaglia; ma non l’avrebbe mai toccata egli, Davide. Voi direte: Se a quell’Aod fu lecita cosa, anzi merito, uccidere quell’Eglon re moabita; or perché non a Davide uccidere Saul? Vi rispondo che il re moabita era uno straniero il qual non aveva sopra il popolo d’Israello diritto veruno, e nessuno ce l’aveva chiamato, e nessuno ce lo poteva patire. Ma Saul era stato, col consenso della nazione, creato re, e confermato con cerimonia religiosa; e quantunque egli avesse fatto crudelmente ammazzare tanti innocenti, e perseguitasse Davide suo genero non l’aveva tuttavia la nazione rigettato da sé. Onde se Davide gli avesse, per vendicare i torti proprii, o mosso guerra, o tolto la vita; oltre al confondere ingenerosamente le private offese sue con le pubbliche, egli veniva ad accendere dentro del paese una guerra della quale l’esito non si poteva antivedere. E tanto è vero che la nazione non s’era divisa da Saul, ch’egli aveva più di tremila uomini armati seco; Davide non più di secento, e taluni di costoro tribolati e spintati; e si nascondeva per luoghi remoti. Ma cotesto non toglie il merito grande dell’aver sotto il taglio della spada, sotto la punta dell’asta l’uomo che m’ha fatto tanto male, e che sta per farmene, e non lo toccare, e impedire che altri stenda la mano sopra di lui.
Quando fu l’alba e che per il campo di Saul cominciavano i sommessi rumori di gente che si risente dal sonno; e già nel bianchiccio del cielo si discernevano come in rilievo le brune cime de’ monti; Davide salì in cima a un poggio dove lo potessero vedere dal campo, per intervallo di distanza sicura; e diede un grido, che alzassero gli occhi a lui tutti gli armati di sotto: e quando li vide rivolti in su tutti, chiamò a nome Abner figliuolo di Ner, e lo chiamò ancora, e gli disse «Abner, che! non rispondi?» Abner rispose e disse: «Chi se’ tu costassù che gridi e dai noia al re?» Davide a lui: «Non sei tu forse il prode di tanta fama? e chi pari a te in Israello? Or come gridi tu il guardi tu il re signor tuo? Entrò uno stanotte nella tenda per uccidere il re tuo signore. Tu qui non hai fatto da prode. Al nome di Dio, siete voi costì gente morta, che non sapete difendere il signore vostro? Or guarda un poco dov’è l’asta del re, e dove la coppa sua dell’acqua, che gli era da capo stanotte».
Poteva Davide questa seconda volta, se non la prima, menar vanto dell’atto generoso o farne come un guanto di ferro da schiaffeggiare con raffacci la faccia del re: poteva, non dico, scrivergli una lettera amara (allora non usava le lettere tanto), ma dall’alto del poggio, nella presenza di tutta la soldatesca ascoltante, chiamare il re, ribelle alla giustizia, dinnanzi a Dio, giudice e re supremo. E’ rivolge i suoi rimproveri contro Abner, il superbo ministro, il consigliere di crudeli superbie; e non tanto forse per punirlo delle male sue arti, quanto per riscuotere la sua negligenza e insegnargli a custodire un po’ meglio la vita di Saul. Conobbe Saul la voce di Davide, e disse: «Non è questa la tua voce, o Davide, figliuolo mio?». Disse Davide: «Sì, mio signore e re, è la mia voce». E soggiunse: «Per che ragione il mio signore perseguita il servo suo? Che ho io fatto, e che ingiustizia è nelle mie mani? Or ascoltate, prego o re signor mio le parole del servo vostro. S’egli è il Signore che muove voi contro me, la mia rovina sia pure un sacrifizio offerto al Signore; ma se i figliuoli degli uomini son che vi aizzano, ah costoro fan opera maledetta al cospetto di Dio; che m’hanno diredato dell’eredità del Signore, m’han messo fuori, e detto: Va, servi agli dei forestieri. Ma non sarà mai cotesto. Non fate, o re, che si sparga dinnanzi a Dio il sangue mio sulla terra. Il re d’Israello è uscito in arme, in cerca d’un misero insetto; e perseguita me come si perseguita un misero uccello selvatico per monti». E Saul a lui: «Ho fallato. Ritorna, Davide, figliuolo mio: che non ti farò più male mai, dacchè la mia vita oggi fu cara e pregiata negli occhi tuoi, sento che ho disavvedutamente operato verso di te, e che di molte cose, com’erano, non sapevo».
Davide alle promesse, alle confessioni, all’invito del re non risponde: e questa è sovente la miglior via per cansare rimproveri di torti antichi, e per causare pericoli di nuovi torti. Ma senz’altro gli dice: «Ecco l’asta del re. Salga uno de’ servi del re, che la prenda. E il Signore renderà a cascheduno secondo la bontà e la schiettezza de’ suoi pensieri. Iddio v’aveva posto in mia mano e sapete com’io mi son portato, signore verso di voi. E siccome io ho oggi avuta cara e preziosa la vita nostra così Dio abbia cara la mia, e da ogni male mi liberi».
Aveva Davide al re tolta l’asta, come per dimostrarsi valido a torgliergli l’arma di mano: ma poi glie la rende, per lasciare che la sua coscienza e Dio Signore gli disarmino meglio che la mano di lancia, l’animo d’odio; arme che si rivolge contro chi l’usa, come scioppo che scoppia e atterra l’archibusiere. Allora Saul disse a Davide: «Figliuol mio, le opere tue saranno fatti veri, e la potenza tua vera potestà».
A questo segno riconosce Saul, quantunque invido nemico, riconosce che Davide è destinato da Dio a grandi cose; a questo segno, ch’egli è generoso, che la vita e le cose del nemico hanno un pregio negli occhi di lui. E la generosità veramente è l’ottimo degli augurii presso degli uomini, e dinnanzi a Dio la più efficace preghiera. Onde ben fa Davide a desiderare che Dio così gli abbia misericordia come egli usa misericordia a chi l’offendeva. Nelle quali parole è inchiusa, come in germe, la santa preghiera che Gesù c’insegnò: Padre nostro, rimettete come noi rimettiamo. Ma in questa preghiera di Gesù buono il germe è cresciuto in grande pianta che porta perpetuo il fiore coi frutti.